Notiziario Patria Grande - Febbraio 2023

 

 NOTIZIARIO FEBBRAIO 2023

 

 

 

CRONICON / LATINOAMERICA / LA SITUAZIONE IN PERU’

Human Rights Watch: difendere la repressione in nome dei diritti umani

 

RAZONES DE CUBA / ANALISI / NATO IN AMERICA LATINA

La crescente presenza militare della NATO in America Latina e nei Caraibi

(1a parte)

 

GRANMA (CUBA) / ESTERI / CRISI BELLICA

Nord Stream, i palloni e il terrorismo di Stato

 

GRANMA (CUBA) / SIRIA / TERREMOTO

La tragedia in Siria e un altro “no” dagli Stati Uniti

 

 

GRANMA (CUBA) / EDITORIALE / ELEZIONI

Le nostre elezioni

 

GRANMA (CUBA) / SOCIETA’ / CONGRESSO DEI MOVIMENTI DI SINISTRA

Dobbiamo fare politica della cultura e del diritto, e difendere ciò che è giusto

 

GRANMA (CUBA) / SOCIETA’ / IL RUOLO DELLA DONNA

Rinforzare il ruolo della donna a Cuba è una priorità

 

SIN PERMISO / ANALISI / GUERRA IN UCRAINA

Dopo aver dato inizio ad una guerra, la peggior cosa è far si che continui

 

ALAI INFO / ANALISI / IL MARXISMO CUBANO

Fidel e il marxismo della Rivoluzione cubana: ribellione contro i dogmi

 

 

CRONICON / LATINOAMERICA / LA SITUAZIONE IN PERU’

Human Rights Watch: difendere la repressione in nome dei diritti umani

 

 

 

Il silenzio mediatico sulla repressione poliziesca e militare in Perù che ha già causato, in due mesi di crisi politica, più di 65 morti, è scandaloso. Se passiamo in rassegna i titoli della “stampa aziendale” (El País, Le Monde, CNN, Miami Herald, El Comercio, El Mundo, ecc.) difficilmente leggeremo parole come “repressione”, “regime” o “diritti umani (1) (2). Tutto si riduce a “disturbi e alterchi” dopo il “fallito auto-golpe di stato” dell'ex presidente Pedro Castillo (3).

Questa versione unificata degli eventi non è solo legittimata dai grandi media, ma anche da presunte "organizzazioni per i diritti umani" come Human Rights Watch. Questa organizzazione si è schierata a favore della presidentessa golpista Dina Boluarte (4), definendo come "un peccato che i governi di Argentina, Bolivia, Colombia e Messico" abbiano sostenuto l'ex presidente Pedro Castillo (5). Solo quando il numero dei morti è diventato scandaloso, allora Human Rights Watch ha invitato “la Giustizia del Perù a indagare 'immediatamente' le morti durante le proteste”. (6) Naturalmente, senza neppure condannarle.

Ma mentre in Perù la repressione raggiungeva il suo apice, di cosa si preoccupava Human Rights Watch? Di Cuba e Venezuela. Nell'isola condannava una presunta "repressione del governo, nonché la sua evidente mancanza di disponibilità ad affrontare le cause di fondo che hanno portato le persone in piazza" nel luglio 2021 e che "hanno costretto (...) migliaia di cubani ad abbandonare il paese” (7).

Incredibile, perché parla delle "cause di fondo" delle proteste e dell'emigrazione a Cuba, senza citare il soffocamento economico USA, la persecuzione di ogni commercio dell'Isola, le ultime 243 sanzioni, molte delle quali in piena pandemia (8), senza menzionare una sola volta la parola “blocco”, neppure nel termine eufemistico di “embargo”. Neanche il bombardamento nelle reti sociali da piattaforme USA e il lavoro dell'Internet Task Force per Cuba del Dipartimento di Stato su una popolazione stremata dalle sanzioni e dalla pandemia (9) è una ‘causa di fondo’. No, Human Rights Watch preferisce ripetere il copione scritto dai suoi padrini politici a Washington.

