CIVG Informa N°62: Speciale Israele/Palestina

Il fuorilegge della comunita’ internazionale

A cura di Angelo Travaglini, ex Ambasciatore e membro del Comitato Scientifico del CIVG

 

 

L’apprezzato scritto di Richard Falk, figura insigne nella difesa dei diritti del popolo palestinese, e del dissidente iraniano Akbar Gandji, noto per le sue battaglie per una democrazia laica nel suo Paese, costituisce un apporto prezioso per inquadrare nella sua giusta dimensione la gravità delle violazioni di ogni legge perpetrate da Israele dal momento della sua nascita nel 1948. Da qui l’appropriata definizione, coniata dai due autori, di Stato fuorilegge (“outlaw”) dove le ripetute violazioni della legalità internazionale e delle Risoluzioni delle Nazioni Unite hanno viaggiato di pari passo con il clima di oppressione e discriminazione imposto alle minoranze residenti nell’entità sionista.

A tal proposito illuminante appare inter alia quanto riportato nello scritto a proposito della definizione data dal giornalista israeliano Gideon Levy della democrazia vigente in Israele, che si rivelerebbe tale solo per i “Jewish citizens” (cittadini ebrei) ma non per gli israeliani di origine araba e, meno che mai, beduina.

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La lettura di questo utile contributo acquista una sua indiscutibile attualità all’indomani dello svolgimento delle elezioni israeliane le quali, contrariamente alle risultanze dei sondaggi, hanno ancora una volta premiato la politica oltranzista ed aggressiva del Premier Netanyahu, il più longevo dei Capi di governo d’Israele dopo il leader storico David Ben Gurion. Al riconfermato Premier è stato dato l’incarico di formare la nuova equipe governativa per il suo quarto mandato alla guida del trentaquattresimo governo israeliano, destinato verosimilmente a essere il più conservatore ed anti-arabo dalla creazione dell’entità ebraica.

 

L’eclatante successo del suo partito, il Likud, in grado di ottenere ben 30 seggi, contro pronostici mal fondati ed approssimativi, permetterà verosimilmente a Tel Aviv di proseguire nella politica oppressiva a danno della comunità palestinese all’interno ed all’esterno dei propri confini, in un assetto che presenta tratti di forte analogia con l’aborrito sistema dell’apartheid, abiurato in Sud Africa ma esistente a tutt’oggi sotto mutate spoglie nella sponda est del Mediterraneo; questo avviene in continuo spregio della legalità internazionale, in un continuum senza fine con le violazioni perpetrate nei decenni passati, come emerge dalla ricerca effettuata dai due illustri estensori sopra menzionati.

Lo spostamento verso l’estrema destra dell’asse della politica israeliana esce rafforzato dalle elezioni del 17 marzo con un aumento considerevole dei suffragi, dodici in più rispetto alle ultime elezioni, a favore del partito Likud di appartenenza del Primo Ministro, le cui populistiche esternazioni tuttavia hanno considerevolmente appannato l’immagine di figura  pragmatica accreditata da alcuni media occidentali. La prospettiva che ora si presenta sarà quella di un governo con una larga presenza degli schieramenti oltranzisti sul piano politico e religioso, che incideranno pesantemente sulle scelte della nuova leadership.

Le prese di posizione assunte da Netanyahu nelle ore precedenti la consultazione, nella spasmodica ricerca di voti, dalle movenze improntate a un populismo di bassa lega, hanno rivelato, con inequivocabile nitidezza, il carattere razzista del proprio pensiero, giungendo perfino ad agitare lo spettro di una partecipazione massiccia degli arabi al voto (sic), e la fallacità di precedenti esternazioni a favore della soluzione dei due Stati, brutalmente ripudiata alla vigilia dello scrutinio, per essere poi disinvoltamente riaffermata all’indomani del successo elettorale. Esse lasciano presagire momenti tristi nell’evoluzione dei rapporti arabo-israeliani; il che produrrà inevitabilmente un accrescimento delle tensioni, in un’area sconvolta dagli odi settari e da uno stato di guerra aperta esistente in ben quattro Paesi della regione, Siria, Iraq, Libia e Yemen.

L’ossessione della sicurezza e della difesa contro minacce esterne, ritenute dalla maggioranza dei cittadini israeliani lesive della propria sicurezza ed identità, ha indubbiamente prevalso su altre esigenze legate ad un quadro economico interno progressivamente deterioratosi con un aumento vistoso delle ineguaglianze e della povertà ed un aggravarsi della spirale di esclusione sociale.

