Il jihadismo e i collegamenti con le dinamiche nella regione

30 novembre 2015

 

 

Il terrorismo è l’ultimo stadio della

Violenza. La povertà ne è il primo.

La mancanza di cultura porta alla

Lettura deviata dei testi religiosi.

Su questi detonatori prospera il

proselitismo dell’ ISIL.    ( Rachid Ghannouchi )                             

 

Premessa

 Nella mia precedente riflessione ho attirato l’attenzione sull’espansione territoriale dell’idra jihadista e su come i jihadisti dell’ISIL continuino, a distanza di più di un anno, a occupare  vasti spazi della Siria nord-orientale e dell’Iraq nord-occidentale, mantenendovi un sistema oppressivo di governo, del quale le donne sono le principali vittime, basato sulla versione più severa ed intrattabile della legge coranica o sharia.

Abbiamo altresì visto come la risposta militare dell’Occidente non si sia fatta attendere ma come essa non abbia interamente sortito gli effetti sperati[i], anche per i pesanti condizionamenti diplomatici di cui gli Stati Uniti sono tributari nell’area medio-orientale da parte di Potenze regionali, in primis l’Arabia saudita e la Turchia, che perseguono obiettivi  non propriamente  collimanti con quelli perseguiti da Washington e dai suoi alleati europei; condizionamenti, tuttora persistenti, che spiegano le incongruenze della posizione americana nonché in larga misura certe apparenti esitazioni.

Gli USA hanno fatto il loro reingresso nello scenario medio-orientale riprendendo le serie dei bombardamenti aerei, prima nel nord dell’Iraq e, successivamente, nei cieli siriani.  A questo ha fatto seguito, a partire dalla fine dello scorso settembre, un allargamento dei coinvolgimenti esterni nella tragedia siriana con l’inizio di una serie di bombardamenti aerei e navali russi, in un’impressionante dimostrazione di forza,  la cui principale finalità è di garantire gli interessi di Mosca in Siria, tradizionale alleato del Cremlino e l’unica porta d’ingresso rimasta perché la Russia continui a contare nel concerto delle Potenze in Medio-Oriente dopo i cruenti cambiamenti intervenuti nella zona. Questo obiettivo sembra essere raggiunto alla luce di tragici eventi che hanno vieppiù fatto comprendere alle diplomazie dei principali Paesi l’imprescindibile esigenza di moltiplicare gli sforzi per una soluzione politica del dramma siriano; il che beninteso non vuol dire che si sia prossimi a raggiungerla[ii].

L’intervento militare russo è stato determinato da un andamento del conflitto che si stava rivelando pericoloso per la stessa sopravvivenza del regime di Baschar al Assad, messo a mal partito dai successi registrati dalle milizie, islamiste per lo più, unite dal comune intento di rovesciare il regime alauita per un dopo-Assad  irto di incognite nonché di minacce e pericoli soprattutto per le minoranze etnico-religiose più vulnerabili, appartenenti all’entità siriana; aspetti questi ai quali L’Occidente continua a riservare una irresponsabile scarsa attenzione, meritevoli per converso di considerazione se non altro per le incidenze che un dilagare del mostro jihadista, già presente sulle coste libiche e nel Sinai egiziano, imperversante nel finitimo Libano[iii], comporta, come recenti tragici episodi hanno mostrato, anche per la nostra stessa sicurezza[iv].

Abbiamo dunque visto come la reazione occidentale abbia, solo in misura contenuta, indebolito le formazioni militanti islamiste, ISIL e lo schieramento, affiliato ad Al-Qaeda, di “Jabhat al Nusra” (il Fronte vittorioso) le quali, oltre che militarmente forti,  godono, particolarmente nel caso dell’ISIL, di una consistenza finanziaria assai rilevante data dagli introiti derivanti dall’occupazione dei territori, dalle transazioni commerciali con compiacenti finitimi Paesi e dai canali di finanziamento di cui sono destinatari, in particolare dagli ambienti sunniti delle autocrazie del Golfo.

E’ bene altresì rilevare come al confronto scarso appaia il peso politico della Coalizione Nazionale Siriana, presente ed operante in Turchia, all’interno della quale mal coesistono i confliggenti interessi dell’Arabia saudita e di Qatar, le cui rivalità e giochi di potere non sono praticamente mai cessati.  La C.N.S. non gode di eccessiva credibilità al livello della galassia di formazioni militanti anti-regime operanti sul campo in Siria. La sua estrinsecazione militare, il “Free Syrian Army”, indebolito dalle numerose diserzioni e da una mancanza di unità negli intenti perseguiti, non risulta in grado di poter incidere in maniera decisiva nel rapporto di forze sul piano militare al punto che gli Stati Uniti si sono visti recentemente costretti a sospendere il programma di assistenza e di addestramento a favore di formazioni di fatto succubi dello strapotere delle milizie islamiste, procedendo in alternativa alla fornitura via aerea di materiale bellico a favore di comandanti militari ritenuti scevri di influenze jihadiste.

 

Lo spessore dello Stato islamico

Un rapporto recentemente pubblicato dalla NATO[v] dà un’idea abbastanza chiara della forza di un movimento che continua a far proseliti provenienti da ogni parte del mondo, alla ricerca illusoria di un riscatto sociale che li liberi da una condizione esistenziale rattristante e di avvilente emarginazione. In effetti, una delle caratteristiche salienti dell’ISIL è la sua composizione polietnica, anche nelle zone nelle quali esso esercita un dominio territoriale, a dimostrazione del messaggio di cui si rende portatore quel movimento, il cui obiettivo ultimo è di travalicare le frontiere e le barriere imposte in passato dalle potenze coloniali. Il punto di riferimento del Califfato rimane la Ummah o comunità islamica che rifiuta gli artificiali confini e che vede nell’Islam nella sua versione più severa l’unico reale discrimine, verso il quale devono convergere tutti coloro aderenti alla religione del Profeta. Il magnete di principale attrazione dell’ISIL è dato, in effetti, dall’aver realizzato quello che al-Qaeda non è riuscito fino ad ora a conseguire, ovverossia la creazione di un’entità “autenticamente e legittimamente” islamica, la prima al mondo; in ciò traducendo in realtà il profondo recondito desiderio di ogni mussulmano: l’istaurazione di un Califfato come organizzazione politica, dove regna la legge coranica, in grado di esercitare una sua autorità sul territorio; rieditando in tal modo un assetto scomparso con la fine dell’Impero ottomano al termine della Prima guerra mondiale.

Secondo i dati forniti dai centri di ricerca dell’Alleanza militare atlantica le comunità sottoposte alla brutale dominazione del gruppo jihadista oscillerebbero  tra  gli 8 ed i 10 milioni di sudditi, principalmente sparsi nei territori che attraversano  la interminabile frontiera siro-irachena. La dimensione geografica degli spazi dove vige la versione più intollerante e più deviata del messaggio del Profeta equivarrebbe a quella del Regno Unito.

In definitiva il terrorismo islamico ha realizzato un notevole salto di qualità rispetto a quel che era riuscito a conseguire la formazione rivale di Al-Qaeda, orba del defunto Osama bin Laden, cui è subentrato nel giugno 2011 l’egiziano Ayman Al-Zawahiri, figura sicuramente priva del carisma posseduto dal suo predecessore saudita[vi].

Il controllo sul territorio permette allo Stato islamico di finanziare le proprie attività attraverso una tassazione severa applicata sulle persone e sulle cose e uno sfruttamento delle locali risorse, rappresentate, oltre che dal petrolio, anche dall’acqua, i cui approvvigionamenti vengono erogati ed assicurati dalle strutture del gruppo jihadista.

Come evidenziato dagli analisti della NATO  le fonti di finanziamento dell’ISIL non si fermano qui. Il commercio e la vendita di oggetti artistici, prelevati e sottratti in esito alle distruzioni e ruberie perpetrate nei luoghi “Patrimonio artistico dell’umanità”, in Iraq e in Siria, costituiscono un canale attraverso il quale i terroristi rimpinguano le proprie casse, rafforzando le propria capacità e la propria credibilità delle quali si avvalgono nell’esercizio del proprio efferato dominio. Le vendite illegali di tali beni vanno dunque di pari passo con il denaro ottenuto attraverso lo sfruttamento e la vendita del petrolio nelle regioni occupate, che avrebbe fruttato, almeno fino al momento della intensificazione dei bombardamenti aerei sui pozzi petroliferi controllati dall’ISIL, circa 2 milioni di dollari al giorno, principalmente nella Siria nord-orientale, nonché attraverso altre attività banditesche poste in essere, quali le estorsioni, il pagamento di riscatti a fronte di rapimenti ed altri comportamenti criminali, dalle quali decine di milioni di dollari sono egualmente entrati nei forzieri jihadisti.