A Cuba, le proteste del luglio 2021 sono durate appena 48 ore. Se ci sono stati eccessi della polizia, non sono stati nulla in confronto alla brutalità osservata in Perù. A Cuba sono stati processati e condannati coloro che hanno partecipato ad atti di violenza -alcuni anche estrema- contro agenti e beni pubblici (10). Ma per Human Rights Watch – e per il copione mediatico – quegli angioletti sono “prigionieri politici” (11). Espressione che non leggeremo riguardo le persone detenute nelle manifestazioni in Perù. Non la vedremo neppure applicata a un presidente eletto dalle urne, come Pedro Castillo.

Il blackout mediatico sul Perù continua, interrotto solo per avvertirci del costo economico delle proteste. Il quotidiano spagnolo El País pubblicava che l'agenzia internazionale di rating “Fitch avverte che le proteste in Perù deteriorano le finanze delle imprese” (12). In modo che ci sia ben chiaro di cosa si tratta.

José Manzaneda, Cubainformación

 

Articolo originale: La hipocresía de Human Rights Watch, organización financiada por especulador Soros: defender la represión en nombre de los derechos humanos

https://cronicon.net/wp/la-hipocresia-de-human-rights-watch-organizacion-financiada-por-especulador-soros-defender-la-represion-en-nombre-de-los-derechos-humanos/

 

https://www.elmundo.es/internacional/2023/01/20/63c9cd3ae4d4d848558b459a.html

https://pagina3.pe/actualidad/muertes-por-protestas-en-peru-se-eleva-a-58-y-crisis-se-agudiza-ante-la-violencia-desatada-por-manifestantes-y-la-pnp/

https://www.antena3.com/programas/espejo-publico/noticias/disturbios-altercados-peru-fallido-autogolpe-estado-pedro-castillo_202212096392fd0dad8bc10001feaa09.html

https://www.clarin.com/mundo/human-rights-watch-cuestiono-argentina-victimice-pedro-castillo-golpe-peru_0_elbgW7ewfU.html

https://www.europapress.es/internacional/noticia-hrw-llama-justicia-peru-investigar-manera-inmediata-muertes-protestas-20221222071636.html

https://www.hrw.org/es/news/2022/12/08/pronunciamiento-de-human-rights-watch-sobre-el-golpe-de-estado-en-el-peru

https://www.infobae.com/america/america-latina/2023/01/23/human-rights-watch-pidio-a-los-lideres-de-la-celac-que-cuestionen-a-cuba-y-venezuela-por-las-graves-violaciones-a-los-derechos-humanos/

https://misiones.cubaminrex.cu/es/articulo/conozca-las-243-sanciones-de-trump-contra-cuba-adicionales-al-asfixiante-bloqueo

https://www.cubahora.cu/politica/la-fuerza-de-tarea-para-la-internet-en-cuba-un-nuevo-modelo-de-subversion

https://www.youtube.com/watch?v=9-x9789vyec

https://dialogo-americas.com/es/articles/los-presos-politicos-de-cuba-nicaragua-y-venezuela/#.Y_yOyx_MLcs

https://elpais.com/economia/2023-02-22/fitch-advierte-de-que-las-protestas-en-peru-deterioran-las-finanzas-de-las-empresas.html

 


 

RAZONES DE CUBA / ANALISI / NATO IN AMERICA LATINA

La crescente presenza militare della NATO in America Latina e nei Caraibi

(1a parte)

 

di Sergio Rodríguez Gelfenstein, Razones de Cuba, 23 febbraio 2023

 

 

Di questi tempi è diventato usuale parlare dell'espansione della NATO "verso l'Europa dell’Est", il che è un dato di fatto, ma il concetto è riduttivo. La realtà è che dalla fine del mondo bipolare gli Stati Uniti, sentendosi i padroni del mondo, hanno usato la NATO per espandersi in tutto il pianeta. Ne sono prova la firma del Trattato AUKUS (Australia, Regno Uniti e Stati Uniti), la creazione del Dialogo di Sicurezza Quadrilaterale (QUAD) formato da Australia, India, Giappone e Stati Uniti e l'Alleanza di Intelligence dei Cinque Occhi (Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Nuova Zelanda e Australia), come strumenti di espansione militare della NATO in Asia e Oceania. 

Altrettanto succede in America Latina e Caraibi, in cui gli Stati Uniti stanno avviando un aggressivo piano di espansione lungo tutte le latitudini e longitudini del continente. Vogliamo apportare alcuni dati che permettono di confermare tale affermazione, con questa prima di 3 parti.