Il messaggio di cui si è reso portatore lo schieramento di opposizione “Unione Sionista”, risultato il secondo partito politico con 24 seggi, sotto la guida del leader laburista Isaac Herzog, e di Tzipi Livni, sostenitrice di un approccio più moderato nei rapporti con i palestinesi, basato su un rilancio dell’entente strategica con gli Stati Uniti, in evidente crisi, e su un riorientamento delle scelte di politica economica a favore degli strati sociali più colpiti dalla crisi, non ha avuto presa sulla maggioranza di un elettorato alieno dal contrastare il disegno di colonizzazione degli spazi territoriali palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est, avviatosi all’indomani delle due guerre del 1967 e del 1973, e mai invero sostanzialmente interrotto, neppure dai governi più apprezzati dagli ambienti liberali occidentali, quali quelli presieduti dal defunto Rabin, Peres e Barak.

Degno comunque di menzione appare il rilevante successo dello schieramento della “Arab Joint List”, diretto da Ayman Odeh, di fede socialista, ma al di fuori del mainstream politico israeliano, che per la prima volta è riuscito a coagulare la frammentata galassia delle forze politiche rappresentative della minoranza palestinese (più del 20% della popolazione residente in Israele), dando adeguata voce e più incisivo ascolto a una componente della società nazionale emarginata e discriminata, come ben evidenziato nello scritto dei due succitati autori.

Questo costituisce in effetti l’unico dato realmente confortante scaturito dal responso delle urne. La minoranza palestinese sarà ora rappresentata nella Knesset, il Parlamento israeliano, da una formazione, la terza per numero di consensi, in grado di interpretare molto meglio le esigenze della comunità araba e di renderle più visibili ed impattanti nello scenario internazionale. Qualcosa di nuovo è dunque emerso e anche se il ruolo principale di contrasto alla squallida deriva verso la destra estrema incomberà principalmente ai “moderati” della Unione sionista, dichiaratisi contrari ad un loro coinvolgimento in un governo di unità nazionale, il fatto che i palestinesi saranno rappresentati nella Knesset da uno schieramento consistente, forte dei suoi 13 seggi, costituisce uno sviluppo tutt’altro che trascurabile, suscettibile altresì di evidenziare le ambiguità delle politiche perseguite dall’Autorità palestinese di Mahmoud Abbas.

Rebus sic stantibus quel che appare delinearsi è che Israele potrebbe divenire in futuro in misura crescente un peso per l’Occidente piuttosto che l’indispensabile alleato in una regione dove Tel Aviv è attorniata da pericoli di ogni genere. Né le frequenti piroette verbali di Netanyhau, che continua a contraddistinguersi per il suo irrefrenabile populismo, con incidenze poco positive sulla sua credibilità, saranno sufficienti a smussare la diffidenza, per non dire insofferenza, che in Occidente si avverte nei suoi confronti.

Non solo il dilagare dei jihadisti dell’ISIL e degli estremisti siriani del “Nusra Front” (affiliato ad al-Qaeda), praticamente alle frontiere dello Stato ebraico, ma anche il netto peggioramento dei rapporti con la stessa Autorità palestinese, con la quale Israele ha fino ad ora collaborato sul piano della sicurezza e della repressione della rivolta palestinese, costituiscono sviluppi suscettibili di ridurre la soglia di sicurezza di un Paese che non accetta di prendere atto di un quadro regionale profondamente mutato rispetto al passato, non solo sul piano politico-diplomatico ma anche su quello demografico, quest’ultimo una vera bomba ad orologeria per il futuro di Israele.

Il fallimento dei piani di pace statunitensi ha spinto il governo di Ramallah a patrocinare la causa palestinese nelle sedi più rappresentative della comunità internazionale quali le Nazioni Unite e la Corte penale internazionale, alla quale i Palestinesi aderiranno formalmente nei prossimi giorni, rivelatesi ricettive nei confronti delle istanze palestinesi. La prospettiva di procedimenti di giustizia contro il governo di Tel Aviv per i crimini di guerra commessi contro l’inerme popolazione civile fino ad un tempo molto recente, sembra avvicinarsi, con le conseguenze che potrebbero derivarne. In tale quadro desta impressione l’ultimo rapporto pubblicato dall’Ufficio delle Nazioni Unite sul Coordinamento delle Azioni Umanitarie (OCHA), nel quale si evidenzia che il 2014 è stato l’anno in cui si sono registrate le maggiori perdite di civili palestinesi dalla fine del conflitto del 1967, rispetto ad ogni altro singolo anno a decorrere dalla suddetta data.

