Turchia: una realtà in incerta evoluzione

Quadro politico interno

La vittoria di Erdogan nella consultazione elettorale dello scorso 10 agosto, la settima in altrettanti scrutini dal momento in cui è divenuto Primo Ministro nel 2002, ha segnato una tappa importante nell’evoluzione del quadro politico in Turchia. Essa fa seguito al successo riportato nelle elezioni municipali del 30 marzo che aveva smentito le previsioni di coloro portati ad attribuire ai moti di protesta di Istanbul e di Ankara del 2013 un rilievo maggiore di quello che in realtà avevano.

La Turchia profonda continua a essere soggiogata dal populismo retorico di Erdogan, volto a proseguire senza soluzione di continuità la lotta contro “le elite civili e militari” che hanno dominato per decenni nel grande Paese anatolico.

L’evento del 10 agosto riveste una peculiare importanza se non altro perché ha costituito il primo esempio di un’elezione diretta del Capo dello Stato, il dodicesimo nella storia del Paese. Ma le novità non si fermano qui, dato che l’intendimento dell’ambizioso Erdogan è di cambiare la Costituzione, conferendo a una carica, fino ad oggi in larga misura simbolica, un’incidenza ben più marcata rispetto all’attuale.

La consultazione parlamentare del giugno 2015 rappresenterà dunque un passaggio strategico nel divenire della Turchia poiché sarà proprio in esito al successo, che ovviamente Erdogan auspica si riveli impattante, che il mutamento costituzionale potrà prodursi; consentendo a colui definito dagli oppositori politici “il nuovo Sultano” di continuare a operare per realizzare il sogno, intensamente perseguito, di figurare alla guida del Paese nel non lontano 2023 quando i turchi celebreranno il centenario della fondazione della Repubblica.

L’ambizione di Erdogan non conosce limiti e nulla lascerà egli d’intentato pur di soddisfare il suo istinto di dominio.

Secondo l’opinione di alcuni analisti tutto ciò non lascia presagire molto di positivo per il futuro di un Paese di strategica rilevanza, membro della NATO e in possesso del secondo più potente esercito dell’Organizzazione atlantica dopo ovviamente la superpotenza USA.

A nostro parere simili inquietudini non appaiono ingiustificate ove si getti uno sguardo sul modo autoritario e intollerante col quale Erdogan si è confrontato con le manifestazioni del dissenso in questi ultimi anni. La Turchia è divenuta la realtà meno propiziante e più pericolosa per i giornalisti, spesso finiti nelle patrie galere per avere osato sfidare il potere del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), a vocazione islamista che porta avanti una ben delineata strategia mirata alla graduale occupazione dell’apparato statale e delle istituzioni.

L’inizio di questa battaglia risale alla fine dello scorso decennio quando le forze congiunte, entrambe di vocazione islamista, di Erdogan e dell’allora suo alleato, poi divenuto acerrimo nemico, Fethullah Gulen, in esilio negli Stati Uniti, interagirono profittevolmente, coalizzate contro l’alta casta militare allo scopo di impedire il ripetersi di colpi di stato, prodottisi a quattro riprese dagli anni 80, ogni volta che moti contro l’establishment prendevano corpo.

L’alleanza tra i due funzionò all’uopo a meraviglia, portando all’arresto e all’avvio di processi contro alti ufficiali delle Forze armate. Ma nel momento in cui il comune nemico veniva a perdere posizioni di potere cresceva per converso l’animosità e la diffidenza tra le due formazioni rivali, unite da un comune obiettivo ma intrinsecamente segnate da una matrice politica e religiosa piuttosto divergente.

Il movimento cui fa capo Fethullah Gulen, considerato come uno degli “scholars” islamici più apprezzati, è una forza tutt’altro che trascurabile, ben ramificata nei gangli vitali della società turca, oltre ad essere presente in altre contrade dell’areopago islamico. Al suo interno coesistono una sorta di culto della personalità, un amore del segreto e forme alquanto attive di solidarietà sociale, nel solco di una tradizione islamica, in Turchia contraddistinta da una profonda religiosità e da un notevole livello di tolleranza, funzione di una inclinazione consolidata verso la cultura e la diffusione del sapere.

In definitiva l’abbattimento del potere militare ha comportato l’accrescersi delle tensioni all’interno dell’universo islamico turco, oltre che nella società. Lo scatenarsi della campagna condotta contro Erdogan dalle frange islamiste vicine a Gulen con pesantissime accuse rivolte all’allora Primo Ministro di essere a capo di una rete di favori dalla quale i membri della sua famiglia traevano consistenti vantaggi ha comportato una repressione senza precedenti, con decine di arresti che non hanno risparmiato alcun settore sociale. Ciò ha aggravato la polarizzazione nel Paese, iniziatasi con la rivolta di Gezi Park a Istanbul del giugno 2013, scoppiata per impedire la costruzione di edifici commerciali, a detrimento degli spazi di verde. La rivolta giovanile in quell’occasione fu egualmente repressa con brutale fermezza, in maniera cruenta, suscitando espressioni di condanna anche in Europa e negli Stati Uniti.