Alla fine dell'anno scorso gli Stati Uniti contavano sulla presenza di 12 basi militari a Panama, 12 a Portorico, 9 in Colombia, 8 in Perù, 3 in Honduras, 2 in Paraguay, ma vi sono installazioni di questo tipo in Aruba, Costa Rica, El Salvador, Cuba (Guantanamo) e Perù, tra gli altri paesi, mentre parallelamente si persegue l’ulteriore individuazione di siti utili a coprire in toto la superficie terrestre e marittima del continente. 

Nelle acque territoriali argentine e nelle isole Malvine, usurpate dal Regno Unito, la presenza della NATO è integrata in un sistema di basi ubicate nelle isole di Ascensión, Sant’Elena e Tristán da Acuña,che "protegge" tutto l'Atlantico dal nord fino alla zona antartica. 

Secondo un rapporto del Dipartimento di Difesa degli Stati Uniti citato dal sito venezuelano Misión Verdad,dal maggio del 2022 il Regno Unito sta predisponendo un "triangolo strategico di controllo" dell'estremità meridionale del Sudamerica. Mentre a sud delle Malvine operano sottomarini nucleari. Oltre al fatto che "Francia e Stati Uniti organizzano regolarmente manovre militari congiunte nella regione". 

Negli ultimi anni, e soprattutto dopo l'arrivo nell’ottobre del 2021 della generalessa Laura Richardson alla direzione del Comando Sud delle forze armate degli Stati Uniti, i livelli di aggressività e d’intromissione di Washington nella regione sono aumentati in modo ostentato. Ciò ha coinciso con l'avvento al potere di Joe Biden, che ha implementato un'attiva politica di sostituzione del tradizionale (e naturale) protagonismo del Dipartimento di Stato nell'attività diplomatica, man mano soppiantato dal Pentagono, dal Consiglio di Sicurezza Nazionale e perfino dalla CIA. Aumenta ogni volta il numero dei funzionari provenienti dalle suddette istituzioni che vanno ad occupare i posti di ambasciatori in America Latina e Caraibi. 

La strategia degli Stati Uniti è orientata a rafforzare la propria presenza nel continente. In prospettiva, hanno acquisito particolare importanza l'Atlantico Meridionale per la sua vicinanza all'Antartide, regolamentata da un trattato che scadrà nel 2041, l’Amazzonia, principale riserva d’ossigeno e biodiversità del pianeta, e la triplice frontiera dove si trova la falda acquiferaGuaranì, maggiore riserva d’acqua del mondo. 

È questo il senso dei propositi degli Stati Uniti di riattivare la guerra fredda nella regione, questa volta contro Cina e Russia. Questa logica spiega la decisione di sollecitare sei paesi latinoamericani a donare il loro arsenale militare russo all’Ucraina, escludendo - ovviamente - da tale richiesta Cuba, Nicaragua e Venezuela. Richardson ha avvertito che dopo la Cina, la Russia è l'avversario numero due degli Stati Uniti nella regione, rimarcando il grande valore strategico dell’America Latina per il suo paese. 

La generalessa statunitense ha definito la Cina un "attore statale maligno" dopo che 21 dei 31 Paesi del continente hanno aderito all'iniziativa cinese della Nuova Via della Seta, mentre parallelamente si sono incrementati gli investimenti di Pechino in infrastrutture critiche come porti di acque profonde, la ricerca spaziale, le telecomunicazioni, con le reti 5G e l'impresa Huawei. 

Richardson ha risaltato il ruolo "protettivo" che eserciteranno gli Stati Uniti sulla regione, perché essere buoni vicini comporta "prendersi cura l’uno dell'altro”, il che "obbliga" Washington a farsi carico della lotta contro le reti di delinquenza organizzata dedite alla tratta delle persone, al contrabbando di droga, al disboscamento non regolamentato e al settore minerario illegale, specialmente "perché si tratta di una regione ricca di risorse e terre rare, con il cosiddetto “Triangolo del Litio” che possiede il 60 % delle riserve mondiali (in Argentina, Bolivia e Cile), un metallo assai necessario alla tecnologia". 