Né si possono passare sotto silenzio le nubi che si addensano sullo stato delle relazioni con le formazioni militanti di Hamas a Gaza, intente a riarmarsi in vista di un nuovo non improbabile scontro, e degli Hezbollah nel finitimo Libano dai quali vengono profferite con una certa frequenza minacce contro “l’entità sionista”.

Forse Il vincitore delle ultime elezioni troverà modo in un futuro non lontano di provare rincrescimento per le esternazioni improvvidamente rilasciate nelle ultime ore della campagna elettorale. Queste hanno sicuramente facilitato la raccolta dei consensi ma hanno altresì indebolito la credibilità di Netanyahu, leader acclamato in patria, ma più vulnerabile nei confronti del mondo esterno.

Più che mai questo varrà a proposito del faticoso negoziato sul programma nucleare iraniano sul quale i patetici appelli del leader israeliano a non indulgere in un “bad deal”, profferiti inopportunamente da oltre-Atlantico, hanno perso gran parte della loro pristina incidenza, provocando al contrario mal auguranti lacerazioni in seno al Congresso degli Stati Uniti e profonda irritazione alla Casa Bianca. Recenti rivelazioni hanno addirittura fatto stato di uno spionaggio da parte di Israele a beneficio dei “lawmakers” repubblicani sull’andamento della trattativa con gli iraniani, ultimo episodio rivelatore del clima di torbido malessere ormai esistente tra Washington e Tel Aviv.

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A questo punto una domanda ci si può porre: continueranno gli Stati Uniti, alla luce di quel che è emerso nelle fasi più delicate della consultazione elettorale israeliana, a frapporre ancora una volta il proprio veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite, il quarantaduesimo, ove l’Autorità palestinese dovesse riproporre la propria candidatura ad essere accettata come membro a pieno diritto della comunità internazionale, determinato a far valere i diritti e le legittime aspettative del popolo che esso rappresenta?

Al riguardo interessante apparirà valutare la portata di alcuni orientamenti che sembrano farsi luce a Washington, ed in Europa, che sembrerebbero propensi a spostare la sede di discussione della crisi arabo-israeliana dove essa avrebbe dovuta essere dibattuta fin dall’inizio, ovverossia il Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Se ciò dovesse tradursi in realtà, questo comporterebbe un significativo indebolimento del peso specifico della diplomazia israeliana, accrescendo l’isolamento di Tel Aviv, già percepibile all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dove 135 su 193 membri condividono le posizioni palestinesi.

Ma in ogni caso sarà parimenti interessante vedere cosa emergerà dalla trattativa lunga e complessa che precederà la formazione del nuovo governo diretto da Netanyahu dove, come già segnalato, l’influenza dello schieramento della destra estrema si rivelerà di una dimensione mai vista nella storia passata d’Israele.

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Il risultato delle elezioni dello scorso 17 marzo non ha certo contribuito a un allentamento delle gravissime tensioni che pervadono vasti spazi dell’area medio-orientale. L’auspicio dei palestinesi è che da parte dell’Occidente si proceda risolutamente a riservare meno considerazione alle promesse mai mantenute dal Governo di Tel Aviv, creando le condizioni perché da parte dell’opinione pubblica israeliana si cominci ad avvertire i rischi cui la politica di Netanyahu espone il Paese sul piano della sua sicurezza nella regione e della sua collocazione internazionale.

L’Europa in questo senso sembra aver aperto la strada. Il governo svedese, con la decisione di riconoscere la Palestina soggetto di diritto internazionale, ha dato l’esempio, seguito, con l’eccezione della Germania, dai più importanti Paesi partner dell’UE (inclusa, seppur in maniera peculiare, l’Italia), dove i rispettivi Parlamenti hanno adottato risoluzioni, non vincolanti, ma dall’alto valore simbolico, favorevoli al riconoscimento dell’Autorità palestinese.

Inoltre alcune misure legislative dell’UE, che prevedono il blocco nel sostegno finanziario e tecnico a iniziative di sviluppo e di ricerca realizzate dagli israeliani nei territori occupati, hanno costituito il segnale di un’insofferenza europea verso l’arrogante sfida che Israele lancia da anni alla comunità internazionale.

Significative e dello stesso segno appaiono altresì recentissime prese di posizione emananti dall’Amministrazione Obama nelle quali si fa stato non solo della crescente problematicità della “two-state solution” ma anche dell’esigenza avvertita a Washington di “procedere ad un riesame” della politica USA nei confronti di questo delicatissimo dossier.

