Filosofia della disinformazione strategica

FILOSOFIA DELLA DISINFORMAZIONE STRATEGICA

 

 La costruzione geopolitica e sociologica del Nuovo Ordine Mondiale posta in essere dagli interessi privati legati alle multinazionali occidentali, agli istituti finanziari sovranazionali, al complesso militare industriale ed al Tesoro degli Stati Uniti, tramite il braccio armato della Nato, richiede il consenso, o per lo meno la non opposizione da parte delle opinioni pubbliche dei Paesi occidentali, i Paesi cosiddetti «civilizzati».

A tal fine si rende necessaria una operazione strategica e pianificata di manipolazione a mezzo stampa degli eventi e delle dinamiche politiche, economiche e sociali, connesse agli scenari di cui sopra. Scrive in merito il filosofo Domenico Losurdo:

 Già alla fine degli anni ‘90 sull’«International Herald Tribune» si poteva leggere: «Le nuove tecnologie hanno cambiato la politica internazionale»; chi era in grado di controllarle vedeva aumentare a dismisura il suo potere e la sua capacità di destabilizzazione dei paesi più deboli e tecnologicamente meno avanzati. Siamo in presenza di un nuovo capitolo di guerra psicologica[1].

La cosiddetta infowar ha radici assai antiche (Alessandro Magno, Roma), ma è certamente con l'avvento dei mezzi di comunicazione di massa che trova il proprio compimento. In particolare, nella storia del secolo XX si è assistito ad una sistematica opera di disinformazione delle realtà politiche e di sistema scaturite dall'esperienza storica della decolonizzazione, intesa come azione politica tesa alla liberazione nazionale e sociale dal regime di servaggio imposto ai popoli di Africa, Asia, America Latina e Vicino Oriente dall'Occidente imperialista e «bianco».

Dopo il 1917, l'Unione Sovietica, l'impero eurasiatico generatosi dalla rivoluzione russa, un processo storico di lunga durata, non interamente circoscrivibile all'ottobre 1917, posto in essere contro il dispotismo ed il feudalesimo zarista ed aristocratico, ma anche contro qualsivoglia pulsione borghese e cosmopolita interna alle fazioni «occidentaliste» del “nascente” panorama politico russo, è stata vittima di un'operazione mediatica e politica, tesa alla satanizzazione non tanto dell'esperienza del “comunismo”, un'ideologia politica di derivazione occidentale, quanto della prospettiva di  progressiva insorgenza geopolitica del tradizionalismo russo. La despecificazione razziale ad elemento barbarico ed «asiatico» del popolo russo[2], soggetto etnico-nazionale costituente e prevalente all'interno dell'impero geopolitico edificato sulle ceneri dello zarismo e del nazismo sconfitti in Russia ed in Europa dopo il 1917 ed il 1945, si è configurata come una strategia tesa ad influenzare opinioni, emozioni ed atteggiamenti delle opinioni pubbliche occidentali, nei confronti del «nemico sovietico». L'Urss fu definita da Ronald Reagan, il «grande comunicatore», l'«Impero del Male». I russi furono annoverati tout court nella categoria di bolscevichi, atei e materialisti. Settori rilevanti dell'emigrazione «bianca», menscevica e dei «dissidenti» di orientamento filo-occidentale, vennero utilizzati dalla stampa e dalle tv sotto controllo degli interessi privati delle varie lobby economiche appartenenti al «campo libero», quali strumento di persuasione politica e culturale. Figure e personaggi come Andrej Sacharov, Andrej Sinjavskij, Jurij Daniel' e Vladimir Bukovskij, il cui pensiero politico ed ideologia di riferimento, il liberalismo nelle sue varie forme declinate, godeva di scarso o nullo seguito in Urss, furono de facto assimilati dai media occidentali quali rappresentanti delle legittime e maggioritarie istanze di «liberazione» dei popoli «schiavi» della «dittatura rossa». I “crimini di Stalin” subirono un processo di decontestualizzazione geopolitica ed economico-sociale, finendo per essere annoverati nella categoria del «genocidio» posto in essere da un tiranno «asiatico», «comunista» e «pazzo»[3]. Tra le leadership sovietiche succedutesi dalla morte di Lenin alla dissoluzione dell'impero, la stampa occidentale considerò legittima soltanto quella piccolo-borghese ed atlantista di Gorbaciov, Jakovlev, Shevardnadze ed infine Eltsin (seppure, quest'ultimo, da posizioni di rottura «da sinistra» con la dirigenza espressione della perestrojka), personalità di secondo piano all'interno della nomenklatura del Pcus, poste ai vertici del Partito e dello Stato in virtù di una precisa scelta geopolitica del Kgb. Dopo lo smantellamento dell'Unione Sovietica, stampa e tv del cosiddetto «mondo civilizzato» diedero il via ad una martellante campagna di disinformazione tesa a presentare quali elementi allogeni alla riconquistata «democrazia russa», le fazioni, i partiti ed i movimenti di ispirazione patriottica (favorevoli al ripristino della sovranità nazionale attraverso la riunificazione dello spazio geopolitico sovietico e, contestualmente, ostili all'introduzione, in Russia, del capitalismo anglo-sassone e dell'american way of life). La stampa occidentale non ha mai indagato le origini ed i fondamenti culturali, sociali e di integrazione comunitaria della tradizione russa. Ha preferito insistere sul tema della russofobia, della slavofobia, mascherata sotto le spoglie di un residuale quanto ormai in-credibile anticomunismo di derivazione conservatrice «reaganiana», «liberaldemocratica» o «radical-libertaria». Il tutto in funzione del consolidamento degli interessi geopolitici ed economici statunitensi nell'Europa centrorientale e finanche nelle repubbliche ex-sovietiche (quali Estonia, Lituania, Lettonia, Ucraina e Georgia), ovvero quella che l'ex-segretario alla Difesa dell'amministrazione di Bush II, Donald Rumsfeld e l'ideologo neocon Robert Kagan, ebbero a definire la «Nuova Europa», filo-atlantica ed anti-russa[4]. Tale operazione di disinformazione presenta, nel 2012, il sistema politico russo come una sorta di «regime antidemocratico», in quanto l'attuale governo federale intende muovere limitati ma in un certo qual modo significativi, almeno sul piano strettamente formale, passi in direzione del recupero dell'indipendenza nazionale, della dignità sociale del popolo e finanche dell'unità geopolitica dei territori costituenti l'allora impero.  