Parimenti, Richardson ha affermato che agli Stati Uniti interessano il petrolio (viste le grandi riserve trovate in Guyana e le maggiori al mondo esistenti in Venezuela), così come anche il rame e l'oro della regione. È preoccupazione degli Stati Uniti che l'ossigeno ed il 31 % dell’acqua dolce della Terra si trovino in Amazzonia. Per tutto questo - secondo lei - si deve mantenere lontana la Cina, che viceversa è diventata il principale socio commerciale di vari Paesi dell’area. 

Questa logica s’inserisce nella Strategia di "dissuasione integrata" degli Stati Uniti, una rinnovata modalità della Dottrina di Sicurezza Nazionale che si propone di raggruppare sotto la conduzione del Pentagono "tutte le capacità tanto civili quanto militari di governi, imprese, società civile e mondo accademico degli Stati Uniti e di tutti i loro alleati". 

Nella XV Conferenza dei ministri della difesa delle Americhe svoltasi in Brasile a luglio del 2022, il segretario della Difesa, Lloyd Austin, presentò questa strategia ai suoi omologhi regionali. Due mesi dopo, a settembre, Richardson la ribadì ai 14 capi militari nella Conferenza della Difesa del Sudamerica.

L'interesse degli Stati Uniti ha una prospettiva regionale basata sulla necessità di controllo da quando, 200 anni fa, fu enunciata la Dottrina Monroe. In una prospettiva globale, le forze armate latinoamericane costituiscono un potenziale di combattimento da non sottovalutare. Nel 2018 il Brasile disponeva di 334.000 militari attivi, la Colombia 200.000 e l’Argentina 51.000. La NATO può contare su 3.5 milioni di attivi fra personale militare e civile. Secondo il centro studi CELAG, Brasile e Colombia da soli fornirebbero alla NATO più attivi che i membri europei annessi negli anni ‘90. In questo senso vale la pena fare il confronto, ad esempio, fra gli attivi dell’Argentina simili a quelli di Bulgaria (24.800) e Repubblica Ceca (25.000) messi insieme. 

Per capire meglio tutta questa situazione e conoscere l'intensa attività imperiale per controllare lo spazio latinoamericano e caraibico, è utile ripercorrere le modalità in cui si è concretizzato l'intervento degli Stati Uniti e della NATO in alcuni Paesi della regione.

 

Paraguay 

Il Piano Maestro per la Navigabilità del fiume il Paraguay è un'iniziativa del governo di quel Paese per "massimizzare l'utilizzo di quella via navigabile", ma è stato l'ambasciatore statunitense Marc Ostfield a darne l'annuncio. L'opera viene finanziata da capitali statunitensi e sarà portata avanti grazie ai servizi del Corpo di Ingegneri dell'Esercito nordamericano, il che ha generato grande preoccupazione in Argentina, considerando che una tale decisione comporta il controllo del territorio da parte di forze straniere. E’ superfluo ricordare la rilevanza della zona che fa parte del Bacino del Rio de la Plata, la quinta riserva d’acqua dolce più importante al mondo per estensione. 

Analogamente Washington non desiste dalle sue inveterate intenzioni d’installare una base militare alla Triplice Frontiera (Argentina-Paraguay-Brasile), con la scusa della lotta al terrorismo internazionale e al narcotraffico. In quest’ambito i tentativi di militarizzare la regione e cambiare le "regole del gioco", affinché gli Stati Uniti possano stabilire territori sotto il loro controllo permanente, sono considerati in Argentina estremamente pericolosi. Anche alcuni leader politici locali hanno espresso la preoccupazione che i loro territori siano sottoposti ad una logica di conflitto tra Stati Uniti e Cina. 

Benché il governo paraguaiano abbia affermato che il progetto comporta una “cooperazione con specialisti degli Stati Uniti" comprendente lo studio dei fiumi, ma che non contempla una cooperazione di carattere militare, la totale subordinazione di Asuncion agli Stati Uniti pone forti dubbi su tale dichiarazione. In termini geopolitici vale anche il fatto che il Paraguay è l'unico paese del Sudamerica che non ha relazioni con la Cina. 

 

Argentina 

Dalla prospettiva argentina, la decisione di Asuncion di attirare le forze armate USA per procedere nella navigabilità del fiume Paraguay ha a che fare oggi col crescente commercio di alimenti, divenuto strategico nell’ambito della guerra in Ucraina. 