In definitiva da parte americana si prende coscienza, e quel che è avvenuto in Israele prima e durante le elezioni ha rappresentato la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso, che il processo di pace, cui abbiamo assistito nei decenni passati e ancora una volta fallito un anno fa, nonostante gli sforzi prodigati dal Segretario di Stato John Kerry, è ormai in fase terminale e che nuove vie debbono essere esplorate per evitare che “le porte dell’inferno”, come affermato dal principale negoziatore palestinese Saeb Erekat, si aprano nei territori occupati da Israele da quasi cinquant’anni.

Tutto questo avviene anche perché da una parte e dall’altra dell’Atlantico si prende atto di un’altra inquietante verità: ovverossia che l’estremismo sionista agevola il propagarsi del terrorismo jihadista, venendo a apparire in effetti un suo alleato obiettivo: un addentellato di non secondaria importanza che si aggiunge alla consapevolezza di un quadro complessivo nell’area di crisi arabo-israeliana sempre meno sostenibile.

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Ma alle aperture di cui fanno stato le cancellerie occidentali dopo decenni di indifferenza verso la terribile condizione del popolo palestinese corrispondono ora atteggiamenti ricettivi e propositivi da parte dei Paesi arabi? La risposta dovrebbe essere positiva, considerata l’importanza di una crisi “madre di tutti i problemi” della martoriata area medio-orientale.

Ebbene il recentissimo vertice della Lega araba, svoltosi in Egitto per discutere degli sconvolgenti eventi collegati al dramma yemenita sembrerebbe al contrario non aver fornito incoraggianti segnali in proposito.

L’esplosione degli odi settari e lo scontro, sempre meno celato, tra gli interessi egemonici delle due potenze regionali dell’Arabia saudita e dell’Iran, di cui siamo testimoni in queste ore, parrebbero lavorare in direzione contraria alle aspirazioni palestinesi. E non solo ad esse, a dire il vero.

In conclusione risulta abbastanza paradossale il constatare una sorta di discrasia tra una accresciuta sensibilità occidentale sul tema ed un apparente distacco delle nomenclature arabe verso una questione che dovrebbe per converso costituire il principale obiettivo delle loro diplomazie.

Su questo aspetto meritevole di approfondimento sarà opportuno ritornare in una prossima occasione.

 


 

Lo stato fuorilegge di Israele

 

Parte I

 

Dal 1948 Israele si è reso protagonista di una prolungata serie di aggressioni militari, violazioni dei diritti umani e crimini di guerra.

 

Israele è diventato uno stato fuorilegge. Nel suo libro, “The Law of Peoples” (“Il Diritto dei Popoli”), John Rawls definisce (pagine 5 e 90) uno Stato fuorilegge quello che sistematicamente viola i principi universali dei diritti umani e commette aggressioni contro altre nazioni. Israele si è reso colpevole di simili ripetute violazioni umane così come ripetuti gravi atti  di aggressione, facendo apparire ragionevole e responsabile la collocazione dello Stato ebraico nettamente al di fuori della legge internazionale.

 

Aggressioni militari di Israele contro altri Stati

 

Israele è sorto nel 1948. La Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite è considerata il fondamento giuridico più plausibile su cui poggia la nascita dello Stato di Israele. All’epoca ai Palestinesi fu assegnato il 45% della Palestina storicamente riconosciuta, mentre il 54% fu assegnato a Israele, e l’1% fu considerato a parte come area speciale specificamente riferita all’entità internazionalizzata di Gerusalemme.

 

Dopo la guerra del 1948 con le vicine nazioni arabe, l’incremento territoriale a favore di Israele ha ridotto la quota assegnata ai palestinesi al solo 22 per cento. Nella guerra del 1967, Israele ha occupato il rimanente territorio palestinese, che era stato amministrato dal 1948 dalla Giordania e dall’Egitto, e  sin da allora ha progressivamente allargato la propria penetrazione nella Palestina occupata in maniera del tutto illegale, rendendo di fatto inattuabile il progetto della creazione di uno Stato palestinese.

 

Inoltre Israele si è reso responsabile di una serie di brutali attacchi contro Gaza (2008-09, 2012, 2014), violando in modo flagrante il Diritto internazionale, la Carta delle Nazioni Unite, e le Leggi di guerra.

 

Numerosi atti di aggressioni contro altri Stati sovrani hanno ulteriormente aggravato la reputazione di Israele:

 

Gli attacchi militari contro l’Iraq nel giugno 1981, che distrussero il reattore nucleare di Osirak in via di completamento, posero termine al programma nucleare dell’Iraq sì da perpetuare nella regione il monopolio di Israele in tema di possesso dell’arma atomica.