Due altre fonti di arricchimento meritano di essere menzionate. La prima riguarda il saccheggio degli istituti finanziari, operato nel giugno dello scorso anno in occasione del “blitzkrieg” nell’area siro-irachena attualmente occupata, dal quale il Daesh ha tratto decine di milioni di dollari, nonché le elargizioni di cui il movimento jihadista è destinatario da parte delle “charities” operanti nei Paesi del Golfo, con la sola esclusione forse dell’Oman, dalle quali, secondo le ultime informazioni, l’ISIL ricaverebbe circa $40 milioni all’anno. Gli sforzi, più apparenti che reali, dei governi della regione parrebbero, almeno fino a ora, non essere riusciti ad arginare in maniera incisiva questo considerevole flusso di denaro erogato da ambienti sunniti timorosi soprattutto dell’accrescersi dell’influenza iraniana nella regione, esacerbati altresì dalla feroce repressione anti-sunnita perpetrata dal regime alauita di Damasco.

Altro settore particolarmente curato dall’ISIL riguarda i social media. Secondo quanto affermato dagli analisti dell’Organizzazione atlantica, ben 1.2 milioni di dollari all’anno vengono spesi nelle iniziative di promozione dei canali d’informazione più tecnologicamente sofisticati. Il numero degli account Twitter ammonterebbe a circa 45.000 utilizzatori mentre ben 250.000 tweets vengono ogni giorno inviati dai jihadisti nella “websphere”. Sono dati impressionanti non solo per il loro valore intrinseco ma anche perché lasciano intuire che dietro l’organizzazione jihadista operano ambienti  in grado di elevare a soglie inimmaginabili il livello e lo spessore della militanza estremista. Chi sa leggere può trarre le opportune conclusioni sull’ampiezza e sulla portata dell’azione profondamente destabilizzante perpetrata dai nuovi interpreti del messaggio wahabita, soffocatori di ogni diversità e di ogni anelito di pensiero che si discosti dall’unicità (“tawhid”) dei loro editti.

Come rilevato dalla NATO gli sforzi posti in essere per contrastare l’azione dirompente del Daesh, acronimo arabo per definire l’ISIL, si sono scontrati con la facilità con cui migliaia di giovani, attratti dal fascino del populismo jihadista, sono riusciti a penetrare nei campi di battaglia siriani, particolarmente attraverso la permeabile frontiera turca, definita con amara ironia dal settimanale americano Newsweek “Jihadi Highway”, ingrossando in tal modo i ranghi dei miliziani di Allah. Secondo le stime fornite 10.000 jihadisti sarebbero stati uccisi per opera della coalizione diretta dagli Stati Uniti dal momento in cui Washington ha deciso di riprendere, più di un anno fa, la campagna aerea nei cieli dell’Iraq, ma ciò non ha impedito che altre schiere di aspiranti jihadisti penetrassero in Siria attraversando la stessa frontiera ad una media di 1000 al mese per colmare i vuoti lasciati dai caduti.

Ciò fornisce un ulteriore emblematico esempio di come ben difficilmente una soluzione in chiave esclusivamente militare, mirata a “degradare” le strutture di comando dell’organizzazione terrorista, riuscirà a debellare in maniera permanente una minaccia che trae, è bene ripeterlo, la sua forza dal senso di rabbia e di mal repressa violenza che pervade un mondo segnato dall’aggravarsi dei mali dell’iniquità e dell’esclusione sociale. Quella rabbia terrorista e irrefrenabile di cui siamo stati testimoni sgomenti negli scenari di orrore che hanno insanguinato Parigi la sera di venerdì 13 novembre, conclusisi con una strage di persone innocenti.

 Gli attacchi jihadisti nella capitale francese, enfaticamente rivendicati dall’ISIL a poche ore dal massacro, hanno avuto luogo a meno di un anno di distanza dall’attacco di militanti vicini ad Al-Qaeda contro la sede del settimanale satirico francese Charlie-Hebdo, perpetrato a causa di vignette caricaturali, a nostro modo di vedere, offensive e inopportune, irridenti il Profeta Maometto. Offensive per la maniera insultante con cui erano state esibite, inopportune se si tiene conto di quel che di tragico avviene in Medio Oriente e di come la difesa dell’identità religiosa sia uno dei tratti fondanti del sistema di valori di tutti coloro che si ispirano al verbo coranico.

La conclusione di questa premessa è in definitiva, repetita iuvant, che in assenza di politiche più inclusive, mirate a una seria analisi dei mali che affliggono una regione devastata da guerre e distruzioni dove il quadro di ingiustizie e prevaricazioni va di pari passo con il dissesto spaventoso delle infrastrutture e dei servizi sociali, siano essi inerenti all’istruzione, alla sanità ed a tutto quel che attiene alle esigenze fondamentali di vita di un essere umano, dovremo probabilmente attenderci il verificarsi nel prossimo futuro di altri analoghi luttuosi eventi. Questo nuovo indirizzo dovrebbe passare attraverso una proficua interazione con le inascoltate voci dell’Islam moderato, cui si dovrebbe riservare un ruolo di soggetto attivo e propositivo, e non semplicemente di destinatario di rimedi imposti da chi non ammette che con la religione del Profeta si possa dialogare, privilegiando per converso  politiche repressive adottate da regimi corrotti e non rappresentativi, il cui principale scopo è la perpetuazione di un sistema di oppressione e di mal giustificati privilegi, causa profonda di violenza incontrollata.

L’isolamento dell’ISIS non è una chimera ove si volesse veramente mirare ad un ripensamento delle strategie finora perseguite e a politiche volte ad una rinascita del Medio Oriente che creino le condizioni per positive interazioni ed un dialogo culturale fruttuoso dal quale tutti trarrebbero un giovamento. Il fatto, significativamente non fatto rilevare dai grandi media internazionali, che formazioni militanti islamiste palestinesi, come Hamas e la Jihad islamica, abbiano con toni fermi ed inequivocabili, condannato l’eccidio di Parigi, considerandolo un “atto di barbarie”, dovrebbe suscitare appropriate riflessioni nel senso di una rivisitazione di politiche che continuano imperterrite a concepire il rapporto con l’Islam in chiave quasi esclusivamente militare, con il ricorso a strumenti dai quali non ci si può aspettare altro che una esasperazione del male.

Numerosi sono gli esempi di questo scempio, politicamente perdente, da cui non ci si vuol distaccare. E i fatti, nella loro crudele evidenza, continueranno parimenti a mostrare come questa via sia la meno indicata per risolvere problemi di cui rifiutiamo la soluzione. E il prezzo che si dovrà verosimilmente continuare a pagare sarà terribile.

 

Le ammissioni fuorvianti di colpa di Tony Blair e le conseguenze del disastro iracheno del 2003

In questo poco rallegrante contesto e per connessione di tema  appare interessante riportare quanto recentemente ammesso, a distanza di “soli” dodici anni dall’aggressione anglo-americana in Iraq, dall’ex-Primo Ministro britannico Tony Blair, una delle figure più controverse e più criticate del firmamento politico occidentale.

Nel corso di una sua intervista rilasciata al giornalista della catena americana CNN Fareed Zakaria, Tony Blair si è spinto fino a riconoscere che da quell’evento “non si potrebbe non convenire” che esso abbia contribuito all’inferno attualmente in corso in Medio Oriente e  conseguentemente alla nascita dell’ISIS. Ciò detto Blair ha ritenuto peraltro di aggiungere, a parziale sua copertura, che “in ogni caso” lo scoppio della Primavera araba nel 2011 avrebbe comunque provocato lo sconquasso cui assistiamo, dato che, secondo  lo stesso interlocutore, l’ISIL “ è nato ed ha tratto la sua spinta iniziale in Siria (!) e….non in Iraq”. Il principale torto riconosciuto dalla personalità scozzese è stato inoltre, a suo dire, di “basarsi su un’intelligence errata”, quella che ha dato copertura e giustificazione all’aggressione, ovverossia l’informazione, rivelatasi “incorrect”, che l’Iraq di Saddam Hussein fosse in possesso di armi di distruzione di massa[vii].

Le affermazioni dell’ex-Primo Ministro di Sua Maestà si commentano da sole per la loro mala fede e per l’evidente intento di fornire una visione alterata dei fatti. A tal proposito, secondo l’autorevole parere del Prof. George Joffe[viii], esperto dei problemi del Medio Oriente e del Nord Africa, le esternazioni di Blair, avvenute, strana coincidenza, prima della pubblicazione in Inghilterra del Rapporto “Chilcot”, che dovrebbe chiarire inter alia  le responsabilità del personaggio circa le decisioni assunte in merito all’intervento del 2003, apparirebbero più come un riconoscimento (“acknowledgement”) che non come una vera ammissione di colpa[ix], come se si volesse far credere che, date le circostanze obiettive, non si sarebbe potuto operare altrimenti (!).

In effetti, a proposito del rovesciamento di Saddam Hussein l’ex-Primo Ministro si dimostra del tutto “unrepentant” (non pentito) nella misura in cui egli afferma che, in ogni caso, il fatto che il defunto dittatore iracheno sia stato spazzato via si è rivelato un fatto positivo e che la situazione sarebbe ora peggiore (sic!) nel caso in cui egli fosse ancora in vita. Sublime esempio di cieca impudenza!