Lo scopo della via fluviale è permettere la navigazione a navi di grande pescaggio con grandi volumi di carico per 365 giorni all'anno, rettificando il tragitto ed eliminando isole ed altri ostacoli. La presenza di specialisti dell'Esercito degli Stati Uniti dà al progetto un carattere molto diverso rispetto a ciò che venne inizialmente presentato come un'opera civile. 

D'altra parte gli Stati Uniti hanno mostrato preoccupazione, perché lo Stato argentino si propone di affidare un nuovo appalto per il dragaggio del fiume Paraná (che riceve acque dal Paraguay) ed alcune delle imprese che tenteranno di aggiudicarselo sono di origine cinese. 

Per gli Stati Uniti la Triplice Frontiera fra Argentina, Brasile e Paraguay è di cruciale importanza. Il Comando Sud afferma di aver identificato fonti di finanziamento da parte di "organizzazioni terroristiche" con base in Asia Occidentale, menzionando Hezbollah libanese e Hamas palestinese. Per far fronte a questa presunta minaccia ha creato un meccanismo multilaterale denominato 3+1: i tre paesi sudamericani + gli Stati Uniti. 

Washington ha pure manifestato un estremo interesse per la Patagonia argentina. In quest’ambito, l’8 agosto scorso l'ambasciatore statunitense assistette nella città di Neuquén (situata a circa 1140 Km. a sud-ovest di Buenos Aires) ad una riunione con rappresentanti delle compagnie petrolifere più grandi e potenti al mondo. 

Quattro anni fa, nel 2018, venne annunciata la costruzione di svariate installazioni in una proprietà fiscale posta sotto direzione e finanziamento del Comando Sud degli Stati Uniti. Nonostante l’ambasciata in Argentina si fosse affrettata a precisare che le opere facevano parte di un progetto di "aiuto umanitario", il cui obiettivo era migliorare la capacità di risposta di Neuquén nel fronteggiare disastri naturali, la società civile locale respinse l’idea, ogni qualvolta che fu caratterizzata dal segreto, dalla mancanza d’informazione, dall'assenza di comunicazione su ciò che avrebbe ottenuto l'Argentina in cambio della cessione del suddetto territorio, ubicato in una zona considerata di alto valore strategico. 

Il progetto connotato come "base militare camuffata" secondo un rapporto del giornalista Ariel Noyola Rodríguez pubblicato sul sito RT, fa parte di una strategia di portata continentale, che ha le caratteristiche di un'innovativa modalità d’intervento militare nella regione: il programma di “Assistenza Umanitaria e Risposte ai Disastri Naturali” promosso dal Comando Sud degli Stati Uniti. 

D'altro canto quest’analisi non può ignorare che parte del territorio argentino è occupato con la forza dalla NATO. Nelle Malvine sono dislocati tra i 1500 e i 2000 militari britannici, alcuni permanenti, così come aerei cacciabombardieri di ultima generazione. 

 

Fonte:

http://razonesdecuba.cu/la-creciente-presencia-militar-de-la-otan-en-america-latina-y-el-caribe-i/

 

Traduzione di Adelina B., CIVG Patria Grande

 


 

 

GRANMA (CUBA) / ESTERI / CRISI BELLICA

Nord Stream, i palloni e il terrorismo di Stato

Come si può fabbricare una terza guerra mondiale?

 

Lo show mediatico dei presunti «palloni spia Cinesi» ha come obiettivo distrarre l’attenzione mondiale dal sabotaggio realizzato contro il gasdotto russo Nord Stream, sul quale sono emerse chiare evidenze circa la responsabilità degli Stati Uniti.

L’affermazione è dell’ex impiegato della CIA Edward Snowden, confortata dagli elementi apportati dal giornalista statunitense Seymour Hersh, vincitore del premio Pulitzer per il suo lavoro sulla guerra del Vietnam. La convinzione ormai abbastanza diffusa è che si sia trattato di terrorismo di Stato.

Logicamente, il governo degli Stati Uniti nega le sue responsabilità, mentre l’Europa, la più danneggiata per il suo asservimento a Washington e dalle sue stesse sanzioni contro la Russia, guarda con incertezza agli elementi che emergono e preferisce tacere e continuare ad accompagnare il governo statunitense nella sua guerra economica e mediatica contro Mosca.