 

Le invasioni del Libano nel 1978 e nel 1982, unitamente all’occupazione israeliana della parte sud del Libano fino al 2000. Nel settembre 1982 Israele fu complice del massacro di Sabra e Shatila perpetrato dalle milizie maronite falangiste nel corso del quale tra i 1500 e 3000 donne, bambini e persone disabili palestinesi furono assassinati a sangue freddo.

 

L’attacco militare al Quartier Generale dell’Autorità palestinese a Hamman, Tunisia nell’ottobre 1985, conclusosi con l’uccisione di sessanta cittadini arabi, palestinesi e non, formalmente condannato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

 

L’invasione del Libano meridionale nel 2006 che comportò trentatre giorni di guerra contro gli Hezbollah, la distruzione di quartieri residenziali nella parte sud di Beirut, in applicazione della famigerata “Dahiya Doctrine” –  la giustificazione su base razionale fornita per consentire ad Israele di avvalersi in maniera illegale dell’uso sproporzionato dello strumento militare contro il popolo palestinese.

 

Attacchi aerei effettuati in territorio siriano il 2 ottobre 2007 che portarono alla distruzione del reattore nucleare siriano nella regione di Deir ez-Zor nel nord-est della Siria.

 

L’attacco nel maggio 2010 in acque internazionali alla nave passeggeri turca Mavi Marmara, facente parte della “Flotta della Libertà” incaricata di portare assistenza umanitaria alla popolazione di Gaza in aperta sfida del blocco internazionale imposto da Israele, conclusosi con l’uccisione di nove inermi attivisti turchi.

 

Tre attacchi militari, anch’essi in violazione delle norme internazionali, effettuati sul territorio siriano nel 2013 e nel 2014.

 

Attacchi ripetuti in Sudan nel 2009, 2011 e 2012, presumibilmente per porre termine alla fornitura di armi a Hamas a Gaza, con il loro seguito di morti e distruzione.

 

Inoltre Israele ha occupato le alture di Golan in Siria dal 1967, costruito insediamenti illegali e stabilito una presenza permanente. Israele si è rifiutato di ritirarsi dalla Cisgiordania e da Gerusalemme Est, così come richiesto all’unanimità dalla Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza.

 

Israele ha segretamente e illegalmente acquisito un arsenale di circa 300 testate nucleari, diventando l’unica potenza nucleare nel Medio Oriente e il solo stato al mondo che rifiuta di riconoscere il possesso di armi atomiche.

 

Sistematiche violazioni dei diritti umani e il regime apartheid

 

L’ex Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter ha scritto nel suo libro “Palestina: Pace, non Apartheid”  che il regime di occupazione israeliano in Cisgiordania riveste le sistemiche caratteristiche discriminatorie di un regime di apartheid. Inoltre, la minoranza palestinese residente in Israele è soggetta a cinquanta leggi discriminatorie che incidono negativamente sui diritti individuali e collettivi. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale considera l’apartheid come un crimine contro l’umanità.

 

I palestinesi in Cisgiordania hanno vissuto dal 1967 senza alcuna tutela legislativa o il riconoscimento di diritti, essendo esposti a una amministrazione di tipo militare ed alle politiche repressive dell’Autorità Palestinese, mentre la comunità illegalmente insediata di coloni ebrei gode della piena protezione delle leggi israeliane.

 

Come scrive Gideon Levy, giornalista israeliano di tendenze progressiste, Israele è “una democrazia solo per i suoi abitanti ebrei che sono pronti a seguire le visioni largamente condivise ogni volta che i carri armati israeliani varcano le frontiere nazionali”.  I cittadini ebrei di Israele che osano opporsi alle aggressioni del loro Paese sono spesso oggetto di aggressioni e minacce. Gli israeliani di discendenza palestinese sono trattati in modo peggiore, duramente sottoposti a restrizioni di ogni genere e oggetto di gravi sospetti ogni volta che sorge un problema di sicurezza.

 

I crimini di guerra di Israele contro i Palestinesi

 

La Risoluzione 465 del Consiglio di Sicurezza parla a due riprese di “territori palestinesi e arabi occupati dal 1967”, e dichiara e afferma anche che gli insediamenti ebrei nei territori palestinesi rappresentano una violazione della Quarta Convenzione di Ginevra. Il rifiuto a mo’ di sfida di smantellare gli insediamenti – fuorilegge secondo l’articolo 49(6) – e il rifiuto di rimuovere il muro di separazione, come da mandato della Corte Internazionale di Giustizia, costituiscono gravi violazioni di questa Convenzione, e come tali considerati crimini di guerra.