 Ma, a parte questo, quel che in misura maggiore suscita il nostro stupore è legato all’affermazione profferita con truculenta sicurezza  dall’illustre intervistatore secondo la quale  le origini dell’ISIL devono essere ricercate in Siria e non in Iraq. Questo è semplicemente falso ed è un’ulteriore conferma della disonestà intellettuale del personaggio. A parere di autorevoli commentatori è vero esattamente il contrario e questo cercheremo di chiarirlo nel seguito dell’esposizione. E’ in Iraq che si sono gettate le basi dello scontro in larga misura settario che insanguina il Medio Oriente e Blair non può confutare questa tragica verità.[x]

Al riguardo mi sento in dovere di ricorrere alla testimonianza di Joby Warrick, attualmente corrispondente del Washington Post, considerato negli Stati Uniti “uno degli architetti” di quell’infame guerra. In un suo libro sul tema uscito appena un mese fa[xi], Warrick mette in chiara evidenza quali siano state le cause reali all’origine del cataclisma cui stiamo ora assistendo in Medio Oriente e dove esse realmente si collochino. In proposito l’autore dell’interessante scritto evidenzia il ruolo svolto da Abu Musab al-Zarqawi, discepolo del grande teorico palestinese della jihad, Abu Muhammad al-Maqdisi, con il quale successivamente entrò in rotta di collisione,  i cui scritti, rigorosamente in linea col pensiero salafista, rivelano un’inflessibile opposizione ad ogni forma di democrazia.  Al-Zarqawi è stato il fondatore di “Al-Qaeda in Iraq (AQI)”, movimento nato e sviluppatosi all’indomani dell’occupazione militare USA dell’Iraq, successivamente trasformatosi nell’ “Islamic State in Iraq” ed infine, al termine del percorso, nell’ “Islamic State in Iraq and Syria” (ISIS). Richiamerei l’attenzione su un dettaglio non secondario: l’Iraq appare sempre nelle denominazioni coniate per definire le centrali del terrore enucleatesi e consolidatesi sull’onda malefica dell’aggressione yankee del 2003, dalle quali è uscito lo Stato islamico, diretto ora per l’appunto dall’iracheno Abu Bakr al-Baghdadi, del quale Musab al-Zarqawi è stato l’indiscusso mentore.

In effetti, il vuoto politico creatosi in Iraq conseguentemente alla sconsiderata decisione assunta dal capo dell’entità irachena “internazionalmente riconosciuta”, Paul Bremer, di scardinare o, per meglio dire, smantellare il sistema di potere legato al partito Ba’ath, gettando sul lastrico migliaia di civili e militari, nell’assenza di una strategia volta a garantire il ricambio degli apparati, ha garantito alla organizzazione terrorista del momento, capeggiata da una figura come al-Zarqawi, tempratasi agli orrori dell’Afghanistan, di inserire nel processo di rivolta contro le forze di occupazione il germe della contrapposizione settaria, attingendo a piene mani in un bacino di disperazione e di indicibile livore nei confronti degli “infedeli” invasori e dei nuovi locali padroni, gli apostati sciiti[xii].

Su quel bacino di dolore e di violenza irrefrenabile si sono dunque gettate le basi dell’espansione di un movimento che ha potuto trarre giovamento da una rete molto densa di complicità e connivenze, sul piano politico e militare, rivelatesi preziose nell’azione contro l’esercito d’occupazione e i suoi complici sciiti e nel successivo allargamento dell’idra terrorista in Siria, quando nel 2011 ha preso inizio la ribellione contro il regime di Assad.

Il “reordering”, come lo chiama Warrick, dell’Iraq ha avuto conseguenze devastanti sull’intero assetto medio-orientale. Esso ha influito sul traumatico corso degli eventi nella finitima Siria, dove le Potenze sunnite hanno inteso perseguire un disegno di rivincita, ricorrendo alla letale arma settaria, volta a limitare il peso e l’accrescimento dell’influenza iraniana sui nuovi governanti a Bagdad. L’Iran ha fatto dell’ex-nemico, con il quale aveva ingaggiato una guerra estremamente cruenta durata otto anni, un avamposto dell’arco sciita nella regione, in grado di estendersi, senza soluzione di continuità, da Teheran a Beirut.

Diversamente da quanto sentenziato da Tony Blair è dunque in Iraq che si sono create le condizioni per l’irradiarsi della minaccia jihadista sunnita determinata ad arginare l’espandersi della presenza iraniana nell’area, conseguente all’abbattimento del regime baathista a Bagdad.

L’uccisione di al-Zarqawi, capo storico di al-Qaeda in Iraq, avvenuta nel 2006 e la repressione feroce abbattutasi da quel momento per tre anni (“gli anni di sangue”) contro l’estremismo sunnita non ebbe come risultato la sua eliminazione ma al contrario un suo consolidamento e radicamento. I resti delle milizie jihadiste, sotto la guida del successore di al-Zarqawi, Abu al-Masri, reagirono ai colpi tremendi loro inflitti procedendo a un ripiegamento negli immensi desolati spazi del deserto dell’Anbar, nell’ovest del Paese, il cuore sunnita dell’Iraq, gli stessi dove ora l’ISIL domina quasi incontrastato. Da quei desolati spazi poi penetrarono in Siria nel 2011 quando, sull’onda della Primavera araba, esplose la rivolta contro Baschar al-Assad, mutando in tal modo il carattere della protesta, divenuta sempre più settaria, quasi a imitazione di quel che si era prodotto qualche anno prima nel finitimo Iraq.

E’ da ricordare che la repressione e l’azione di contrasto contro l’estremismo sunnita in Iraq fu realizzata, oltre che dagli americani e dai nuovi governanti sciiti a Bagdad, anche dalle tribù sunnite della regione verso le quali era stata portata avanti da parte degli USA una politica di “appeasement” volta ad ottenere il loro prezioso apporto in cambio beninteso di un riconoscimento delle loro esigenze in un contesto iracheno mutato a loro sfavore all’indomani del rovesciamento del regime sunnita di Saddam. Il tutto rientrava nell’ambito di un’altisonante strategia, denominata “Sunni  Awakening” (Risveglio sunnita), in esito alla quale si sarebbe dovuto prevedere un positivo reinserimento della componente sunnita nel quadro politico del Paese.

Cosa avvenne di quelle promesse, di quegli affidamenti dal rilevante impatto mediatico ma dai contenuti pressoché inesistenti?  Poco più di nulla, per non dire nulla; in sostanza si ebbe una riedizione di analoghi comportamenti tenuti dagli yankee in altre latitudini, in altre aree dove erano in gioco loro interessi. Le esigenze dell’alleato del momento si prendono in considerazione finché conviene farlo; poi si è portati a ignorarle e disattenderle a partire dal momento in cui esse escono dai radar delle necessità contingenti e della materiale convenienza. Sic et simpliciter o, usando un’altra espressione latina, more solito e la conseguenza è quella di creare uno spaventoso destabilizzante vuoto politico, funzione di una mancanza di strategia, dove allignano l’odio ed il risentimento, dove  conta solo la legge della violenza, dove la vita diventa un inferno, dove infine la dialettica politica scompare dalla realtà nazionale. E’ quel che si è prodotto non solo in Iraq ma anche in Libia, dove non esiste più uno Stato ma il caos totale, nonostante gli sforzi prodigati dalle Nazioni Unite, dai risvolti invero poco lusinghieri, del quale ovviamente anche l’ISIL ha saputo trarre vantaggio, conquistando, con l’appoggio anche di elementi vicini al defunto dittatore Gheddafi,  territori ed agglomerati sulle sponde del Mediterraneo.

L’Occidente continua a sottovalutare un aspetto che, a nostro modo di vedere, è di fondamentale importanza: ovverossia che, in assenza di una “policy” che preveda forme di coinvolgimento effettivo nel processo politico di settori della società nazionale in grado di rendersi portatori di un condiviso progetto di cambiamento, mai si riuscirà, com’è avvenuto finora, a farsi accettare, a essere riconosciuti come vettori di nuove speranze o di dimensioni politiche realmente innovative. Del resto come potrebbe essere altrimenti, operando in realtà profondamente diverse con una filosofia politica e una visione del divenire tutte proprie, basate su valori fondanti di tradizioni millenarie ed un senso d’identità culturale e religiosa che si vuole a giusto titolo preservare?

 In caso contrario sempre, con implacabile regolarità, vi sarà una reazione violenta, molto spesso in forme degenerate, che svuoterà di qualsiasi contenuto gli interventi esterni e getterà le realtà interessate in un caos assolutamente ingestibile.