Dopo il 1979, allo stesso modo che per la Russia dopo la destituzione del potere filo-occidentale e feudale degli zar, un'analoga operazione di disinformazione e manipolazione (psy-ops) fu posta in essere ai danni dell'Iran, Repubblica islamica scaturita da una rivoluzione popolare di vaste dimensioni, finalizzata alla destituzione del corrotto regime autocratico dello Shah, cane da guardia degli interessi geopolitici ed economici occidentali in Medioriente, ed alla progressiva instaurazione di un originale e complesso, quanto discusso (e discutibile), quanto poco studiato, ordinamento costituzionale definito velayat-e faqih (governo del giureconsulto), sotto l'egida dell'Imam Khomeini. La rivoluzione del 1979, una sollevazione contestualmente operata contro il mondialismo e contro il tradizionalismo quietista caratterizzante importanti settori del “clero” sciita, rappresentò certamente, tra enormi contraddizioni, uno smacco per le velleità egemoniche statunitensi (e saudite) nel Vicino Oriente. Da quel momento, pur avendo in più occasioni dialogato e collaborato a vario titolo con gli Usa relativamente a questioni relative a scenari geopolitici di vario interesse, l'Iran è sottoposto ad una sorta di embargo culturale e mediatico, prima ancora che politico ed economico, da parte dell'Occidente, impegnato a ritrarre il Paese come uno «Stato totalitario», il cui popolo, sbrigativamente delineato sotto le spoglie di un'immensa ed articolata massa di giovani desiderosi di approdare ai lidi dell'americanizzazione, viene tenuto sotto il giogo repressivo e «fondamentalista» del «regime dei mullah». L'Iran è oggi una potenza regionale in prospettiva di ascesa nel Vicino Oriente, in grado di esercitare una propria influenza geostrategica ed economica, nel novero dello sfruttamento e della gestione di risorse naturali e «mercati». Le radici ideologiche e culturali del «regime», la portata autentica del consenso sul quale esso può contare all'interno della società persiana, anche e soprattutto tra le nuove generazioni, non è un elemento dirimente per i propagandisti della guerra psicologica. L'importante è favorire la «liberazione» della  società civile» (ossia, dei settori della popolazione iraniana interessati al regime change) e dell'economia iraniana dalla «tirannia», a tratti veicolata come «antisemita» e «nazista», degli ayatollah.

