Le aggressioni imperialiste all'Iraq e alla Libia

 

LE AGGRESSIONI IMPERIALISTE
ALL'IRAQ E ALLA LIBIA

 

 L’incontro di Saddam Hussein e Tareq Aziz con l’ambasciatrice statunitense a Baghdad April Glaspie si svolse il 25 luglio 1990, una settimana prima dell’invasione del Kuwait. Contravvenendo alla prassi diplomatica, gli iracheni registrarono ogni parola dell’incontro che successivamente resero di pubblico dominio. Un riassunto preciso di quell’incontro si può anche ascoltare dalla viva voce di Tareq Aziz nell’interessante intervista rilasciata molti anni dopo a padre Jean-Marie Benjamin e pubblicata nel DVD “Iraq, il dossier nascosto”.

In breve, Saddam Hussein avverte la Glaspie che, in assenza di un accordo, col Kuwait sarà guerra. Al che, la Glaspie risponde: “Non possiamo esprimere opinioni sui conflitti interarabi … Vi auguriamo che possiate risolvere tale problema attraverso la Lega Araba. Tutto ciò che possiamo sperare è che troviate una soluzione rapida”. Il giorno seguente la signora Glaspie lascia l’Iraq per un “periodo di ferie”.

L’ultimo tentativo di comporre il dissidio fra Iraq e Kuwait si svolge a Gedda in Arabia Saudita il 31 luglio con Mubarak, re Fahd e re Hussein in veste di mediatori. Ma a fronte delle richieste irachene (risarcimento per il petrolio estratto abusivamente dai pozzi di Rumayla con  conseguente ridefinizione dei confini, condono del debito contratto con il Kuwait per fare la guerra contro l’Iran, richiesta di affitto delle isolette kuwaitiane di Warba e Bubiyan), il Kuwait offre soltanto un prestito di nove miliardi di dollari. Il 2 agosto l’Iraq invade il Kuwait.

 

Esistono interpretazioni diverse di quell’incontro del 25 luglio 1990: la più gettonata è quella della trappola che gli USA, attraverso l’atteggiamento distaccato della Glaspie rispetto alle vicende mediorientali, avrebbero teso a Saddam Hussein fingendo di dargli semaforo verde per l’invasione del Kuwait, ed avere così l’occasione per attaccare subito dopo l’Iraq. Questa spiegazione è molto semplicistica, perché giudica determinante quell’incontro del 25 luglio, e non tiene conto fra l’altro di un piccolo, ma decisivo particolare: che fu Saddam Hussein a  convocare l’ambasciatrice per consegnarle un messaggio per il presidente Bush sr, e non la Glaspie a chiedere udienza al presidente dell’Iraq.

La guerra all’Iraq del 1991 è parte di una controffensiva degli Stati Uniti, iniziata con l’elezione di Ronald Reagan alla Casa Bianca il 4 novembre 1980, tesa a ripristinare il controllo di Washington su tutto il Medio Oriente. Va ricordato che nel 1979 con la rivoluzione khomeinista, gli USA avevano perso il controllo sull’Iran; e che l’Iraq era già da alcuni anni un alleato dell’Unione Sovietica con la quale aveva firmato un trattato di “amicizia e cooperazione” il 9 aprile 1972, che gli aveva permesso di nazionalizzare impunemente il suo petrolio.