Lo scontro in seno alla galassia islamica veniva dunque a pesare su un quadro sociale già alquanto deteriorato dove le speranze di una transizione democratica, che facesse dimenticare gli errori e gli orrori di decenni di autoritarismo militare, promessa da Erdogan in esito ai successi elettorali dello scorso decennio, apparivano sempre più remote.

L’eclatante vittoria riportata dal partito dominante AKP nelle elezioni municipali del 30 marzo scorso ha posto fine alla logorante faida, definita dall’autorevole quotidiano “Hurriyet”,  una “public comedy”, dai risvolti poco edificanti per un Paese la cui vocazione sarebbe quella di svolgere un ruolo decisivo ai fini della pace e stabilità del sub-sistema di appartenenza, figurando come un punto di riferimento per altre realtà islamiche.

Arresti ed epurazioni a danno di coloro sospettati di nutrire simpatie “eversive” hanno costellato le cronache di stampa con la conseguenza di una spirale autoritaria e repressiva che sembra ormai contraddistinguere in larga misura la “governance” dell’era Erdogan.

Da qui discende il livello di ansietà e preoccupazione per l’avvenire di un’esperienza politica dai promettenti sbocchi, rivelatasi al contrario portatrice di un nuovo autoritarismo dai contorni tutt’altro che rassicuranti.

La strategia del Presidente Erdogan mira ad accreditare il miraggio di una “nuova Turchia”, affrancata dalle catene di un’oppressione la cui finalità, secondo le espressioni usate dal Presidente, era quella di “cancellare le diversità e il senso d’identità” del popolo turco, destinatario di processi di “omologazione” voluti e perseguiti dalle aborrite elite, “urbane e laiche”, per le quali i valori fondanti dell’entità turca non sono più accettabili nel mondo globalizzato, dominato dagli apparati della finanza, sordi alle aspirazioni della base sociale.

In definitiva Erdogan tiene ad accreditarsi, elemento posto in risalto dal quotidiano conservatore Milliyet, come “one of the people”, interprete e portavoce delle “reali” esigenze dei cittadini ordinari, quegli stessi che per decenni hanno patito in silenzio le esazioni dei generali, depositari di un regime ”soffocatore dell’anima di un popolo”.

Il nuovo Sultano mira in tal modo a colmare il vuoto esistente tra le élites, prive di valori e d’identità, e la massa dei turchi, soprattutto quelli residenti nei vasti spazi dell’interno anatolico, dove le non prospere condizioni di vita coesistono con l’attaccamento profondo alla religione ed a tradizioni ancestrali. Il messaggio, tinto di accenti messianici, di Erdogan si rivolge per l’appunto a questi settori del Paese, condannati per troppo tempo all’emarginazione e a una umiliante ghettizzazione.

Quando Erdogan parla, come nel discorso tenuto all’indomani del trionfo del 10 agosto, di una “nuova Turchia”, dove, ”per la prima volta nella storia nazionale, lo Stato e la Nazione guardano nella stessa direzione”, egli intende dunque riferirsi a una politica volta a ridefinire i valori e il senso di appartenenza della comunità nazionale. Attraverso di essa l’obiettivo perseguito emerge con una certa evidenza: ovverossia allineare le istituzioni e l’apparato dello Stato al sentire profondo della maggioranza dei cittadini, di coloro ovviamente che per il sistema di valori in cui credono e per l’ambiente sociale nel quale vivono e operano,  si identificano con le scelte politiche del loro leader.

Tenendo presenti questi aspetti e il sofferto passato di questo Paese all’indomani della proclamazione della Repubblica poco meno di un secolo fa con tutto il carico di abusi e ingiustizie perpetrati da una casta militare al di sopra della legge, beneficiaria del silenzio complice dell’Occidente, si può più agevolmente comprendere le persistenza nel tempo e lo spessore del consenso che Erdogan ha potuto godere per più di dieci anni, vincendo sette consultazioni elettorali, abbattendo in maniera incruenta un sistema di dominio che appariva insormontabile, riuscendo in tal modo a riorientare il divenire di un Paese verso nuove evoluzioni e nuovi approdi.

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La sfida che si presenta a colui che pretende di incarnare la “vera” identità della Turchia appare comunque fin da ora irta di incognite sia sul fronte politico interno sia, come vedremo più avanti, su quello, altrettanto problematico, dei rapporti nel subsistema regionale cui questo grande Paese appartiene.

Essa risente già del pernicioso livello di polarizzazione politica, culturale ed anche religiosa che avvelena da qualche tempo il clima sociale del Paese. Le misure restrittive, lesive delle libertà personali, adottate contro tutti coloro, emanazione anch’essi della società civile (giornalisti in primis ma anche uomini di cultura, membri delle forze di sicurezza e comuni cittadini), nonché le recenti gravi limitazioni imposte ai social media hanno suscitato sia in Turchia che in Occidente un’ondata di critiche, ampiamente giustificate per il carattere iniquo ed autoritario che esse rivestono. Con buona pace degli intendimenti professati da Erdogan e dal suo fido collaboratore Davutoglu, sul quale avremo occasione d’intrattenerci nel successivo paragrafo, di continuare a perseguire il disegno, mai in verità effettivamente abiurato, di entrare a far parte un giorno dell’Unione europea.