E’ quello che avvenne dunque in Iraq con il bagno di sangue iniziato nel 2006 e durato per più di due anni, un periodo che, oltre a caratterizzarsi per le stragi inaudite prodottesi, vide un esasperarsi degli odi settari e delle contrapposizioni religiose. Fu soprattutto nelle prigioni, nei quattordici centri di detenzione sparsi nel Paese, descritti da coloro che li hanno visitati come dei luoghi dove terribili violazioni dei diritti umani, in tutta impunità, avevano luogo, delle quali i responsabili americani erano consapevoli, che si cesellò quel legame di militanza tra i jihadisti detenuti e gli ex-appartenenti agli apparati di potere dell’epoca baathista[xiii]. Fu in quei luoghi di dolore e disperazione che si sono gettate le basi per il diffondersi del messaggio wahabita nella sua versione più efferata, il canale ritenuto il più appagante per soddisfare la sete di rivalsa a fronte delle sofferenze inflitte a un popolo sovrano oggetto di umiliazioni e di scempio materiale. Fu da quegli stessi luoghi che si produsse una serie ripetuta di evasioni, organizzate nel 2012 e 2013 dall’ISIL, di elementi, criminali e non, militanti jihadisti e non, che consentì all’organizzazione di al-Baghdadi di rimpinguare i propri ranghi, avvalendosi di quegli stessi elementi che nel 2010 le forze militari americane avevano consegnato alle autorità irachene per essere tradotti nelle patrie galere[xiv]. Ciò fu anche la dimostrazione della debolezza del regime iracheno al potere in quegli anni, la prova dell’inizio di un processo di disfacimento degli apparati determinato da una gestione politica irresponsabile e dalla noncuranza americana di fronte agli effetti del disastro generato dall’aggressione del 2003 e dalle irriflesse decisioni assunte dall’amministrazione Bremer all’indomani dell’intervento. Come evidenziato dall’ex-analista della CIA Aki Peritz, l’ISIL non è nato dal nulla ma si è sviluppato sull’onda di politiche che hanno progressivamente portato al pauroso attuale quadro generale

E’ in quel contesto di incontenibile violenza che maturarono le condizioni per un radicamento irreversibile dell’estremismo sunnita, alimentato principalmente da tre variabili che riterrei di primaria importanza nella ricerca delle cause che sottostanno ai rigurgiti settari che da quei tristi momenti hanno costituito i tratti salienti della sconvolta realtà medio-orientale.

Di essi parleremo nel paragrafo che segue.

 

Le principali ragioni a base dell’estremismo sunnita

La prima riguarda il senso di livore e di frustrazione provato dalla comunità sunnita irachena nei confronti degli americani per il comportamento sprezzante e disinvolto tenuto nei loro confronti, dopo la cacciata di Saddam, a fronte di promesse fatte e non mantenute e del tributo di sangue versato dalle tribù sunnite nella lotta contro le formazioni di al-Qaeda; affidamenti, come già detto, rimasti colpevolmente senza seguito. Da quel momento, una volta sospinta la minaccia jihadista nelle frange periferiche del Paese, contigue alla frontiera con la Siria, il governo sciita di Nouri al-Maliki, appoggiato dall’Iran, ha iniziato una politica di ghettizzazione ed esclusione ai danni della componente sunnita, la quale, seppur minoritaria rispetto a quella sciita (circa il 20% della popolazione irachena), rivendicava a giusto titolo un suo ruolo nel Paese e, soprattutto, il controllo su ciò che, territorialmente e politicamente, le appartiene. Maliki riusciva all’occorrenza a imporre la sua volontà anche agli americani che, a quel punto, comprendevano bene dove potesse portare quell’atteggiamento di cieca masochistica chiusura. I tratti principali della leadership di al-Maliki, iniziata nel 2006, riconfermata in modo discutibile con la connivenza americana nel 2010, a dispetto della volontà popolare, e terminata, sotto le pressioni interne e internazionali, nel 2014, si sono caratterizzati per il loro carattere visceralmente settario e per il gravissimo livello di malgoverno e corruzione, fonte di paurose disfunzioni e, come abbiamo già visto, grave debolezza di fronte ai colpi inferti dai terroristi.

 Il risentimento sunnita si è aggravato in modo irreversibile, a tutto vantaggio delle formazioni jihadiste, e il grado di diffidenza verso i nuovi governanti a Bagdad, supportati e condizionati nelle loro scelte dalla componente sciita irachena e dagli odiati iraniani, si è elevato in misura esponenziale, rendendo impossibile una via d’uscita dalla tragica impasse che si è andata aggravando in quel dilaniato Paese. In effetti, in mancanza di un “empowerment” o presa in mano dei propri destini da parte della comunità sunnita, non si vede come si potrà uscire dalla crisi e come si riescirà a superare la dimensione settaria dalla quale mai alcun progresso potrà derivare. Tutta la comunità sunnita, all’interno e all’esterno dell’Iraq, non potrebbe mai tollerare che un grande Paese arabo come l’Iraq diventi una quinta colonna degli interessi iraniani. Questa è una delle ragioni dell’inflessibile atteggiamento saudita nei confronti di Teheran, forse la principale spiegazione del clima di contrapposizione creatosi tra le due sponde del Golfo Persico, unitamente beninteso alla positiva conclusione del negoziato sul programma nucleare iraniano, visto dalle autocrazie arabe del Golfo come fattore propulsivo dei disegni espansionistici della Repubblica islamica.

 L’ISIL trae alimento anche da questi contrasti di potenza sul piano regionale e questo fa capire come nessuna operazione militare, di qualsiasi ampiezza, né, tanto meno, l’eliminazione fisica del califfo dello Stato islamico, al-Baghdadi,  potranno apportare soluzioni durature. D’altronde, se l’apporto dei Paesi del Golfo alle operazioni militari ingaggiate dalla coalizione anti-Daesh, diretta dagli USA, si è rivelato finora poco più che trascurabile, lo si deve essenzialmente al peso che le opinioni pubbliche di quei Paesi hanno sulle scelte dei loro governanti. La fobia anti-sciita e anti-iraniana è  profondamente radicata in quelle realtà dove la pulsione settaria è parte integrante della ragion d’essere di un universo percorso  dall’onda modernizzante, la quale peraltro non ha comportato a tutt’oggi un venir meno della difesa di valori identitari sotto il profilo religioso e culturale, visceralmente condivisi.

Ergo continuare a sperare che l’eliminazione fisica delle menti pensanti dell’ISIL possa fornire delle carte vincenti resta, a nostro modo di vedere, una chimera.  Prova di questo la si è avuta già nel 2006 con l’uccisione nel giugno di quell’anno del capo di “Al-Qaeda in Iraq” (AQI), Musab al-Zarqawi. La conseguenza della sua morte ha portato, al contrario, all’ulteriore radicamento dello schieramento estremista che non solo ha cambiato la sua definizione, assumendo quella di “Stato islamico in Iraq” (ISI) ma ha altresì potuto avvalersi dell’apporto dei quadri dirigenti dello smantellato apparato di potere esistente al tempo del dittatore Saddam, in tutte le sue articolazioni operative (militare, intelligence, sicurezza), confluito nei ranghi jihadisti allo scopo di far pagare agli invasori yankee, agli apostati sciiti filo-iraniani ed a tutti i collaborazionisti lo scotto degli affronti subiti.

Le conseguenze di questo retroterra sono oggi sotto i nostri occhi e costituiscono una delle principali ragioni del travolgente successo nel giugno dello scorso anno delle milizie jihadiste dello Stato islamico, dirette dall’iracheno Abu Bakr al-Baghdadi, il discepolo prediletto del sunnominato Abu Musab al-Zarqawi, giordano, ucciso dai droni americani nel 2006 in Iraq. Le complicità e le connivenze tra la comunità sunnita irachena e i più feroci paladini del jihadismo islamico sono tra le principali ragioni per le quali la reazione del governo iracheno e del sua alleato USA contro l’ISIL non ha prodotto i risultati sperati con il risultato che larghissimi spazi della desolata regione dell’Anbar e dell’Iraq nord-occidentale con il suo principale centro Mosul, la seconda città del Paese, sottostanno ancora, a distanza di un anno e mezzo dall’attacco degli estremisti, sotto il loro medioevale e barbaro dominio.

 

 Spazi attualmente occupati dall’ISIL

 

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Il livore sunnita non è comunque la sola ragione a base della deriva settaria che ha completamente stravolto la ragion d’essere della Primavera araba. Ve ne è un’altra, sopra accennata, non meno impattante, che appartiene ad un’altra dimensione, attinente agli interessi di Potenza nella regione, all’insanabile contrasto esistente tra le due sponde del Golfo Persico. Intendiamo riferirci all’Iran, Potenza sciita implacabilmente contrapposta all’Arabia saudita, Potenza sunnita e depositaria delle due città sante dell’Islam, La Mecca e Medina. Secondo la testimonianza resa nel 2007 da Paul Pillar, analista della CIA[xv][xvi], una delle più gravi conseguenze della guerra scatenata dagli USA in Iraq quattro anni prima è data dall’evidente accrescimento dell’influenza iraniana nell’intera regione.