 

Israele ha rimosso le sue forze militari e colonizzatrici dalla Striscia di Gaza durante le sue iniziative di disimpiego del 2005, ma attualmente tiene sotto controllo Gaza e rimane conseguentemente legata agli obblighi che una potenza occupante esercita secondo la legge umanitaria internazionale.

 

In effetti  Israele ha trasformato le condizioni di vita di Gaza da amministrazione militare diretta a un ergastolo della popolazione nel più grande carcere all’aria aperta del mondo. Israele mantiene il totale controllo delle entrate e delle uscite di Gaza, del suo spazio aereo e delle sue acque, turbando la vita all’interno delle mura della prigione con violente incursioni periodiche. La maggior parte dei palestinesi che vivono a Gaza sono effettivamente rinchiusi in quel minuscolo spazio territoriale dal 1967, senza alcun limite dal 2007. Durante questo periodo, Israele ha periodicamente effettuato operazioni militari di massa contro Gaza; imposto e mantenuto un blocco illegale; commesso frequenti atti di violenza oltre confine, e numerosi gravi crimini di guerra:

 

Israele ha attaccato Gaza nel 2008-2009, uccidendo più di 1.400 palestinesi, ferendone 5.300, creando 51.000 rifugiati interni, distruggendo 4.000 case, infliggendo danni economici per 4 miliardi di dollari, e non permettendo la consegna di materiali necessari per lo sforzo di ricostruzione.

 

Gli attacchi di Israele a Gaza nel 2012 hanno provocato la morte di 173 palestinesi e ferito 1.221 persone; essi furono provocati dall’assassinio perpetrato dagli israeliani del leader militare di Hamas, Ahmed Jabari, nel momento in cui egli stava consegnando un documento di tregua firmato.

 

L’aggressione di Israele del 2014 contro Gaza scatenata lo scorso 8 Luglio ha provocato la morte di più di 2.000 palestinesi, ferito circa 10.181, con una percentuale di perdite civili del 75 - 80%. Questa imponente azione militare di Israele ha costretto più di 660.000 abitanti di Gaza a spostarsi all’interno del proprio spazio territoriale, evidenziando il rifiuto frapposto al diritto dei Palestinesi di lasciare le zone dei combattimenti durante un attacco militare che ha terrorizzato l’intera popolazione di Gaza. E’ stato stimato che 459 bambini palestinesi sono stati uccisi e almeno 3.000 feriti.

 

In contrapposizione, le perdite di Israele in questo attacco sono risultati di 68 morti di cui 65 militari.

La disparità nel numero delle vittime e la percentuale di morti civili sono segnali significativi di come ripartire le responsabilità morali della carneficina provocata.

 


 

Lo stato fuorilegge di Israele

 

Parte 2

 

Nella prima parte abbiamo descritto le ragioni per cui  Israele è diventato uno stato fuorilegge. In questa seconda parte trattiamo del supporto degli Stati Uniti a Israele e delle conseguenze da esso derivanti.

L’appoggio incondizionato degli Stati Uniti a Israele ha precluso un accordo di pace e destabilizzato l’intera area medio-orientale.

 

Gli Stati Uniti come servo di Israele

 

Gli Stati Uniti hanno appoggiato Israele senza riserve dalla sua fondazione nel 1948. Secondo un accordo intervenuto tra i due Governi, recepito in toto nella legislazione interna USA, gli Stati Uniti si sono impegnati in prima persona a preservare la superiorità strategica e militare di Israele nei confronti degli altri Paesi in Medio Oriente. Dal 1949 a oggi gli Stati Uniti hanno fornito a Israele circa 122 miliardi di dollari in aiuti, militari e non, calcolati facendo riferimento ad un valore fisso della valuta americana.

 

Valutando gli aiuti a Israele in dollari del 2003, dal 1949 al 2003 gli Stati Uniti hanno fornito ad Israele 140 miliardi di dollari in assistenza militare che hanno successivamente registrato un aumento progressivo  a partire dal 2003. L’impegno annuale di base a favore d’Israele è di 3,1 miliardi di dollari, che è molto più di quanto sia stato mai dato in aiuti militari a ogni altro Paese al mondo, restando inteso che questa cifra è una sottostima, dato che non evidenzia una varietà di ulteriori allocazioni e altri apporti accordati esclusivamente ad Israele.

 

In effetti, gli Stati Uniti hanno finanziato le aggressioni di Israele e non tenuto conto della legislazione nazionale in tema di aiuto militare che mira a precludere tali aiuti a Paesi che non agiscono per autodifesa, in armonia con il dettato delle norme del Diritto internazionale.