I movimenti di liberazione, autentici, dalla schiavitù coloniale occidentale, che hanno interessato i Paesi dell'area vicinorientale e nordafricana negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, si sono caratterizzati per una profonda adesione al socialismo nazionalista e laico-progressista (nasserismo, baathismo); Egitto (fino al 1978), Libia, Iraq e Siria sono stati fieri avversari, sotto varie forme, del Nuovo Ordine Mondiale. Il prezzo che i governi di tali Paesi hanno versato sull'altare della sfida da essi lanciata a tale progetto imperialista, è stato altissimo. Saddam Hussein, Muammar al Gheddafi, Bashar al Assad, sono ormai assimilati, nella propaganda del mainstream, ad epigoni di Adolf Hitler; il presidente jugoslavo Slobodan Milosevic, nel 1998-1999, fu ritratto dal tabloid “di sinistra” L'Espresso, come una reincarnazione, in sedicesimo, del Fuhrer. Ogni entità politica, partitica, statuale ed ogni dirigente politico i cui riferimenti culturali, ideologici e programmatici si scontrano con gli interessi del Nuovo Ordine Mondiale, subisce un processo di demonizzazione mediatica, propedeutico, nel caso dei leader di tali entità statuali o partitiche, alla successiva eliminazione fisica (coeva con quella dei popoli da essi governati, il più delle volte, come nel caso jugoslavo, iraniano e siriano, a seguito di libere e democratiche elezioni, svoltesi ovviamente nell'ambito di sistemi ed ordinamenti costituzionali differenti ed originali rispetto alla cosiddetta «democrazia liberale borghese» anglo-sassone, risalente al XVII secolo) ed alla conclusiva dannatio memnoriae.

«Comunismo», «nazionalismo», «fondamentalismo terrorista», «antisemitismo», sono gli stereotipi lessicali[5] più comunemente utilizzati dai teorici e dai propagandisti della infowar (tra cui spiccano le varie agenzie di public relations americane, come Ruder & Finn e Hill & Knowlton) per designare i  nemici» del capitalismo e dell'american way of life.

La filosofia della disinformazione è alla base dei successivi processi operativi miranti alla realizzazione concreta di psy-ops volte a suscitare il consenso dell'opinione pubblica del  cosiddetto «mondo libero» attorno alle strategie finalizzate all'edificazione di un Nuovo Ordine Mondiale ideologicamente improntato al neofascismo, all'atlantismo ed allo sfruttamento capitalistico intensivo delle risorse, energetiche, ambientali ed umane del Pianeta Terra.

Demistificare le menzogne dell'Occidente e dei suoi cantori, degli aedi dell'«esportazione della democrazia» e del «libero mercato»  nei Paesi non-allineati al mondialismo ed al cosmopolitismo liberal-borghese imperante, presuppone una critica radicale quanto rigorosa dal punto di vista dell'approccio scientifico, documentale e finanche teorico-ideologico, della filosofia della disinformazione e della manipolazione, delle menti e dei corpi (la politica come «dominio e controllo dei corpi» di schmittiana derivazione), della massa in via di progressiva atomizzazione costituente il pericolante e, dal punto di vista della psicologia sociale, paranoico, Occidente «democratico».   



[1]    D. Losurdo, Che succede in Siria?, in http://www.sinistrainrete.info/estero/1350-domenico-losurdo-che-succede-in-siria.html, 28 aprile 2011.

[2]    Cfr. D. Losurdo, Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza, Roma-Bari, 2002.

[3]    Cfr. D. Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, con un saggio di Luciano Canfora, Carocci, Roma, 2008.

[4]    R. Kagan, Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Mondadori, Milano, 2003.

[5]    Cfr. D. Losurdo, Il linguaggio dell'impero. Lessico dell'ideologia americana, Laterza, Roma-Bari, 2007.