Anzi, per dirla con Pilar, “il vero vincitore degli eventi” è stato proprio l’Iran. La guerra ha permesso non solo di liberarsi di un dittatore che aveva scatenato un precedente conflitto[xvii] ma ha altresì fatto venir meno quello che era stato fino a quel momento “il principale contrappeso all’espansione iraniana”. Valutazioni del tutto appropriate quelle dell’analista americano, tanto più vere se si pensa ai tratti peculiari degli ultimi anni del potere di Saddam, esaltanti la vocazione sunnita del Paese, che fanno comprendere con lampante chiarezza quanto fallimentare sia stata l’aggressione americana del 2003 che non solo ha creato le condizioni per il disfacimento dell’Iraq, con tutto quello che ha comportato, ma ha anche consentito ad un Paese, l’Iran, fino a poco tempo fa appartenente, parafrasando un’espressione più volte utilizzata durante il suo mandato dall’ex-Presidente americano George W. Bush, all’Asse del male (!), di espandere la propria influenza nell’area a detrimento naturalmente degli alleati “strategici” di Washington come l’Arabia saudita ed i Paesi del Golfo.

Questi sono aspetti che una figura come Pilar percepiva con acutezza otto anni fa, quando egli rilevava come Teheran avesse acquisito nel finitimo Iraq posizioni di potere tali da condizionare pesantemente ogni scelta che il governo di Bagdad intendesse assumere in comparti decisivi per gli interessi nazionali. Parole profetiche, il meno che si possa dire, se si pensa al particolare che esse erano pronunciate nel 2007. Da allora poco è cambiato in quel martoriato Paese, dove il peso della componente sciita, politica e militare, è tale da impedire a tutt’oggi una efficiente azione contro le orde del califfato, che profitta ampiamente dell’insormontabile diffidenza esistente tra i due principali gruppi religiosi iracheni. Gli abusi di cui si rendono colpevoli le milizie sciite (“Hashad Shaabi”), ben addestrate e manovrate dalle Guardie Rivoluzionarie iraniane, perpetrati contro le popolazioni sunnite irachene, non contribuiscono certamente a diradare l’astio profondo covante tra i due gruppi religiosi; per non parlare del persistente rifiuto che la componente sciita, verosimilmente sotto l’influenza iraniana, frappone alle richieste dei capi tribù sunniti di dotarsi di formazioni militari autonome in grado di contrapporsi efficacemente ai jihadisti di al-Baghdadi. Tutto ciò fa il gioco dell’ISIL che con consumata sapienza mediatica bombarda le menti di coloro alla ricerca di punti di riferimento e di appoggio nella lotta ingaggiata contro gli apostati.

Questa seconda variabile ha indubbiamente rappresentato un’ulteriore devastante scintilla che ha alimentato l’incendio settario che ora attraversa gran parte dello spazio arabo-islamico, contribuendo a un pericoloso aumento della tensione nei rapporti tra le due sponde del Golfo Persico. Il peggioramento dei rapporti tra Riyadh e Teheran interessa da qualche mese anche lo Yemen dove da qualche mese ha luogo una sconvolgente guerra di distruzione, aggravata dall’intervento militare saudita nella guerra civile in essere tra tribù arabe sciite, gli Houthi, ritenuti destinatari dell’appoggio iraniano, e tribù sunnite. Questa situazione ha finito per giovare, anche colà, alla branca yemenita di al-Qaeda (AQAP), definita dall’intelligence occidentale la più pericolosa delle filiali terroriste collegate alla centrale ora diretta da Ayman al-Zawahiri. L’AQAP controlla al momento una parte del territorio yemenita mentre anche l’ISIL fa la sua apparizione in quel poverissimo Paese attraverso attentati e attacchi suicidi contro le moschee e i centri di interesse sciiti in Yemen.

L’incendio settario non risparmia nemmeno l’Arabia saudita. Ivi si assiste da una parte ad attacchi perpetrati dagli estremisti sunniti contro la minoranza sciita dell’est del Paese e dall’altra a un accrescimento della repressione contro tutti coloro considerati pericolosi per la casa regnante  Saud, siano essi militanti religiosi, memori di un passato di sangue tra la monarchia e i sostenitori della versione “pura e severa” del wahabismo negli anni che hanno preceduto la creazione del regno saudita, attivisti sciiti reclamanti un trattamento meno discriminatorio della loro comunità nella patria del Profeta o soggetti ritenuti colpevoli di crimini collegati soprattutto all’uso della droga. Ciò detto la tensione e il senso d’insicurezza sono all’ordine del giorno nel Regno con attentati e fatti di sangue che testimoniano il profondo malessere che pervade una realtà, confrontata anche con un quadro economico sfavorevole per il forte calo del prezzo del petrolio e per i costi generati dalla guerra in cui è impegnata nel finitimo Yemen. La stessa casa regnante, dove cova un malcontento per le posizioni di potere acquisite da elementi ritenuti troppo giovani e troppo vicini all’attuale monarca, deve a sua volta tener conto dell’estremismo ideologico del clero religioso sunnita, dal quale emanano proclami di guerra visceralmente settari; posizioni di cui i vertici sauditi sono obbligati a tener conto nella enucleazione delle linee-guida delle loro scelte di politica interna ed internazionale[xviii].

Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International le esecuzioni capitali in Arabia saudita hanno registrato quest’anno un aumento  esponenziale, risultando le più numerose degli ultimi vent’anni; infatti dalla morte, avvenuta lo scorso gennaio, del re Abdullah ad oggi 151 sono stati coloro passati a miglior vita attraverso “la decapitazione con un solo colpo di spada”. Quel che colpisce è infine l’alto numero di stranieri, quasi la metà dei giustiziati, in maggioranza immigrati handicappati dalla loro scarsa conoscenza dell’arabo[xix]. Tale inquietante trend peraltro non accenna a diminuire se è vero che le Organizzazioni dei diritti umani temono che si sia nel Paese alla vigilia di esecuzioni di massa, parrebbe più di cinquanta, delle quali gli sciiti sarebbero le principali vittime.

Come si può notare la deriva settaria sta trasformando l’universo arabo-islamico in una sorta di mattatoio senza fine, dove i peggiori istinti hanno modo di prodursi, alimentati dal senso di disperazione che pervade tutta la regione, nella persistente esiguità di reali prospettive politiche di riscatto dall’inferno ora prevalente.

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Una terza conseguenza del disastro iracheno merita di essere segnalata, di assoluto rilievo non solo come concausa dell’esplosione del  jihadismo sunnita ma anche ai fini dei nuovi irreversibili assetti che si stanno delineando nella regione. Essa riguarda la dimensione curda ossia il rinvigorirsi e sotto molti aspetti il materializzarsi delle aspirazioni della più numerosa comunità al mondo “senza stato”, i curdi, principali vittime degli “infami” accordi coloniali franco-britannici del 1916, alla creazione di un “homeland” in grado di beneficiare di larghi margini di effettiva autonomia.

Ebbene anche questo è stato uno dei rilevanti risultati della insensata avventura irachena. Il rovesciamento del regime di Saddam Hussein ha infatti consentito il formarsi di uno spazio autonomo politico ed anche economico nel nord-est dell’Iraq. Il Governo Regionale del Kurdistan (K.R.G.), presieduto in maniera autoritaria da Massoud Barzani, figlio del capo storico del movimento curdo, Mustafa Barzani, si avvale infatti di una ampia sovranità, fonte alquanto spesso di tensioni aspre con il governo iracheno, irritato ma in larga misura impotente di fronte ad un processo evolutivo apparentemente irreversibile.

A tal proposito citerei quanto scritto nel 2010 sull’argomento da Frederic Wehrey per conto della Rand Corporation, ente non-profit californiano di ricerca e analisi[xx].

A parere dunque dell’autorevole ricercatore e del suo team di collaboratori l’accrescersi dei movimenti di rivolta curdi in Siria, Turchia e Iran, effetto di contagio del Kurdistan iracheno, è stato uno degli effetti più importanti della guerra in Iraq. L’invasione del 2003 e la successiva spinta verso un federalismo in Iraq maggiormente rispettoso delle esigenze di una comunità vittima di feroci repressioni da parte del regime di Saddam hanno innescato un attivismo che non poteva non coinvolgere i Paesi vicini dove vivono minoranze curde, sottoposte a regimi alieni dal conferire legittimità alle loro istanze di crescita ed autonomia. Il concretizzarsi delle aspirazioni curde nel nord dell’Iraq è stato in definitiva un volano dal quale sono partiti stimoli per le comunità affini nelle finitime realtà. Ad eccezione dell’Iran, dove la fronda curda non frequentemente sfocia in azioni violente, in Siria e in Turchia essa ha dato luogo a reazioni cruente, seppure con risultati ben diversi. Infatti, mentre in Siria i curdi hanno creato con la forza delle armi uno spazio sotto il loro controllo, che copre gran parte della frontiera siro-turca, in Turchia si è assistito alla ripresa della guerra civile che, dopo una pausa di due anni, è nuovamente esplosa, anche per effetto della brama di potere di Erdogan, la cui ambizione sovrasta qualsiasi considerazione legata agli interessi del suo Paese.  Nel grande Paese anatolico, dove il mestiere di giornalista è il più pericoloso al mondo, oltre al riaccendersi della guerra civile, domina  un clima di polarizzazione tra le componenti laiche e liberali, oggetto della dura repressione perpetrata dagli apparati di sicurezza, e le frange islamiste sponsorizzate dal partito del Presidente, molto vicino sul piano diplomatico alle posizioni delle monarchie del Golfo.