A proposito dei palloni apparsi nel cielo statunitense e abbattuti da aerei da guerra e dell’ossessione di Washington di accusare la Cina, Snowden ha scritto sul suo account Twitter: «Vorrei che fossero extra terrestri, ma non sono extraterrestri, è solo panico indotto artificialmente, una molesta attrazione che catalizza l’attenzione assicurando che i reporter della sicurezza nazionale siano assegnati alle indagini sulla scemenza dei palloni e non al bombardamento del gasdotto Nord Stream».

Il giornalista Seymour Hersh ha recentemente scritto sull’ipotesi che i gasdotti Nord Stream siano stati fatti saltare: «Molti di noi hanno seguito da vicino l’azione di sabotaggio.

Molte capitali europee hanno detto: È stata la Russia, ma questo non ha alcun senso», ha sottolineato, e ha aggiunto: «C’era solo qualche indizio, come l’annuncio del presidente Joe Biden, nel mese di gennaio. Per me, una cosa era chiara dal 2018, cioè che gli Stati Uniti erano determinati ad assicurarsi che questo sistema di gasdotto non divenisse mai operativo».

Hersh aveva anche segnalato in un articolo che «nessun grande giornale statunitense ha indagato sulle precedenti minacce ai gasdotti da parte di Biden e della vice segretaria di Stato, Nuland. Come si può supporre, se i funzionari statunitensi sono davvero i responsabili d’aver ordinato l’attacco e i media di comunicazione lo nascondono a proposito, è legittimo supporre che siano complici di questo crimine?», ha scritto.

Il sito web Sputnik raccoglie la rivelazione del giornalista statunitense nella quale dice che gli USA, preparando il piano delle esplosioni dei gasdotti Nord Stream, avevano deciso che «è meglio che la Germania si congeli in inverno» (per la mancanza del gas russo) «piuttosto che smetta d’appoggiare l’Ucraina».

Poi segnala che «originalmente Biden pianificava di far saltare i gasdotti nel giugno scorso, ma all’ultimo minuto aveva cambiato opinione ed aveva emesso nuovi ordini assicurandosi la capacità di far scoppiare le bombe in qualsiasi momento».

Così, nel settembre 2022, otto bombe dovevano scoppiare di fronte all’isola di Bornholm, nel mar Baltico, ma ne scoppiarono solo sei.

Seymour Hersh ha rivelato inoltre in un articolo pubblicato nel suo blog, che «sono stati sub della Marina a collocare gli esplosivi sotto i gasdotti Nord Stream nel giugno del 2022», e conclude: «una fonte vicina alla questione sostiene che l’operazione sia stata realizzata  con la copertura delle esercitazioni Baltops 22 della NATO. Tre mesi dopo i dispositivi sono poi stati attivati».

Il terrorismo di Stato realizzato contro il gasdotto russo e la notizia fabbricata dei «palloni spia» cinesi non possono rimanere arginati nei notiziari controllati dal Paese che ha interessi a gestirli – gli Stati Uniti– ma dev’essere un richiamo a porre fine alle provocazioni che possono accendere maggiori tensioni tra potenze nucleari, e rendere realtà quel che ha detto Papa Francisco: «Stiamo già vivendo la terza guerra mondiale».

Elson Concepción Pérez e GM per Granma Internacional, 20 febbraio 2023

 


 

GRANMA (CUBA) / SIRIA / TERREMOTO

La tragedia in Siria e un altro “no” dagli Stati Uniti

 

 

