Manipolazione anche linguistica il rispetto delle parole e la “lealtà”

E’ inaccettabile attribuire a chi è stato prigioniero di guerra la denominazione di “assente (ingiustificato) dal servizio”, come se si trattasse di uno scolaro che ha marinato la scuola. Ancor più grave sarebbe la questione se, con il termine “assente dal servizio”, si fosse voluto mirare a far credere che la persona così denominata fosse un disertore. Anche se affrontiamo, con oltre 70 anni di ritardo, questo problema, credo che tuttavia ve ne siano delle valide ragioni. Mi riferisco in particolare al caso del 2° Capo Otello Parpajola, appunto prigioniero di guerra, e ridenominato “assente dal servizio”. Una semplicemente vergognosa manipolazione dei fatti. Le Forze Armate devono dare un esempio di dignità nell’uso delle parole, non tradendo mai la verità. Mi riferisco specificamente al precedente scritto “la dignità per gli auto-affondati” che riferiva di un grave episodio accaduto dopo l’8 settembre ’43, in seguito ad un ordine per le navi, che si trovavano in estremo oriente, di auto-affondamento.

Si tratta di una vicenda che è stata coperta da una fitta coltre di silenzio, per 70 anni. In questa vicenda c’è un particolare aspetto sul quale merita di riversare l’attenzione e riguarda la manipolazione del linguaggio che è stata messa in essere in questo episodio anche per via delle gravissime conseguenze che ha prodotto. Il capo contabile della nave Carlotto, il su citato 2° capo Parpajola (che lasciò per ultimo, insieme al comandante la nave, a seguito dell’ordine di auto-affondamento) e che è rimasto prigioniero in Giappone, è stato denominato come un “assente dal servizio”. Dunque un falso e, a livello linguistico, una lesione grave alla “dignità della parola” (perché anche le parole hanno una dignità). Il sottufficiale, infatti, non è stato affatto assente ma ben presente in un campo di concentramento tra l’altro in condizioni assolutamente critiche (per la salute e non solo). Ovviamente la falsificazione linguistica aveva dei precisi intenti, tra l’altro escludere dai dovuti riconoscimenti, ed è profondamente irrispettosa della condizione dello “stato di prigionia” in cui si è venuto a trovare il militare. Nonostante i vari interventi della vedova del 2° capo Parpajola in questi anni, nulla è stato fatto circa questa vergognosa mistificazione linguistica. La signora Carla Parpajola si è rivolta anche al Presidente della Repubblica, che peraltro forse (è semplicemente una mia ipotesi) non ha potuto prendere visione diretta della lettera. Alla signora è stata inviata una risposta “di ufficio”, in termini strettamente burocratici, che richiamavano il fatto, peraltro non rispondente al vero, che alla signora erano già state in passato fornite spiegazioni sul caso prospettato al Presidente della Repubblica. Nel fondo della vicenda vi è, ovviamente, una grave lesione dei diritti umani, ed è sperabile pertanto che in merito possa intervenire la Commissione straordinaria per i diritti umani, che è stata istituita presso il Senato e di cui è presidente il Sen. Luigi Manconi. Forse noi tutti dobbiamo ricordarci, tra l’altro, che le parole possono essere armi e possono anche produrre ferite più gravi di quelle prodotte dalle armi. E dobbiamo ricordare anche che la lealtà deve essere una qualifica fondamentale del comportamento militare a tutti i livelli. La disinformazione dovrebbe essere bandita nell’ambito delle forze armate e severamente punita nel caso venga messa in essere. C’è solo da augurarsi che questo caso possa essere riconsiderato attraverso una più attenta analisi dei fatti.

Falco Accame Presidente Anavafaf e

Presidente Onorario del Centro Iniziative per la Verità e Giustizia