Tali fatti non possono non aver nuociuto all’immagine del leader carismatico, visto dai suoi oppositori nella veste di figura animata da intenti che lasciano un esile spazio al dialogo, con i pericoli che questo comporta in un Paese dai delicati equilibri, mosso da uno spirito d’intolleranza che non sarà mai accettata dai settori più liberali, attratti dalle tecnologie dell’informazione e dalla rivoluzione dei costumi. L’occupazione delle istituzioni dello Stato portata avanti con uno scarso rispetto della prassi democratica produrrà effetti che, a parere di molti commentatori, non gioverà alla fragile democrazia turca.

L’ondata di conservatorismo che pervade ora la realtà turca, che ha finito per contagiare e coinvolgere il principale partito di opposizione (Republican People’s Party – CHP), costretto per ragioni tattiche a stringere un’alleanza con l’estrema destra nazionalista, potrà giovare solo in una certa misura a Erdogan. Arricchiremo quest’aspetto al termine di questa riflessione.

 

La Turchia e la sua proiezione esterna

 

Una delle conseguenze dell’ascesa di Erdogan alla Presidenza è stata la “promozione” di Ahmet Davutoglu da Ministro degli esteri a Capo del Governo e a leader del Partito dominante, “Justice and Development Party”. Questo costituisce il risultato di un lungo percorso che ha visto l’affabile Ahmet sempre al fianco di Erdogan, fin da quando quest’ultimo lo chiamò come “Chief advisor” nel 2003 all’indomani del suo primo successo elettorale, il primo, come abbiamo visto, di una lunga serie.

Secondo gli oppositori politici gli incarichi assegnati a Davutoglu sarebbero dovuti in minor misura ai risultati della sua gestione come responsabile della diplomazia, un quadro a tinte miste, rispetto ai meriti riconosciutigli dallo stesso Erdogan nella lotta contro la cosiddetta “struttura parallela”, ovverossia la rete di tutti coloro che contestano inflessibilmente una linea politica giudicata rischiosa per gli equilibri democratici del Paese. Secondo le medesime fonti tali riconoscimenti sarebbero stati pubblicamente esternati dal “nuovo Sultano” nel corso di una riunione dei vertici dell’AKP.

Vero o non vero, il fatto che l’ex-Ministro degli esteri assurga ai vertici della formazione politica dominante qualcosa vorrà pur significare, a riprova di come il quadro politico interno in Turchia è in via di profonda trasformazione, avviato verso direzioni che suscitano le giustificate perplessità di molti osservatori.

Ciò detto, non si può comunque trascurare il rilevante, frenetico impulso dato da Davutoglu all’evoluzione della politica estera del suo Paese. A parere di Richard Falk, esimio docente dell’Università di Princeton, il merito del principale collaboratore di Erdogan atterrebbe principalmente alla sua intelligenza, all’aver compreso che nel presente caotico e disgregato assetto internazionale, la Turchia, membro della NATO, legata agli Stati Uniti da uno stretto rapporto sul piano della sicurezza, potesse nondimeno allargare il campo della sua proiezione esterna non solo in Medio Oriente ma anche ben al di là, verso aree più lontane, in Asia, Africa nera e perfino in America latina.

Alcuni esempi meriterebbero di essere citati a tal proposito. Il primo riguarda l’adesione di Ankara, in qualità di “Dialogue Partner”, alla “Shang-hai Cooperation Organisation”, organismo regionale dominato dalla Russia e dalla Cina, del quale fanno parte altre quattro Repubbliche asiatiche ex-sovietiche, il cui ruolo non dichiarato inter alia è di contrastare la penetrazione della NATO, ovverossia degli Stati Uniti in Asia centrale.

A questa forza anti-NATO la Turchia ha chiesto e ottenuto di aderire, seppur non come “full member”, Questo consentirà non solo l’accesso a sbocchi allettanti sotto il profilo economico-commerciale ma anche la valorizzazione delle affinità linguistiche e culturali esistenti tra la Turchia e le repubbliche dell’Asia centrale dove, ad eccezione del Tadjikistan, vengono parlati idiomi appartenenti alla cosiddetta matrice “turchica”.

Il secondo esempio lo troviamo in Africa. In questo continente Ankara ha realizzato uno sforzo di “outreach” che ha portato all’apertura di un numero considerevole di Rappresentanze diplomatiche attraverso cui procedere ad una penetrazione economica che vede imprese turche strappare contratti vantaggiosi, particolarmente nel comparto delle infrastrutture, in Paesi africani fino a ieri considerati aree esclusive delle ex-Potenze coloniali europee (Costa d’Avorio, Congo-Brazzaville, RDC). Non solo. Anche in Somalia la diplomazia di Ankara si è fatta apprezzare, come ricordato dallo stesso Falk, grazie ad un’impattante policy umanitaria a favore di una realtà considerata dall’Occidente un “failed State” e per questo abbandonata dal resto del mondo, che ha fruttato alla Turchia nel corso del 2011 il plauso dell’Unione africana con gli inevitabili “ritorni” che ciò ha inevitabilmente comportato.