“Sarebbe ironico e controproducente aiutare la Siria, dato che il suo Governo ha brutalizzato la sua popolazione”, ha detto Ned Price, portavoce del Dipartimento di Stato del Governo di Joe Biden come giustificazione per non offrire assistenza umanitaria alla nazione araba dopo il terremoto che ha colpito parte dei territori della Turchia e della Siria e che ha provocato la morte di più di 11000 persone.
I governi statunitensi agiscono così. Gli stessi che sostengono e incrementano una politica di sanzioni contro questo paese arabo, dove le forze armate del Pentagono oltre a mantenere occupata militarmente una parte del suo territorio, si appropriano illegalmente del petrolio e, nello stesso tempo, offrono appoggio ai gruppi terroristi che attaccano questa nazione da più di un decennio.
Il No statunitense è giunto quando già il totale dei deceduti per il terremoto in Siria superava la cifra di mille, specialmente nei governatorati di Aleppo, Latakia, Hama e Tartús, secondo quanto riferito  dall’agenzia Sana.
La cinica posizione, basata sulla fredda crudeltà di un sistema basato sullo scarto umano,  non sorprende.
I cubani, vicini degli Stati Uniti, hanno ben chiaro nella memoria che gli Usa ci hanno impedito l'acquisto di ossigeno medicinale durante il picco della COVID-19 pur sapendo  che  il principale impianto produttore dell’Isola fosse in avaria.
Il rifornimento di tale ossigeno fu quindi  insufficiente e i pazienti che lo necessitavano morirono.
Molto contraria alla posizione del Governo statunitense fu quella della Russia,oggi demonizzata internazionalmente, con la Casa Bianca fermamente  alla guida della campagna, la stessa Russia che in decine di voli transoceanici ha inviato immediatamente
carichi di ossigeno e altri strumenti medici  quando si è conosciuta la notizia del terribile terremoto.
Il suo presidente, Vladímir Putin, ha parlato telefonicamente con i presidenti dei due paesi comunicando la decisione di Mosca d’offrire aiuti d’emergenza, salvataggio e di compiti di soccorso  che servivano  nell'urgenza.
Dall’America Latina, sono stati inviati gruppi di soccorso da El Salvador, di salvataggio e altri aiuti della Segreteria di Difesa e della Croce Rossa del Messico, e inoltre aiuti umanitari dall’Argentina, tra i molti apporti solidali.
La Repubblica Islamica dell’Iran, vittima delle sanzioni statunitensi e dell’ Unione Europea, ha installato tende e ha distribuito alimenti, vestiti pesanti, stufe e altro ai danneggiati del violento terremoto di lunedì nella città di Aleppo, nel nord della Siria.
Va ricordato che nel 2019 il presidente degli USA, Donald Trump, aveva firmato la Legge del Cesare, che assegna all’amministrazione statunitense il
diritto d’imporre misure restrittive contro organizzazioni e persone che offrono aiuti alla Siria.
La restrizione include la consegna di medicinali, aiuti umanitari, gruppi di soccorso e di ricerca e persino lo scarico di materiali dagli aerei in territorio siriano.
Questa legge irrazionale firmata da Trump, ora, nel mezzo del devastante terremoto, è vigente e viene applicata con totale severità dall’amministrazione democratica di Joe Biden.

Elson Concepción Pérez e GM per Granma Internacional, 10 febbraio 2023

 


 

 

GRANMA (CUBA) / EDITORIALE / ELEZIONI

Le nostre elezioni

 

«A Cuba non c’è democrazia», ripetono fino allo sfinimento coloro che avversano il sistema politico cubano: «Come potrebbe esserci con un solo partito?».

A questa domanda si potrebbe rispondere con un’altra: chi assicura che il multipartitismo garantisca la democrazia?

Democrazia significa, con tutte le accezioni, governo del popolo. E possiamo aggiungere: per il popolo e con il popolo. Il multipartitismo è, con tutto il rispetto per la maggioranza delle società  contemporanee che lo considerano garanzia di democrazia, una frammentazione delle forze politiche della nazione, con un fine supremo: disputarsi il potere. Così, il senso di servizio alle  maggioranze resta in secondo piano e la democrazia si trasforma in una lotta tra candidati. Cuba non si misura con questo criterio perché il suo sistema elettorale è concepito per superare i limiti dei modelli tradizionali e favorire l’accesso del popolo al potere.

Ma non è lo scopo di questo editoriale discutere la legittimità dei processi elettorali di altre nazioni, né esaltare i nostri meriti e denigrare gli altri, perché cadremmo nello stesso errore dei tanti che, senza conoscere il sistema elettorale cubano, lo squalificano perché non ricalca quello che loro difendono. Va detta una verità: quando Cuba ha conosciuto e praticato il multipartitismo, il popolo ha sempre perso nella battaglia fra di essi. Cuba crede nella forza dell’unità di milioni di cittadini attorno a un solo Partito che riconosca le loro necessità.