Tornando all’Iraq, il fatto che il leader dell’altra forza politica nel Kurdistan iracheno, l’Unione Patriottica del Kurdistan, Jalal Talabani, sia stato eletto, fatto assolutamente inedito, Capo dello Stato a Bagdad[xxi], ha provocato, secondo quanto riportato dall’analista americano, ripercussioni visibili nelle regioni curde delle finitime realtà, particolarmente in Siria, dove la minoranza curda ha saputo trarre vantaggio dal caos creatosi con le rivolte anti-Assad assurgendo al ruolo di forza di prim’ordine nell’azione di contenimento del Daesh.[xxii]

  In definitiva, conclude Wehrey, l’entità autonoma dei curdi in Iraq è servita come prezioso punto di riferimento e base di appoggio per tutte quelle forze irredentiste in Turchia, Siria e, meno incisivamente, in Iran che dagli eventi conseguenti all’aggressione yankee del 2003 hanno tratto lo sprone per riaccendere nei quattro Paesi interessati la fiamma dell’irredentismo curdo.

L’andamento del conflitto in Siria ha rivelato come i curdi si siano dimostrati fino ad oggi i più validi e determinati alleati della coalizione anti-Isis, in grado di contenere e di respingere la spinta espansiva jihadista nel nord della Siria. Pari discorso vale per i peshmerga iracheni il cui apporto si è rivelato fondamentale negli sforzi di arginamento della pressione esercitata dall’ISIL nelle regioni settentrionali dell’Iraq. E’ di pochi giorni orsono la liberazione da parte delle milizie curde della località simbolo di Sinjar, definita la Kobani irachena, da dove curdi e yazidi[xxiii] erano stati cacciati più di un anno fa, in modo abominevole, dai jihadisti del califfato.

Se le orde di al-Baghdadi non sono riuscite a dilagare verso le regioni centrali del Paese e mettere in pericolo la stessa capitale Bagdad, molto lo si deve alle unità dei peshmerga che, al pari dei curdi siriani, sono stati i soli in grado di trarre un effettivo giovamento dal supporto fornito dalla forza aerea americana[xxiv].

Tutto questo avviene diversamente da quel che emerge dai comportamenti delle componenti arabe di fede sunnita che per le ragioni sopra esposte manifestano nella grande maggioranza dei casi una evidente riluttanza ad assecondare iniziative patrocinate e sponsorizzate dagli Stati Uniti. D’altronde come accade anche nelle vicende della nostra vita quotidiana, si finisce sempre per raccogliere quel che colpevolmente si semina e ogni azione che possa far rivivere i periodi più cupi del dopo-Saddam non potrà che suscitare reazioni di rigetto e di profonda diffidenza.

 

Spazio liberato dai curdi in Siria e in Irak

 

  In definitiva il riaccendersi dell’irredentismo curdo nella regione si è rivelato un altro elemento dal quale ha attinto forza e motivazione il jihadismo sunnita che vede nei curdi, a giusto titolo, un rilevante ostacolo al successo  del proprio progetto militante.

Conclusioni

 “Il terrorismo non può essere sconfitto dalle bombe. I bombardamenti sono

 la via ideale per esaltare le finalità della jihad, accrescendo la massa dei suoi adepti”.

                                                             (Un manifestante contro la guerra in Siria a Londra)

 

 

Come si può rilevare la guerra in Iraq si è rivelata un vero disastro dalle conseguenze devastanti, una guerra che ha sconvolto equilibri molto fragili ed estremamente delicati, poggianti su una storia millenaria. Di questo tutti o quasi, prima o poi, si sono resi conto, perfino l’ex-Presidente americano George Herbert W. Bush senior, il padre di George W. Bush, sotto la cui amministrazione prese inizio nel gennaio 1991 la politica di aggressioni contro l’entità irachena, della quale fino a pochi anni prima Washington era stata paradossalmente alleata nella  guerra scatenata dal regime Baath contro le Repubblica islamica d’Iran.

In un libro di prossima pubblicazione[xxv]  l’anziano Presidente critica senza mezzi termini due personaggi che a suo parere, ampiamente condiviso da chi scrive, hanno svolto un ruolo determinante nel dar corso alla folle decisione di aggredire uno Stato sovrano. I due personaggi sono l’ex-Vice-Presidente Dick Cheney, definito da Bush senior “un personaggio molto più pericoloso di quanto potessi immaginare”, e l’ex-Ministro della Difesa Donald Rumsfeld, i veri “decisori” di quella malsana avventura, coloro più inflessibilmente determinati a portarla avanti, sordi alle voci di coloro che si azzardavano a formulare dubbi e perplessità su un salto nel buio dalle imprevedibili conseguenze. Secondo quanto affermato da Bush senior, il figlio George sarebbe stato più una vittima delle sciagurate decisioni assunte dai due uomini forti che un protagonista di quella stagione di vergogna per l’immagine degli Stati Uniti.

Ciò dà un’idea del senso di malessere e di profondo rammarico che tuttora aleggiano negli ambienti della capitale americana su scelte passate che hanno inferto un serio colpo alla credibilità della diplomazia USA in Medio Oriente e che spiegano le esitazioni e le difficoltà dell’Amministrazione Obama, chiamata a gestire le catastrofiche conseguenze di decisioni impregnate della arrogante logica di dominio, nell’assenza di una strategia suscettibile di garantire un minimo di sostenibilità e stabilità nella devastata regione.

Il retaggio di quella politica, quello che gli analisti americani chiamano “toxic legacy” (retaggio tossico) è dato, come abbiamo visto, dalla violenza incontrollata diffusasi in gran parte dell’area, una violenza senza speranza e dagli inquietanti traguardi; la violenza settaria, il riesplodere di odi secolari, lo scontro in un’orgia di sangue tra mussulmani sunniti e sciiti; tensioni che il nazionalismo arabo nelle sue articolazioni autoritarie ma fondamentalmente laiche era riuscito nondimeno a tenere sotto controllo[xxvi].

 

A tal proposito desidererei riportare quanto sinteticamente formulato dal Consiglio delle Relazioni esterne degli Stati Uniti[xxvii] in una delle sue ultime sedute:

 

La violenza tra le sette religiose è sempre stata storicamente un fatto raro. Essa ha quasi sempre riguardato le invettive emananti dal clero religioso o dai leader politici. Oggigiorno per converso tutto questo avviene alla base della piramide con gruppi estremisti, aizzati dai governi, assurti al ruolo di protagonisti dello scontro settario. Attraverso i conflitti e il caos generalizzato il settarismo si caratterizza come canale di recupero delle identità. In Iraq gli appartenenti al sistema di potere baathista hanno fatto loro la retorica sunnita per opporsi all’espandersi dell’influenza sciita intervenuto all’indomani della cacciata di Saddam Hussein. Pari discorso per tutti coloro, provenienti da ogni regione del mondo islamico, confluiti in Iraq per contrapporsi alle forze della coalizione occidentale ed attaccare  gli sciiti; in questo seguendo le parole d’ordine di Abu Musab al-Zarqawi, il fondatore di al-Qaeda in Iraq, evocatore delle fatwa o editti religiosi profferiti in tempi lontani contro gli sciiti, nel solco di una speranza: ovverossia che l’esplodere della reazione sunnita potesse far capitolare la maggioranza sciita in Iraq. Migliaia di morti ha dovuto subire la comunità sciita prima di reagire a sua volta con le sue milizie  agli assalti di cui è stata essa oggetto.”

 

Cosa aggiungere a quanto con estrema chiarezza sopra riportato? Ebbene qualcosa da aggiungere vi è. Essa riguarda la Siria dove il massacro settario, iniziato nel 2011, tuttora in corso, ha fatto registrare in questi ultimi quattro anni un tributo di sangue ancora più alto di quello registrato in Iraq. Più di 250.000 morti e lo sradicamento di milioni di persone: questo è il sommario e agghiacciante bilancio di quattro anni di massacri provocati dall’insanabile odio settario in un tunnel del quale non si scorge una via d’uscita.

La follia omicida continua in Iraq e in Siria così come continuano le reazioni insensate e caratterizzate dallo spirito di dominio di Potenze esterne perseguenti una “real politik” che continua a urtarsi contro l’inanità e la mancanza di sbocchi di scelte che non tengono conto del contesto reale nel quale esse vengono applicate. Il bilancio di questa politica che rifiuta qualsiasi approccio che esuli dallo strumento militare, politica che non ha fatto registrare in sostanza  alcuna soluzione di continuità dal tragico attacco alle Torri dell’11 settembre 2011, si è rivelato fallimentare con un marcato deterioramento del nostro senso di sicurezza. Questa politica persiste, in modo assurdo, sorda ai richiami di tutti coloro che vedono nella sua prosecuzione i vantaggi che essa arreca agli estremisti sunniti il cui obiettivo è di accrescere il clima di polarizzazione e di irriducibile contrasto, nel perseguimento della loro missione apocalittica basata su una palingenesi costruita sul sangue e sulla violenza.