 

L’amministrazione Obama ha addirittura aumentato gli aiuti a Israele, potendo contare su vari stanziamenti speciali.: Più recentemente il Congresso ha stanziato altri $225 milioni per un ammodernamento del sistema “Iron Dome” (difesa antimissile).

 

Il Senato degli Usa ha anche approvato una risoluzione secondo la quale se in futuro Israele dovesse attaccare i siti nucleari dell’Iran sfidando la legge internazionale, gli Usa saranno obbligati ad aiutarlo. Essa in parte così recita: “Se il Governo d’Israele è costretto ad intraprendere azioni militari per legittima difesa contro il programma nucleare dell’Iran, il Governo degli Stati Uniti deve appoggiare Israele e provvedere, in armonia con la legge degli Stati Uniti e la responsabilità costituzionale del Congresso, ad autorizzare l’uso della forza militare nonché un sostegno diplomatico, militare ed economico al Governo di Israele nella difesa del suo territorio, della sua gente, e della sua esistenza”.

 

Naturalmente quando si parla di “legittima difesa” si intende qualsiasi azione intrapresa da Israele che si presume essere di difesa, siano esse o meno in conformità con la legge internazionale, che per converso limita il campo giuridicamente riconosciuto tale esclusivamente a situazioni di risposta a precedenti attacchi armati.

 

Tra le molte risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC) che mirano a criticare o condannare Israele per le sue azioni contro i Palestinesi, pressoché tutte sono state oggetto di veto da parte degli Stati Uniti.  Infatti, il Governo degli Stati Uniti si oppone a qualsiasi risoluzione approvata da un organo delle Nazioni Unite, incluso il Consiglio per i Diritti Umani (UNHRC), se questa è ritenuta critica nei confronti di Israele, comprendendovi anche iniziative volte a istituire Commissioni d’inchiesta finalizzate a valutare se le accuse di crimini di guerra si rivelino fondate.

 

Quando Israele attacca l’indifesa e inerme popolazione palestinese, gli Stati Uniti giustificano tale sproporzionata violenza, di così alta intensità, come azione di “legittima difesa”, ostacolano la formalizzazione di appelli delle Nazioni Unite per un immediato cessate il fuoco, fornendo nel contempo un aiuto diplomatico e materiale nonché un avallo all’aggressione israeliana, e questo dall’inizio alla fine del processo.

 

Dopo che le risultanze scaturite dal “Goldstone Report” sui crimini di guerra commessi da Israele a Gaza nel 2008-2009 furono approvate dalla Commissione sui Diritti umani delle Nazioni Unite,  gli Stati Uniti e Israele intervennero successivamente presso il Segretario Generale per sollecitarlo a richiedere che non si desse seguito concreto al rapporto in relazione alla responsabilità di Israele per i crimini di guerra perpetrati. Il Governo degli Stati Uniti fece anche pesare la propria influenza per evitare perfino la discussione di questo importante rapporto in sede di Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Quando recentemente la Commissione sui Diritti umani ha approvato una risoluzione per accertare i crimini di guerra commessi da Israele lo scorso luglio nel territorio di Gaza, gli Stati Uniti sono stati l’unico Governo a votare contro la succitata risoluzione.

 

Amnesty International ha riferito che la prova di attacchi sistematici delle forze militari d’Israele diretti contro scuole e ospedali a Gaza durante l’ultima aggressione è “sconvolgente”. Il Rapporto riferisce su civili presi di mira mentre cercavano scampo dagli attacchi israeliani presso scuole e altri edifici delle Nazioni  Unite segnati con il logo “UN”.

 

Human Rights Watch ha riferito su veri e propri tiri al bersaglio, intenzionalmente effettuati, contro Palestinesi che fuggivano dalle loro abitazioni, anche dopo aver ricevuto dai militari israeliani l’ordine di farlo, facendo in tal modo presente che questo comportamento si rivela essere un crimine di guerra.

 

Possiamo solo comprendere questo parziale atteggiamento della politica Usa verso Israele, tenendo in considerazione l’influenza esercitata sul Governo dalla formidabile lobby che notoriamente opera a favore del Governo israeliano. L’ex-Presidente Jimmy Carter e l’ex-Presidente dell’Irlanda ed ex-Responsabile della Commissione sui Diritti Umani Mary Robinson hanno condannato questa politica a senso unico degli Stati Uniti verso Israele e Hamas, reiterando l’esigenza che come primo passo Israele cessi immediatamente senza condizioni il blocco di Gaza, permettendo alla popolazione dell’enclave di godere finalmente di una qualche sembianza di vita normale.