Il terzo esempio concerne il tenace perseguimento della politica di avvicinamento all’Unione europea, cui Davutoglu in particolare ha attribuito e continua ad annettere una “strategica” rilevanza; anche se da voci critiche non si manca di far rilevare che l’adesione ai criteri fissati da Bruxelles sia servito essenzialmente a Erdogan come utile tramite per indebolire l’autorità della casta militare, accrescendo il potere della nomenclatura politica nelle istituzioni e nella società. In ogni caso i negoziati in vista di un’adesione, per ora alquanto remota, all’UE continueranno e questo non potrà non comportare benefici effetti sul delicato momento che attraversa il Paese.

Ulteriori punti da menzionare a merito di Davutoglu riguardano l’inizio di un avvicinamento con l’Armenia, dopo decenni di totale ostilità per le ben note ragioni legate al genocidio risalente alla Prima guerra mondiale, e l’avvio di un iter negoziale con la minoranza curda, tuttora in una situazione di stallo, ma che lascia qualche speranza che un conflitto, che ha comportato decine di migliaia di morti, possa finalmente aver termine. Vi è da tener presente che il tema del massacro armeno del 1915 non è più un argomento tabù in Turchia e se questo si produce, è anche per merito dell’ex-Ministro degli esteri.

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Più controverso appare il bilancio della sua azione nell’ambito medio-orientale. Siamo d’accordo con Falk quando sostiene che la diplomazia della “zero problems with neighbours” perseguita con coerenza e determinazione dall’ex-Ministro degli esteri ha conosciuto, in effetti, il suo miglior successo prima dell’esplodere della Primavera araba nel 2011. In quel momento la Turchia costituiva un punto di riferimento prezioso per i partner arabi. La transizione democratica nel grande vicino non arabo accreditava ancora la speranza che Islam e democrazia potessero conciliarsi secondo parametri irreperibili nel mondo arabo-islamico.

A questo era da aggiungere il coerente sostegno fornito da Ankara alla lotta del popolo palestinese e il tributo di sangue pagato dalla Turchia nel tentativo di affrancare gli abitanti di Gaza dallo spietato blocco imposto fin dal 2007 da Israele. Tutto questo ha ulteriormente elevato il prestigio turco nella regione, dando linfa e spessore a una diplomazia che, nel perseguimento degli interessi nazionali, mirava ad assicurare un apprezzato contributo alla stabilità di un’area endemicamente instabile.

L’attrazione di un modello democratico sulla riva nord del Mediterraneo ha verosimilmente accelerato l’esplodere delle tensioni sulla riva sud, che hanno generato quel mutamento rivoluzionario dal quale è seguito l’abbattimento dei regimi autocratici in Tunisia, Egitto e Libia.

Le reazioni turche a tali rivolgimenti si rivelarono, dopo una prima fase di sconcerto e sorpresa, favorevoli, in linea con le visioni propugnate dal partito dominante ad Ankara.

Tutto questo ha continuato a prodursi fino all’aggressione occidentale alla Libia di Gheddafi del marzo 2011 i cui catastrofici esiti sono oggi sotto gli occhi di tutti.

L’iniziale disapprovazione turca nei confronti di un attacco perpetrato, a somiglianza di quanto osservato a proposito dell’attacco USA all’Iraq di Saddam Hussein nel 2003, senza una benché minima base strategica, con lo stravolgimento di una risoluzione delle Nazioni Unite, principalmente allo scopo di impedire la concessione di contratti faraonici nel settore energetico a Paesi rivali, in primis Russia e Cina, non tenendo nella minima considerazione il peculiare assetto socio-politico della realtà libica, venne in maniera improvvisa e inopinata a cessare, sostituito da un repentino sostegno alla scellerata operazione.

Secondo alcuni organi dell’opposizione turca l’inatteso mutamento trovò la sua ragione d’essere nell’incontro, durato diverse ore, intervenuto nel bel mezzo della crisi, tra Erdogan e l’ambizioso emiro del Qatar, Khalifa Al-Thani, protagonista di una diplomazia scriteriata che lo costrinse, pochi giorni prima del colpo di stato militare in Egitto del 3 luglio 2013, a rassegnare precipitosamente le dimissioni a favore dell’attuale emiro. Il figlio Tamim al-Thani.

L’esito di quell’incontro ha segnato da quel momento il corso della politica turca a fronte dei sommovimenti che a catena hanno sconvolto l’universo arabo. Dopo la disastrosa avventura libica che ha provocato un’onda destabilizzante nel retroterra africano, riversando migliaia di diseredati sulle sponde europee, Siria, Bahrein e Yemen sono entrati nella tormenta, scossi da tensioni e lotte che in itinere hanno assunto una matrice ben diversa da quella che aveva caratterizzato i primi moti della Primavera araba in Tunisia ed Egitto.

Ciò che contraddistingue i tragici eventi nei tre suddetti Paesi è il carattere settario dello scontro, alimentato in larga misura dalla reazione delle monarchie autocratiche del Golfo, allarmate da evoluzioni giudicate pericolose per gli interessi dinastici di Paesi, come l’Arabia saudita, gli Emirati e Bahrein dove, dietro la fedeltà al messaggio del Profeta, si cela l’intento di preservare un ordine assoluto fondato sui privilegi ed il dominio indiscusso delle case regnanti.

