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Una chiave di lettura dell'estremismo jihadista

Quadro generale

Quel che è avvenuto all’inizio dell’estate del 2014 è un qualcosa che ha stupefatto il mondo intero.  Lo “Stato islamico in Iraq e nel Levante”, nato dallo scempio perpetrato in Iraq dall’esercito di occupazione USA nel periodo 2006/2008, gli anni di sangue della repressione anti-jihadista, storicamente equiparata dagli iracheni al Sacco di Baghdad da parte dei Mongoli nel 1258, è riuscito nell’arco di poche settimane a infliggere umilianti sconfitte all’esercito iracheno, dando vita in tal modo al Califfato dello Stato islamico, che, a distanza di quasi due anni, continua ad occupare ampi spazi della Siria nord-orientale e dell’Iraq nord-occidentale; uno spazio che travalica la frontiera tra i due Paesi, lascito della presenza coloniale europea in quell’area, e che ripristina forme istituzionali proprie del mondo islamico brutalmente cancellate agli inizi del secolo scorso dagli accordi franco-britannici all’indomani del crollo dell’Impero ottomano.

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Un detestato passato sempre più incombente

 

Premessa

In un Medio Oriente devastato dalle guerre, dove eventi di rilevante importanza, quelli che la pubblicistica anglosassone chiama i “game changers”, si sono prodotti in un brevissimo spazio temporale, dal rozzo interventismo bellicista della monarchia saudita nella guerra civile in Yemen, in essere da più di quattro mesi, uno dei cui rilevanti risultati è stato un vistoso rafforzamento di Al-Qaeda in quella derelitta realtà, alla positiva conclusione del laboriosissimo negoziato con Teheran sul presunto programma nucleare iraniano, per finire all’intesa tra Stati Uniti e Turchia, costellata da zone d’ombra, vertente sulla strategia da seguire nella lotta contro il feroce oscurantismo jihadista dell’ISIL in Siria, un’evoluzione o, per meglio dire, un’involuzione si manifesta nel Paese arabo più vicino all’Italia, a un’ora di volo da Roma.

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Una crisi poco conosciuta dai preoccupanti risvolti

Premessa

Lo Yemen, realtà affascinante dalle evocazioni bibliche, si trova da tempo coinvolto in una gravissima crisi dove le drammatiche condizioni di vita della popolazione e i conseguenti devastanti effetti sul piano politico e sociale si intrecciano con conflitti di ordine settario dai risvolti molto inquietanti sui precari equilibri prevalenti sul piano regionale.

In effetti, stiamo parlando del Paese più povero del mondo arabo, privo di quelle risorse e infrastrutture di cui abbondantemente dispongono le entità della Penisola arabica. Non solo. Ma se aggiungiamo a ciò gli effetti deleteri di trenta tre anni di autocratica dittatura di Ali Abdullah Saleh, contrassegnata da un’endemica corruzione, nepotismo, contrapposizioni tribali con il loro seguito di sangue e violenza, la presenza della più forte branca di Al-Qaeda nell’universo islamico e, last but not least, daun movimento di secessione nel sud mai spentosi, si può avere un’idea del mix esplosivo che contraddistingue la storia recente dell’entità yemenita.

Lo Yemen, popolato da circa 24 milioni di abitanti, riveste un’indiscutibile rilevanza sul piano strategico; esso infatti è collocato sulla nevralgica rotta marittima che dal Canale di Suez conduce al Golfo Persico, porta di accesso al mar Rosso e luogo di passaggio dalla Penisola arabica in direzione del finitimo turbolento Corno d’Africa.

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Tunisia : un quadro finitimo piuttosto inquietante

Premessa

Il discorso tenuto dal quasi novantenne Presidente tunisino Beji Cajd Essebsi, all’indomani della strage perpetrata lo scorso 26 giugno da un commando terrorista a danno di pacifici turisti occidentali nella spiaggia di Sousse, ha dato adito a giustificate perplessità quanto alla capacità della leadership politica tunisina, democraticamente scaturita dalle prove elettorali dello scorso anno, di percepire nei suoi giusti termini i tratti fondamentali delle minacce che ora incombono sul vicino Paese magrebino. Le reazioni a tale sfida sono apparse appropriate o hanno travalicato i limiti fissati dalla Costituzione democratica approvata al termine di un prolungato, laboriosissimo e sofferto percorso nel gennaio 2014?

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Il Consiglio di Cooperazione del Golfo

Quadro Generale

Del “Gulf Cooperation Council” (GCC), istituito con l’accordo firmato l’11 novembre del 1981 ad Abu Dhabi, dopo che nel maggio dello stesso anno i Capi di Governo avevano manifestato la volontà di formalizzare i loro intenti in tal senso, fanno parte sei Paesi arabi, bagnati dalle acque del Golfo Persico e dell’oceano Indiano. Essi sono l’Arabia Saudita, Bahrein, Kuwait, Emirati arabi uniti, Qatar e Oman, membri della Lega araba e uniti da sistemi politici affini, contraddistinti, seppur in misura differenziata, da autoritarismo e politiche repressive nonché da una matrice sunnita fortemente e severamente condivisa. Lo spazio territoriale del suddetto organismo è molto vasto (2.500.000 kmq) mentre la consistenza demografica si aggira su valori proporzionalmente piuttosto bassi (39 milioni).

Il Consiglio di Cooperazione del Golfo, la cui sede centrale è a Riyadh, capitale dell’Arabia saudita, nasce all’indomani del successo della rivoluzione islamica in Iran nel 1979, con il rovesciamento del regime filo-occidentale dello Scià e con l’inizio, un anno dopo, della guerra, durata otto anni, tra la Repubblica islamica e l’Iraq di Saddam Hussein. In quell’occasione il dittatore iracheno beneficiò del sostegno dichiarato dell’Occidente, del blocco sovietico e di tutto il mondo arabo, fatta eccezione per il regime baathista siriano di Hafez al-Assad, il padre dell’attuale uomo forte a Damasco, e per lo schieramento irredentista curdo.

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