Questo progetto degli Stati Uniti di dominio sul Medio Oriente e sulle sue risorse non sarebbe stato possibile senza la determinante collaborazione dell’ormai agonizzante Unione Sovietica che aveva abdicato da qualche anno al ruolo di grande potenza e quindi al suo potere di interdizione militare nei confronti dell’altra superpotenza. Come succede sempre ai pentiti e ai neoconvertiti ad altre religioni, Mikhail Gorbaciov e soprattutto il suo zelante ministro degli Esteri Eduard Shevardnadze sono i primi a condannare subito l’invasione del Kuwait con un  durissimo e minaccioso comunicato congiunto USA-URSS. Poi il 25 settembre 1990 nel suo discorso all’ONU, Shevardnadze si supera, accusando Saddam Hussein di terrorismo non solo contro i paesi confinanti, ma anche contro il nuovo ordine mondiale che gli USA con la compiacenza dell’URSS vanno costruendo. Dopo aver definito l’atteggiamento di Saddam Hussein un affronto inaccettabile per l’umanità, conclude: “Se non troveremo la maniera di reagire, il mondo tornerà indietro di mezzo secolo”. Quando il 20 dicembre 1990, Shevardnadze è costretto alle dimissioni dal crescente malcontento dell’opinione pubblica e da una parte della Duma che non condivide minimamente la sua linea di politica estera, il segretario di Stato USA James Baker afferma: “Mi sento onorato per aver lavorato con il mio amico Shevardnadze e ne avverto già la mancanza”. Ma ormai i giochi per l’Iraq sono fatti.  

Da questa assai sintetica e parziale ricostruzione di alcuni avvenimenti inerenti l’aggressione all’Iraq si comprende perché con l’eclissi e poi la fine della Guerra Fredda, l’unica superpotenza militare rimasta sulla scena mondiale non ha più bisogno di architettare intricati casus belli per aggredire i paesi che non si conformano alle sue aspettative. Bastano anche solamente grossolane falsità, come i neonati kuwaitiani infilzati dalle baionette irachene, la strage di Racak, le provette di antrace sventolate all’ONU, le mitiche armi di distruzione di massa irachene, i report dell’intelligence presentati all’ONU come prove e  definiti da Tony Blair “agghiaccianti” copiati pedestremente da tesi di laurea di vent’anni prima senza neanche correggere gli errori di ortografia, e oggi in Libia le cannonate sulla folla da parte del feroce dittatore, e le fosse comuni che sono ormai un evergreen, un classico per giustificare qualsiasi guerra d’aggressione.

Come mai la stragrande maggioranza delle persone ci casca ancora,  come mai nonostante che ormai le menzogne siano palesi e dichiarate pochi si indignano e reagiscono? Vi è certamente la cosiddetta “volontà di non sapere”, ma la ragione principale è che si è messo in soffitta il termine imperialismo per leggere la realtà con le “moderne”, ma sfocate lenti dei “diritti umani” e della “democrazia” concetti talmente generici che si prestano a qualsiasi interpretazione. Se si volessero rivedere gli avvenimenti storici alla luce dei “diritti umani”, l’aggressione imperialista dell’Italia all’Etiopia del 1935/36, ad esempio, potrebbe essere interpretata come una “missione di pace” volta a liberare quel paese da un feroce dittatore nel cui impero, presso alcune tribù, vigeva effettivamente ancora la schiavitù.

Sulla “democrazia”, solo qualche settimana prima dell’aggressione imperialista alla Libia da parte dei criminali della NATO e con l’avallo dell’ONU, interessante la dichiarazione che il ministro degli Esteri Franco Frattini rilascia a Maurizio Caprara pubblicata sul Corriere della Sera del 17 gennaio 2011: “Faccio l’esempio di Gheddafi. Ha realizzato una riforma che si chiama ‘dei Congressi provinciali del popolo’; distretto per distretto si riuniscono assemblee di tribù e potentati locali, discutono e avanzano richieste al governo e al leader: Cercando una via tra un sistema parlamentare, che non è quello che abbiamo in testa noi, e uno in cui lo sfogatoio della base popolare non esisteva, come in Tunisia. Ogni settimana Gheddafi va lì è ascolta. Per me sono segnali positivi”.

La contraddizione è che da una parte non si smentiscono le menzogne delle cannonate sulla folla, delle fosse comuni, degli stupri da parte delle truppe del sanguinario dittatore, ma poi ci si oppone alle missioni militari che quelle carneficine vogliono far cessare. Bisognerebbe partire da qui, ma molti preferiscono tacere per non rischiare di passare per amici di Gheddafi.

 

28 giugno 2011  Cesare Allara