Per comprendere forse meglio il carattere populistico di Erdogan e del suo fido collaboratore Ahmet Davutoglu, sarebbe sufficiente ricordarsi di come, a fronte di avvenimenti di portata storica, il nuovo Presidente della Repubblica fondata da Ataturk abbia ritenuto di mutare politica in maniera così brutale e repentina.

Le conseguenze di tale improvvida scelta non si sono fatte attendere. La “zero problems with neighbours diplomacy” ha inesorabilmente cominciato a perdere attinenza con la realtà dei fatti. La previsione di un rapido crollo del regime di Assad in Siria si è rivelata errata, portando la Turchia a sostenere progressivamente, consapevolmente o inconsapevolmente, le formazioni estremiste islamiche in grado di prendere il sopravvento sulla composita e disorganica galassia dell’opposizione moderata. Mentre la guerra civile in Siria si incancreniva e radicalizzava, mietendo decine di migliaia di morti tra la popolazione civile, la frontiera turca diveniva il luogo di agevole transito di jihadisti, turchi e stranieri, chiamati a combattere una “guerra santa” contro gli “infedeli e gli apostati” in un Paese, la Siria, che, seppur governato in maniera autoritaria, fino al 2011 era un mosaico di comunità di razze e religioni diverse. I ripetuti avvertimenti occidentali alla Turchia nel corso del 2012 e 2013 sui rischi di un approccio irresponsabilmente disinvolto rimasero sistematicamente inascoltati e questo ha costituito un errore rivelatosi fatale alla luce di quel che si è prodotto lo scorso giugno in Iraq.

Alcuni commentatori americani, come Jon Alterman, direttore per il Medio Oriente presso il Centro di Studi strategici di Washington, nonché l’autorevole Wall Street Journal accusano ora apertamente la Turchia di non aver fatto nulla per arrestare il flusso di militanti islamici in Siria, Iraq e Libano (“turning a blind eye”), parlando addirittura, come fa il settimanale Newsweek, di una “Jihadist Highway” percorsa senza ostacoli, destinataria di ben scarsi controlli.

Alterman giunge perfino a configurare da parte turca una “terrorism-friendly policy” attraverso cui Ankara mirerebbe “stoltamente” a espandere la sua influenza nella regione. Il WSJ, dal canto suo, non lesina nei termini usati, definendo “disastrosa” la politica perseguita da Erdogan in un’area “incandescente” (“powder keg”).

La Turchia ha perso in tal modo buona parte della sua credibilità, non solo nei confronti del potente alleato USA ma anche nella regione, trovandosi ad avere pessimi rapporti con i tre principali Paesi del suo “near abroad”: Siria, Egitto ed Israele, da dove sono stati richiamati gli ambasciatori di Ankara; anche se la variabilità delle vicende diplomatiche ed il peso degli interessi potrebbero non precludere in un prossimo futuro il riaccendersi di canali di contatto. Questo discorso ovviamente riguarderebbe l’Egitto e Israele, non certamente la Siria.

Inoltre gli eccellenti rapporti di “strategica rilevanza” con Qatar, creatisi all’indomani del succitato incontro con l’emiro Khalifa al-Thani, hanno alienato le simpatie delle autocrazie del Golfo, irritate per l’incondizionato appoggio fornito da Ankara ai Fratelli mussulmani, sanguinosamente defenestrati in Egitto e perseguitati, in quanto giudicate “formazioni terroriste”, in Arabia saudita, Emirati e Bahrein. Non dimentichiamo il ruolo svolto da Riyadh e Abu Dhabi nella tragedia siriana, finalizzato a colpire gli interessi iraniani, indebolendo il cosiddetto “Crescente sciita”.

Molti problemi caratterizzano ora le relazioni di Ankara con i suoi vicini  e la credibilità di Davutoglu viene messa in discussione, rivelandosi la ZPN, come viene definita in gergo diplomatico la sua prediletta politica di buon vicinato, un ricordo del passato. A riprova di ciò occorre ricordare che il Foro di Cooperazione arabo-turco non si riunisce da un paio d’anni; conferma di come le relazioni tra la Lega araba e la Turchia siano tutt’altro che proficue.

Il terrorismo dell’ISIS ed il suo califfato, in grado di mutare la carta del Medio Oriente fissata nel lontano 1916 dalle Potenze coloniali, hanno ulteriormente indebolito la posizione turca nella regione. La circostanza che un cospicuo numero di giovani turchi, più di mille, abbiano scelto di militare nelle file jihadiste dà un’idea di come la Turchia sia fortemente esposta agli effetti destabilizzanti derivanti dall’espandersi dell’idra terrorista in prossimità della sua frontiera, anche, come vedremo più avanti, sul piano interno.