Il massacro avvenuto pochi giorni fa a Parigi e il successivo stato d’assedio nel quale si sono trovati a vivere gli abitanti di Bruxelles  sono la prova che il male è anche tra di noi, nella confortevole dimensione delle nostre esistenze; non solo quindi nelle devastate aree medio-orientali ma anche in Europa dove il messaggio terrorista dell’ISIL raccoglie proseliti e trova terreni fertili di adesione, siano essi le desolate e miserevoli banlieu francesi od i quartieri fondamentalisti della capitale d’Europa, Bruxelles, da dove sono partiti gli attentatori del 13 novembre[xxviii].

L’ISIL ha dimostrato di essere in grado di adattare la propria strategia alle esigenze dello scontro nel quale esso è impegnato. I colpi recentemente subiti in Siria e in Iraq a causa soprattutto dell’intervento russo lo portano ora a colpire nel nostro Continente dove, come abbiamo visto, i proseliti non mancano. Il probabile cambio di strategia, verosimilmente determinato dalle difficoltà militari cui il Daesh sembra ora andare incontro, minaccia di scatenare una serie di eventi traumatici in Europa dalle conseguenze molto gravi sul nostro modo di vita e sul rispetto dei valori nei quali l’Occidente, a casa sua, profondamente crede. Parigi potrebbe essere il primo capitolo di una saga dell’orrore sotto i nostri occhi[xxix].

           Da qui dovrebbe logicamente scaturire l’esigenza di un “rethink”, di un ripensamento strategico nelle politiche di contrapposizione finora perseguite. Speranza assai flebile, almeno sulla base di quelle che sono state le reazioni dei governi interessati, determinati a non desistere da una linea di condotta portatrice di nuovi disastri[xxx].  Tanto più se si pensa che la finalità escatologica del Daesh, con il quale ogni possibilità di dialogo è assolutamente preclusa, rimane quella di proseguire lo scontro, il conflitto, dai quali gli odi secolari e la spirale della violenza traggono alimento in vista della desiderata apocalisse, lo sbocco finale che dovrebbe portare alla fine del mondo. Nella follia delirante dell’ISIS, che privilegia la morte e non la vita, questo allucinante percorso, dai tratti profetici, dovrebbe consumarsi in un futuro ravvicinato e quindi tutto quello che serve a renderlo più plausibile e più verosimile non può che risultare ben accetto nella logica catastrofista dei jihadisti del terrore.

 

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In uno scenario irto di pericoli per la stessa pace del mondo, che semina morte e paura perfino in Europa, la diplomazia internazionale fa figura di parente povero. Essa si muove e opera secondo schemi che hanno scarsa attinenza con la realtà dei “killing fields”, siano essi iracheni, siriani o yemeniti, dove prevalgono logiche senza comune misura con quelle di cui si rendono portatrici le cancellerie e le élite politiche dei Paesi coinvolti nella cruenta partita in gioco. L’ISIL non è una milizia, non è soltanto terrorismo, esso è anche , come evidenziato dall’analista americano J.M. Berger, anche ideologia, la sublimazione ideale della violenta protesta emanante dagli esclusi della terra. In uno dei suoi ultimi scritti lo stesso autore mette in evidenza come la lotta contro un movimento insurrezionale (“insurgency”), e questo è quello che in ultima analisi l’ISIL è, richiede “molto di più” di quello cui abbiamo assistito fino ad ora nella lotta contro il terrorismo, che si trattasse di al-Qaeda, al-Shabab, l’AQIM od altri.

L’amara conclusione di Berger è che, anche se riuscissimo a liberare la capitale del Califfato, Raqqa, non potremmo mai per tale via  sconfiggere un’ideologia che nasce dal basso e che non cesserà mai di raccogliere adepti e proseliti in molte parti del mondo, non solo in Medio Oriente, ma anche in Europa, in Asia, in Africa e in ogni altra parte del mondo[xxxi]. L’analisi dell’esperto porterebbe per converso a ritenere che una sconfitta del Daesh sul piano militare comportante la progressiva perdita di territorio  e la conseguente riduzione dello spazio del Califfato, creerebbe le condizioni per una serie di attacchi in Europa, dove, come già segnalato, l’ISIL sarebbe in grado di attingere a piene mani nelle periferie delle grandi città, giovandosi altresì della perdita di senso della politica e del percepibile crescente distacco tra le istituzioni e la società civile, cui assistiamo in molte realtà del nostro Continente.

Questi aspetti continuano a essere ignorati dalle cancellerie internazionali. E’ come se un dialogo caratterizzato da muri e barriere invisibili non abbia alcuna intenzione di cessare, alla vana ricerca di approdi irraggiungibili, accompagnato dalla tempesta sottostante e dal senso di delusione e frustrante amarezza di coloro che assistono, impotenti, ad un ciclo di distruzioni apparentemente senza fine, dal quale potrebbero derivare conseguenze terrificanti per la nostra stessa sicurezza.

A problemi che hanno una profonda matrice politica e sociale non si può rispondere come se si fosse confrontati a Potenze straniere mosse da intenti espansionistici o di dominio. Alla minaccia di una Potenza esterna saremmo legittimati a rispondere in chiave militare per la salvaguardia dei nostri interessi e della nostra identità. Pari risposta non la potremmo riservare a minacce che sono per converso la manifestazione esplosiva e disfunzionale di un assetto di dominazione, rievocatore di un detestato passato coloniale, che non regge più alle sfide dei tempi.

Un particolare meriterebbe di essere tenuto presente: la semplice costatazione che dal momento in cui il Presidente Bush ha iniziato “la guerra al terrore”, utilizzando bombe e sofisticato hardware militare, il numero dei terroristi è passato da qualche centinaio a più di centomila, sparsi in ogni parte del mondo. Non potrebbe questo indurre François Hollande, mosso da un irrefrenabile, seppur in larga misura comprensibile, ardore da crociata, a riflettere un po’ prima di esercitare pressioni sui partner occidentali per un’intensificazione dello sforzo bellico contro gli estremisti sunniti? A nessuno dei leader, impegnati attualmente nel dar vita ad una “grande coalizione”, portatrice di altre morti civili, uomini, donne e bambini, viene in mente che la “guerra al terrore” iniziata più di dieci anni orsono dai neo-con americani è stata irrimediabilmente persa? Non viene egualmente in mente che ogni vittima civile in Siria, Iraq e in altre terre d’Islam, ogni infante caduto, ogni donna uccisa, creano le condizioni per nuovi reclutati nelle file delle milizie terroriste? Quasi quindici anni di fallimenti di una guerra di terrore al terrore che ha registrato l’espandersi del nemico che si voleva annientare, non potrebbero costituire una base per costruire nuovi percorsi che portino a più duraturi equilibri di pace e stabilità?

Sembra incredibile ma le risposte a queste domande sono immancabilmente negative. Quando purtroppo sono in gioco l’ambizione politica e la sete di potere, meglio procedere verso il disastro che fermarsi e riflettere;  riservare un minimo di attenzione al particolare che quel che si pone in essere è nient’altro che un regalo fatto ai terroristi appare un esercizio da rigettare senza esitazione. Ogni altra via resta esclusa e non c’è modo e tempo di immaginare quali potrebbero essere conseguenze diverse da quelle che con tracotanza si danno per scontate!

In conclusione se non saremo pronti a comprendere la natura del male, se continueremo a rifiutare scelte che vadano nel senso di un riconoscimento di esigenze che appaiono legittime, che vadano in definitiva verso politiche di riconciliazione e di “inclusione” sociale, tenendo ben conto e rispettando i tratti  fondanti di realtà diverse dalle nostre, il prezzo che potremmo pagare in futuro  si rivelerebbe molto alto e, come sottolineato da Berger, un’ondata di attacchi terroristici potrebbe sconvolgere l’Europa, anche “nel breve, medio termine” ( short-to-medium term ). Una confortante prospettiva, non c’è che dire!

 



 

Note integrative :

 

[i] Secondo William McCants, autore di una pregevole ricerca sull’ISIS, i territori persi dai jihadisti dal settembre dello scorso anno  sarebbero nell’ordine del venticinque per cento.

 

[ii] Il recente abbattimento di un caccia-bombardiere russo Sukhoi-24 da parte di un F-16 dell’aviazione turca mostra come la strada verso uno sbocco diplomatico della guerra civile siriana sia ancora irta di ostacoli. Esso rinfocola le speranze dei jihadisti e complica il lavoro delle cancellerie.

 

[iii] E’ di alcuni giorni fa l’orrendo attentato di pura matrice settaria rivendicato dall’ISIL in un quartiere sciita di Beirut perpetrato da due attentatori suicidi, uno siriano e l’altro palestinese, che non avrebbe per converso innescato quella reazione settaria che i jihadisti probabilmente si sarebbero attesi.