 

Conseguenze

La politica degli Stati Uniti verso Israele ha avuto terribili conseguenze.

Essa ha completamente discreditato la richiesta del Governo degli Stati Uniti di agire come un arbitro  imparziale tra Israele e i Palestinesi.

 

Odio e risentimento contro gli Stati Uniti sono aumentati in tutta la regione, non solo per il miope sostegno a Israele, ma anche per le aggressioni militari contro Iraq, Libia e Afghanistan e gli attacchi effettuati con i droni in Pakistan, Yemen, Somalia e altrove.

 

Secondo un sondaggio effettuato poco prima dell’ultima guerra a Gaza, l’85% degli egiziani e dei giordani, il 73% dei turchi e il 66% dei palestinesi vedono gli Stati Uniti sfavorevolmente, mentre l’84% degli israeliani hanno una considerazione positiva degli Stati Uniti.

 

Ciò che Israele ha fatto nella regione con il supporto degli Stati Uniti ha contribuito enormemente alla crescita dell’estremismo religioso e delle discordie in tutto il Medio Oriente. Se tali politiche non saranno cambiate, ancora più caos, violenze estremiste, spargimenti di sangue e devastazioni continueranno a prodursi  in futuro.

 

Il Medio Oriente e il Nord Africa sono stati instabili per decenni e le conseguenze dell’aggravarsi dell’instabilità si stanno allargando ad altre regioni, mettendo in pericolo la pace mondiale.

 

Queste politiche di incondizionato appoggio ad Israele risultano contrarie agli stessi interessi nazionali degli Stati Uniti. Il conflitto palestinese-israeliano è la madre di tutti i problemi in Medio Oriente. Israele ha sabotato ogni sforzo per trovare una soluzione pacifica tramite la via diplomatica. Ha fatto fallire sia l’ Iniziativa Araba del 2002 (patrocinata dall’Arabia saudita) sia il piano proposto dal Quartetto – Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite – che richiede che Israele si ritiri entro i confini esistenti prima del 1967 nell’attesa che uno Stato palestinese sovrano e indipendente possa vedere la luce.

 

Ciò che è richiesto a Israele come conditio sine qua non per la pace  - contemplato nella  Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza e riaffermato sin dalla sua unanime adozione nel 1967 -  trova riconoscimento in tutto il mondo. Dovrebbe essere compreso che cessare l’occupazione dei territori palestinesi non è da solo sufficiente per conseguire una pace sostenibile. Di importanza capitale sono anche alcune misure che riconoscano i diritti di molti milioni di Palestinesi rifugiati che furono espulsi con la forza da Israele nel corso degli anni,  nel modo più drammatico nel Nakba  (“catastrofe nazionale”) del 1948, ricordato ogni anno dai Palestinesi come la più dolorosa delle ricorrenze.

 

In questa fase ci si interroga altresì in modo molto serio se la soluzione dei due stati rappresenti un traguardo affidabile e desiderabile, ammesso che lo sia mai stato. La questione dell’autodeterminazione dei Palestinesi come il fondamento essenziale per una sostenibile giusta pace è al momento oggetto di dibattito e di riflessione in maniera più aperta che mai. L’espansionismo israeliano ha messo in dubbio il consenso sulla soluzione internazionale dei due stati, e la comunità internazionale, unitamente ai rappresentanti del popolo palestinese, deve ora considerare nuove vie per raggiungere una giusta pace per entrambi i popoli, che non potrà essere realizzata prescindendo dai diritti fondamentali dei palestinesi.

 

Crediamo che un passo cruciale in questa direzione sia il condiviso riconoscimento che Israele è diventato uno stato fuorilegge e che sia quindi necessario che adeguati aggiustamenti a questa realtà vengano finalmente introdotti.

 

Richard Falk

 

Richard Falk è Professore Emerito Albert G Milbank di Diritto Internazionale all’Università di Princeton e Ricercatore presso il Centro Orfalea di Studi Globali. E’ stato anche “Special Rapporteur” delle Nazioni Unite in tema di Diritti Umani dei Palestinesi.

 

 

Akbar Ganji

 

Akbar Ganji è uno dei principali dissidenti politici iraniani e ha ricevuto una serie di riconoscimenti sui diritti umani per i suoi rapporti. Imprigionato in Iran fino al 2006, è l’autore di “Road of Democrazy in Iran” (“La strada della democrazia in Iran”), che descrive una strategia per una transizione non violenta verso la democrazia in Iran.

 

Traduzione di Angelo T. per civg.it