Inoltre il rapimento da parte dell’ISIS di una cinquantina di dipendenti operanti presso il Consolato di Mosul, prodottosi nonostante le ripetute assicurazioni di Davutoglu che “nulla sarebbe avvenuto contro il nostro personale”,  conclusosi in circostanze nebulose con la loro improvvisa liberazione il 20 settembre, ha legato fino ad ora le mani della diplomazia di Ankara, portata ad assumere un ruolo defilato in seno alla coalizione, composita e disparata, messa in piedi, tra esitazioni ed incertezze, dagli Stati Uniti in vista di una campagna militare contro i terroristi che suscita già fin da ora dubbi e timori sui possibili sbocchi. Il commentatore libanese Rami Khouri parla a tal proposito di un “intrusive sheriff”, comprensibilmente poco amato e poco stimato, alla guida di elementi locali, poco inclini a seguirlo nella caccia al “malvagio” (ISIS) del momento.

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La Turchia continuerà in ogni caso a svolgere un ruolo di primo piano nei delicatissimi equilibri medio-orientali. Né potrebbe essere altrimenti considerata la dimensione, la collocazione strategica e la storia di un Paese, da sempre al centro degli eventi in questa parte del mondo.

Quel che occorre tuttavia rilevare è come la carica di populismo e di mal ponderato protagonismo, nel solco di una desiderata riedizione del passato ottomano, di cui ha dato finora prova la diplomazia di Ankara, ha leso gravemente l’immagine di un Governo che ha deluso le aspettative di masse arabe, tuttora alla ricerca di maggiore democrazia e libertà, traguardi inflessibilmente osteggiati dai tutori di un ordine dinastico ed autocratico nella regione.

Questo ordine continua a beneficiare della complicità di un Occidente mosso principalmente da interessi che riconoscono un ben angusto spazio alle esigenze di crescita e reale sviluppo di popoli sottoposti al servaggio e ad una umiliante emarginazione; la cui legittima aspirazione resta di riappropriarsi del loro divenire.

 

Un’economia in difficoltà

 

Una delle ragioni del duraturo successo di Erdogan risiede nell’andamento favorevole dell’economia nazionale registratosi nell’ultimo decennio. In effetti, secondo i dati disponibili il ritmo annuale di crescita a contare dal 2003 fino a un tempo recente non si è discostato dal 5%, inducendo un aumento del tenore di vita della popolazione di notevole rilevanza, avvicinandosi a livelli di prosperità di tipo europeo.

La Turchia fa parte delle economie emergenti e ciò spiega in larga misura le sette ininterrotte vittorie elettorali di Erdogan dell’ultimo decennio.

A questo punto la domanda da porsi è la seguente: le prospettive di crescita sono destinate a ridursi a causa di un ambiente esterno poco propiziante oppure no? Tale quesito riveste un’indubbia rilevanza all’indomani dell’ascesa alla Presidenza di Erdogan e alla luce dei suoi dichiarati intendimenti di modificare la Costituzione se il responso che scaturirà dalle elezioni legislative del giugno 2015 glielo consentirà.

Si accennava all’ambiente esterno. Il primo pensiero va ovviamente a un quadro regionale devastato da spinte destabilizzanti che non lasciano certo presagire rosee prospettive per lo sviluppo degli scambi economici nell’area.

Altre variabili non sono da trascurare come un quadro internazionale in innegabile mutazione. La Riserva federale americana ha posto gradualmente termine alla politica di “easy money” o programma di stimoli mirata al rilancio di un’economia stagnante. Il conseguente innalzamento dei tassi ha colpito le economie dei Paesi emergenti, inaridendo le possibilità di accesso ai capitali indispensabili per finanziare iniziative di sviluppo.

Le conseguenze sono ora evidenti in Turchia con ritmi di crescita ridotti ed un persistente braccio di ferro tra il potere politico e le autorità monetarie vertente sul livello dei tassi.

Patetici sono apparsi gli attacchi lanciati da Erdogan alla Banca centrale colpevole di non sottostare nella maniera voluta al desiderio del Presidente di rendere “cheap” il costo del denaro, consentendo il più agevole finanziamento d’iniziative a carattere sociale o infrastrutturale.

Critiche ingiustificate e respinte anche dagli ambienti imprenditoriali cui non sfugge l’andamento attuale dell’economia turca che registra alta inflazione, risparmio molto basso, crescita non soddisfacente, aumento della disoccupazione, cospicuo deficit delle partite correnti e svalutazione galoppante della lira.

Quanto descritto non sfugge egualmente alle attenzioni delle tre agenzie di rating internazionali con le quali i rapporti della Turchia di Erdogan sono da qualche tempo pessimi. Con la Standard and Poor’s, la più importante delle tre, le relazioni si sono bruscamente interrotte al punto che le valutazioni della S&P non beneficiano più di erogazioni dello Stato turco a fronte dei servizi resi.

Quanto alle altre due agenzie, Moody’s e Fitch, destinatarie di recenti “warnings” da parte di Erdogan, gli “assessments” sull’andamento della congiuntura sono giudicati dal primo cittadino turco “politically motivated”; ergo o cambiano o i rapporti con esse conosceranno la sorte riservata alla S&P.

Questo fa capire due cose. La prima che l’economia del Paese appare dirigersi verso percorsi difficili dove il contrasto tra le logiche di regime mirate alla preservazione del consenso e la cruda realtà di un quadro congiunturale con un reperimento delle risorse tutt’altro che agevole, diverrà via via più aspro, contribuendo in tal modo ad accrescere le già esistenti tensioni nel Paese.