 

[iv] L’abbattimento dell’aereo charter russo nei cieli del Sinai, quasi sicuramente attribuibile alla “Wilayat Sinai”, affiliata locale dell’ISIL, emanazione di una precedente formazione jihadista, dà conferma delle capacità d’irradiamento del messaggio del califfato in tutte le terre d’Islam. La strage di turisti russi  è da interpretare  molto probabilmente come la risposta della jihad all’intervento militare di Mosca in soccorso dell’apostata alauita Assad. A questo ha fatto seguito il massacro di Parigi del 13 novembre sul quale torneremo più avanti.

 

[v] NATO Report on ISIL, ottobre 2015

 

[vi] Due anni dopo l’assunzione dei poteri da parte di al-Zawahiri ha luogo la scissione tra al-Qaeda e l’ISIL.  Da quel momento la rivalità tra i due movimenti è andata crescendo,  giungendo fino a cruenti  scontri armati in Siria, mentre l’ISIL è divenuto col passare del tempo  la calamita di tutti coloro  attratti  dal richiamo della Jihad islamica.  I rapporti tra al-Zawahiri  e il califfo al-Baghda= di  sarebbero  pessimi in un clima di divisioni in seno alla militanza islamica tutt’altro che ben augurante. Lo scontro è irriducibilmente aperto tra le due organizzazioni estremiste per il controllo ideologico  sulla globalità della galassia jihadista.

 

[vii] La giustificazione addotta da Blair in merito all’intelligence “errata” lascia il campo aperto a molte perplessità, se si pensa che, sulla base di ricerche effettuate e di conclusioni raggiunte da diverse fonti giornalistiche, la decisione di attaccare l’Iraq sarebbe stata presa da Bush e da Blair fin dall’aprile del 2002, quasi un anno prima dell’aggressione, intervenuta come noto nel marzo 2003.

 

[viii] George Joffe, ” Visiting Professor”  presso  l’Università  di Cambridge

 

[ix] L’attesa per la pubblicazione del Rapporto Chilcot continua ad allungarsi. Molta delusione ha suscitato in Gran Bretagna in questi giorni l’annuncio del suo ulteriore rinvio che ora contemplerebbe l’uscita del documento non prima del  prossimo mese di luglio.

 

[x] In connessione di tema e a titolo informativo ricorderei il ruolo svolto da Ahmad Chalabi, scomparso  pochi giorni orsono,  iracheno laico di fede sciita, nel convincere l’Amministrazione Bush a attaccare l’Iraq nel marzo 2003. Chalabi  era conosciuto per l’insanabile odio nei confronti di Saddam Hussein, oltre che per essere mosso da un’ambizione sfrenata  e dal gusto  degli affari più sordidi. In ogni caso, nonostante i suoi appoggi oltre- Atlantico, il personaggio in questione non è mai riuscito a svolgere  un ruolo  di rilievo nel torbido mondo  politico del suo Paese.

 

[xi] Joby Warrick, “Black Flags: the Rise of ISIS”, 29 settembre 2015

 

[xii] Paul Bremer è rimasto in quell’incarico dal maggio 2003, all’indomani dell’invasione, fino al giugno 2004.

 

[xiii] William McCants, “The ISIS Apocalypse”, St. Martin’s Press, 2015

 

[xiv] Aki Peritz, ex-analista della CIA.

 

[xv] Paul Pilar, US Senate Committee on Foreign Relations, 2007

 

[xvii] Pilar si riferisce ovviamente alla guerra tra Iraq e Iran, iniziata nel 1980 e terminata nel 1988, costata la vita a centinaia di migliaia di giovani iraniani.

 

[xviii] In un suo recente editoriale sul New York Times Kemal Daoud, scrittore e giornalista algerino, definisce il clero saudita il “padre” dell’ISIL  mentre la “madre” sarebbe

     l’aggressione USA in Iraq del 2003.

 

[xix] Report of Amnesty International – Human Rights in Saudi Arabia, 27 October 2015.

 

[xx] La Rand Corporation è uno dei più rinomati centri di ricerca, studio e analisi degli Stati Uniti e gli apporti da essa forniti sono sempre oggetto di attenta considerazione da parte degli ambienti politici ed economici americani.

 

[xxi]  Jalal Talabani è rimasto nelle funzioni di Capo dello Stato fino al luglio dello scorso anno quando il suo posto è stato preso da un altro leader curdo, Fuad Masum, molto vicino all’ex-Presidente.

 

[xxii] La principale forza politica nel Kurdistan iracheno è il KDP (Kurdistan Democratic Party), diretto con pugno di ferro da Massoud Barzani. L’autoritarismo  del Presidente della Regione crea  da tempo tensioni interne con le altre forze politiche, comprendenti la “Patriotic Union of Kurdistan” e le due formazioni  islamiste,  che si battono per l’istaurazione   di un sistema parlamentare che  diminuisca i poteri ritenuti eccessivi  detenuti da Barzani. L’agitato  quadro politico genera malcontento nella comunità curda irachena  che subisce  gli effetti anche della crisi economica attualmente imperversante  nel territorio.

 

[xxiii] Gli Yazidi costituiscono una minoranza etno-religiosa, particolarmente concentrata nel nord dell’Irak. Il loro idioma è il curdo ma, a differenza dei curdi, non sono mussulmani, ma adepti di una religione che affonda le sue radici nel passato millenario della Mesopotamia.

 

[xxiv] Resta il fatto che anche in seno alle formazioni combattenti curde allignano tensioni ed  incomprensioni. I peshmerga del Kurdistan iracheno, vicini alle posizioni conservatrici di Massoud Barzani, sono   frequentemente in contrasto con le formazioni marxiste  dei PKK turco e della sua filiazione armata siriana, il PYD. E ciò ha un effetto condizionante su una azione che appare non del tutto condivisa.

 

 [xxv] Jon Meacham, “ Destiny and Power: the American Odyssey of George Herbert Walker Bush”. Il libro di Meacham uscirà nei  prossimi giorni e sarà una sorta di biografia dell’anziano leader, colui che coll’operazione “Desert  Storm” del gennaio 1991 ha inteso infliggere un colpo decisivo al regime di Saddam, considerato tra l’altro troppo vicino agli interessi palestinesi e profondamente ostile  al governo sionista.   

 

[xxvi] Non in tutto l’universo arabo-islamico imperversa la tempesta settaria.  La rivolta palestinese costituisce una significativa innegabile eccezione.  Nei territori illegalmente occupati dai sionisti si assiste  in questi giorni ad una sollevazione popolare che non ha nulla di settario. Essa è una rivolta anti-coloniale contro l’aggravarsi dell’oppressione israeliana che sta vanificando  le speranze arabe di un futuro Stato palestinese libero ed indipendente. Essa è  altresì una  manifestazione di  riprovazione contro la politica portata avanti dal leader dell’Autorità palestinese  Mahmoud Abbas che ha svilito e minato la credibilità dell’Organizzazione da lui presieduta. A fronte di un quadro così rattristante gli Stati Uniti s’impegneranno ad elevare l’aiuto militare ad Israele. Esso dovrebbe  ammontare l’anno prossimo  a più della metà di tutti i finanziamenti  erogati dagli USA in questo campo ai Paesi amici ed alleati.

 

[xxvii] Il “Council on Foreign Relations” è un autorevole think-tank  privato statunitense, assolutamente non-partisan, di cui fanno parte personalità di spicco del mondo politico ed economico americano. Le sue analisi sono sempre analizzate e altamente valutate nelle sfere di potere negli Stati Uniti.

   

[xxviii]  Altra fonte di proselitismo è data dal numero di jihadisti europei che rientrano dalla Siria, la cui militanza si è temprata con l’asprezza dello scontro con gli apostati, ora determinati ad esportare la violenza terrorista del Daesh  in Europa.

 

[xxix] Alcuni dubbi in merito al cambio di strategia dell’ISIL sono formulati da Aymenn Jawad al-Tamimi, studioso del jihadismo presso il Middle East Forum, centro di ricerca a Washington. A suo parere non sussisterebbe, almeno fino ad ora, alcuna prova che i vertici dell’organizzazione terrorista abbiano ordinato gli attacchi di Parigi. Per converso si tratterebbe a suo modo di vedere dell’opera di una branca del Daesh operante in Libia i cui militanti sarebbero in gran parte marocchini trapiantati in Belgio. Ove tale presunzione si rivelasse  vera, lo scenario che ne deriverebbe sarebbe davvero molto preoccupante, nella misura in cui rivelerebbe una diminuzione della capacità di controllo dei vertici dell’ISIL  sui centri di militanza periferica.

 

[xxx] Negli intenti guerreschi manifestati dal Presidente francese Hollande all’indomani dei tragici fatti nessun  accenno è stato fatto alla esplosiva situazione delle periferie delle grandi città dell’Esagono dove il livello di emarginazione e di miseria culturale, di cui patisce principalmente la comunità magrebina,  costituisce il luogo ideale per la diffusione dell’estremismo islamico.

 

[xxxi] J.M. Berger,” ISIS: The State of Terror”. Berger è un esperto del fenomeno dell’estremismo islamico e  attualmente collabora  anche con la Brookings Institution, rinomato centro di ricerca americano