La seconda attiene alla riconferma del carattere populista della politica di Erdogan che non ammette condizionamenti alla sua linea di condotta volta a soddisfare la sua brama di potere.

In effetti, una delle argomentazioni addotte dalle agenzie di rating fa stato dei rischi legati a un’instabilità crescente, generata dall’ultimo successo elettorale di Erdogan, che viene visto oltre-Atlantico come fonte di problemi e non di più rassicuranti equilibri.

Il persistente contrasto tra la Banca centrale e gli ambienti imprenditoriali da una parte e i vertici politici dall’altra non rassicura i mercati e gli investitori internazionali che, per disgrazia di Erdogan, restano molto più sensibili alle valutazioni delle agenzie di rating che ai proclami od alle esternazioni del “nuovo Sultano”.

Il contesto generale tende dunque ad accreditare la tesi di molti secondo cui man mano che ci si avvicinerà alla scadenza elettorale del prossimo giugno, le tensioni legate a divergenti risposte da dare ai problemi posti da un rallentamento del ciclo economico tenderanno ad esacerbarsi, vista la posta in gioco per un leader che non lascerà nulla d’intentato pur di appagare la sua irrefrenabile ambizione.

Erdogan, infatti, dovrà contare su un successo eclatante in quella occasione se vorrà ritoccare la Costituzione, adempimento imprescindibile per poter essere lì al timone del Paese nel 2023 quando la Repubblica fondata da Ataturk celebrerà il suo centenario; appagando il suo desiderio di essere consegnato agli annali della Storia come il secondo Padre della Patria.

 

 

Conclusione

 

Uno scenario incerto contraddistingue dunque l’evoluzione della realtà turca. Luci e ombre coesistono in un quadro a tinte miste che suscita le attenzioni, apprensioni e speranze di coloro ben consapevoli dell’importanza di un’entità che non intende mettere in discussione il suo ancoraggio occidentale ma che non sa resistere alla tentazione di una riedizione del suo passato ottomano. Il che spinge alcuni ambienti americani a definire impropriamente questo Paese addirittura come un “non-ally” (non alleato). La verità è un’altra ovverossia che la Turchia, pur continuando a far parte della NATO, non sarà più l’alleato sul quale l’alleanza occidentale potrà  contare in maniera indiscussa e scontata. Ankara sarà conseguentemente sempre più ricettiva verso il senso e le esigenze inerenti alla sua regione di appartenenza sì da renderlo verosimilmente un alleato tutt’altro che docile.

Nessuno contesta, in effetti, il fatto che la Turchia riporti in superficie quelli che non sono fantasmi ma tratti intrinseci della sua vocazione, inerenti alla sua posizione geografica, alla sua dimensione culturale, agli orientamenti prevalenti al suo interno e all’esposizione ai contraccolpi delle devastanti crisi nella regione.

Quel che per converso crea perplessità e una certa inquietudine è un’altra tentazione, di diverso genere. Intendiamo riferirci alla volontà emanante dall’alto di non tener conto della complessità della realtà nazionale, di un Paese e di una società dove i settori liberali e laici fanno parte in maniera organica dell’identità propria della Repubblica di Ataturk. Essi rivendicano un loro ruolo nel processo di trasformazione in corso e irriducibilmente si opporranno sempre a una “deriva” autoritaria in salsa islamista, che verosimilmente segnerebbe un arretramento nel costume e nello stile di vita, particolarmente per i giovani e per le donne.

Uno degli aspetti che colpisce è il modo arrogante con il quale i vertici politici si pongono nei confronti delle trasformazioni in corso. Uno di questi è il dirompente processo di urbanizzazione che ha stravolto il paesaggio sociale del Paese, creando nuovi squilibri e altre iniquità.

Su questa base fragile e cigolante poggia il vigoroso programma di sviluppo infrastrutturale che costituisce uno dei punti salienti della popolarità di Erdogan.

Ebbene questo processo avviene, duole dirlo, sulla pelle dei lavoratori turchi. Secondo le stime fornite dal “Istanbul Council for Workers’ Health and Work Safety” almeno 272 lavoratori edili hanno perso la vita dall’inizio del 2014. Sconvolgenti appaiono inoltre i dati forniti dall’opposizione politica secondo i quali ben 13.442 dipendenti operanti nel settore sarebbero morti sui luoghi di lavoro dal momento in cui l’AKP ha assunto la direzione politica del Paese (poco più di dieci anni). Di questo folto gruppo di vittime innocenti fanno naturalmente parte i 301 minatori rimasti uccisi lo scorso maggio nella miniera di Soma, località della Turchia occidentale, l’incidente più grave della storia industriale del Paese. Sebbene si siano verificati arresti di alcuni dirigenti della società mineraria per “negligenza e scarsa osservanza delle norme”, nessuna misura concreta atta a meglio proteggere la forza lavoro è stata a tutt’oggi adottata. E il lugubre ciclo di “morti bianche” non si arresta, come testimoniato dall’ultimo episodio accaduto il 7 settembre in uno dei grattacieli di Istanbul nel quale ben dieci operai hanno perso la vita per il cedimento di un ascensore al 32emo piano di un edificio. A questo scenario deprimente occorre aggiungere le migliaia di licenziamenti avvenuti all’indomani dell’approvazione di un codice da seguire in tema di sicurezza nelle miniere. (!)

Il quotidiano Hurriyet a tal proposito ha intitolato eloquentemente un suo recente editoriale, parlando del “volto oscuro” dell’industria edile in Turchia e delle squallide condizioni in cui versa il mondo del lavoro.

Anche qui emerge la logica di regime. S’incentivano i facili guadagni di settori del business interessati a compiacere la leadership politica, bisognosa a sua volta di supporti finanziari in vista di passaggi nevralgici come quelli elettorali. L’intreccio si rivela funzionale, sostenuto da un reciproco vantaggio che riserva una ben scarsa attenzione agli effetti tutt’altro che positivi di queste collusioni sul piano sociale.

Tutto ciò si rivela parimenti funzionale all’intolleranza, l’insofferenza verso le voci discordanti, le misure restrittive che si abbattono sui social media (twitter, google, addirittura wikipedia, accusati di non comprendere la realtà turca ogni volta che esprimono dubbi e preoccupazioni su quanto è dato osservare), la repressione bieca ed insensata contro i giornalisti che, come noto, fa della Turchia uno dei Paesi maggiormente a rischio per gli operatori dell’informazione.

In definitiva uno scenario suscettibile di aggravare una polarizzazione che spaventa la società civile e gli ambienti internazionali. L’onda montante di un autoritarismo, segnato da un islamismo conservatore, si profila all’orizzonte, colpendo la parte più sana e culturalmente più sensibile del Paese, composta in larga misura di giovani e di donne, non disposti ad abdicare ai benefici di una società aperta, non bigottamente repressa dove il ridere troppo rumoroso delle donne, secondo la recente esternazione di un membro del governo, “non fa parte del buon costume”(!). Il pluralismo politico e culturale per gli ambienti laici turchi rappresenta un approdo definitivamente acquisito e per questo motivo l’opposizione all’attuale processo involutivo continuerà, senza onta di dubbio.

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Concludiamo questa succinta riflessione ricordando quanto segnalato alla fine del primo paragrafo relativamente alla considerazione che il conservatorismo dilagante al livello della classe politica “potrà giovare a Erdogan solo in una certa misura”. A tal proposito vogliamo riportare un messaggio di speranza contenuto in una recente analisi condotta da ricercatori dell’Università della South Florida.

In essa si attira l’attenzione sulla confortante performance elettorale fatta registrare lo scorso 10 agosto dallo schieramento di Sebahattin Demirtas, leader del Partito democratico del Popolo (HDP), portavoce della minoranza curda, di sinistra, capace di raccogliere quasi il 10% dei suffragi. Questa formazione che si batte per una politica di emancipazione culturale a beneficio di fasce sociali, vittime, fino a oggi, di oppressione e populismo, ha beneficiato  sorprendentemente del consenso non solo della maggioranza della comunità curda nel sud-est del Paese, ma anche di una cospicua fetta di consensi in due delle principali città turche, Istanbul e Smirne, figurando come forza rappresentativa di quegli strati laici e di cultura liberale, ostili ad una nuova forma di autoritarismo, diverso da quello imposto in passato dai militari, ma non meno lesivo, nella sua recente evoluzione, dei diritti fondamentali di libertà e democrazia.

A parere degli analisti dell’Università americana, simile risultato riveste un positivo rilievo nella misura in cui potrà servire di sponda politica a tutti coloro che hanno dato vita nel giugno dell’anno scorso alla rivolta di Gezi Park in nome della tutela ambientale e contro gli effetti nefasti generati da un affarismo di bassa lega.

Il ruolo di queste forze sia a livello politico sia della società civile si dovrebbe rivelare importante in futuro a fronte di un clima di polarizzazione, determinato non solo dalle visioni limitate e repressive emananti dall’alto ma anche da un’ulteriore destabilizzazione provocata, come già accennato, dal largo ingresso nelle file dei terroristi dell’ISIS di giovani turchi.

Secondo l’opinione di alcuni osservatori appare fin da ora verosimile l’eventualità che il rientro in patria di jihadisti turchi possa facilitare le condizioni per un conflitto cruento con le formazioni militanti di sinistra, sempre presenti in Turchia, in primis con lo schieramento marxista dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), con il quale Erdogan tenta da qualche tempo di pervenire a un’intesa, dal non agevole conseguimento.

Ove ciò dovesse prodursi si assisterebbe a un clima di violenze che riporterebbe il Paese ai momenti peggiori del suo tormentato passato.

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La conclusione da trarre è che il futuro di questo grande Paese, ricco di storia e di cultura, si presenta irto di difficoltà e d’incognite. I passaggi da superare non si riveleranno indolori, ma saranno pur sempre le tappe obbligate da superare, in una prospettiva che tutti i democratici si augurano possa consentire domani alla Patria di Ataturk di reperire gli ormeggi necessari per scongiurare in maniera irreversibile i pericoli che tuttora costellano il percorso del sentiero verso equilibri politici di maggiore libertà, democrazia e giustizia.

24 settembre 2014