Con l’approvazione delle candidature locali per le elezioni politiche, sta iniziando uno dei più importanti processi del sistema politico che Cuba ha dato a sé stessa per garantire l’esercizio della piena democrazia da parte della partecipazione cittadina. Senza questa, la democrazia sarebbe vuota di contenuti. Sarebbe una finzione.

Il 1º dicembre 2022, il Consiglio di Stato ha convocato le elezioni nazionali per eleggere, per la durata di cinque anni, i deputati che rappresenteranno i cittadini nell’Assemblea Nazionale del Potere Popolare. Questo  processo, di ampia trasparenza, avrà un momento importante domenica  26 marzo, quando cubane e cubani andranno alle urne per esercitare il diritto al voto libero, uguale, diretto e segreto. Sarà eletto l’organo supremo del potere dello Stato e, nello stesso  tempo, i cittadini riaffermeranno il loro protagonismo nella politica del Paese. La democrazia che a Cuba non c’è, è quella che pratica la società del capitale, quella dell’impero del denaro e dell’ingerenza che si vorrebbe imporre a tutti i paesi senza considerare la loro storia, le tradizioni e l’organizzazione sociale e politica.

Nei  modelli che si pretendono democratici in sé, vince generalmente chi investe «con migliore efficienza» il denaro ottenuto in campagne elettorali disuguali, chi compra più spazio nel concerto mediatico, chi getta più fango sui rivali, chi fa più promesse. La democrazia cubana, genuina, autentica – non importata – ha un cognome socialista. La sua essenza affonda le radici nella partecipazione cittadina, nel diritto di tutti alla costruzione economica, politica e sociale della nazione. Anche se le amministrazioni statunitensi e i loro servitori nelle reti sociali pretendono di presentare al mondo una Cuba rigida, autoritaria e fallita, la forza della verità sarà sempre superiore alle ridicole campagne di discredito. La festa elettorale che sta cominciando è parte inscindibile di questa verità di cui, forse, non abbiamo saputo raccontare tutti i meriti. È perfettibile, non perfetta.  Anche in questo aspetto ci assomiglia molto di più di tutti i modelli che ci vogliono vendere.

Redazione Granma e GM per Granma Internacional, 5 febbraio 2023

 


 

 

GRANMA (CUBA) / SOCIETA’ / CONGRESSO DEI MOVIMENTI DI SINISTRA

Dobbiamo fare politica della cultura e del diritto, e difendere ciò che è giusto

 

 

«Il mondo ha un’urgenza», ha affermato il Presidente della Repubblica Miguel Díaz-Canel nell’emblematica Casa de las Américas intervenendo nel Primo Incontro Internazionale delle Pubblicazioni Teoriche dei Partiti e dei Movimenti di Sinistra.

All’evento hanno partecipato circa 100 delegati provenienti da più di 60 Paesi.

«Negli ultimi mesi, a Cuba abbiamo organizzato tre eventi di riflessione che hanno visto un’ampia partecipazione di amiche e amici, di sorelle e fratelli provenienti da differenti parti del mondo, in particolare dall’America Latina e dai Caraibi», ha detto il Presidente, e ha proseguito: «i temi, così come le valutazioni e i punti di vista, sono comuni, e questa realtà ha confermato la necessità di andare oltre la pandemia per renderci conto dell’importanza di una nostra unione che articoli il nostro dibattito sui problemi fondamentali che colpiscono il mondo, soprattutto i problemi fondamentali che danneggiano i popoli e la classe operaia in tutto il mondo, e su come affrontare tutto quello che l’imperialismo cerca d’imporci».

Il presidente ha ribadito ai partecipanti che «si riafferma la convinzione sulla necessità di questi incontri per costruire consenso, ma soprattutto per costruire un’azione condivisa. Dobbiamo proporre che in ogni incontro che faremo si realizzino nella sinistra piani d’azione. Questa istituzione è la casa di tutti, è la Casa de las Américas, che ha tanta storia anche in relazione al pensiero dell’America Latina e dei Caraibi».

 

Le essenze di una lotta

Díaz-Canel, commentando le contraddizioni del mondo pieno di incertezze nel quale viviamo, ha detto che «dobbiamo cambiare questo mondo, e allora dobbiamo chiederci come lo cambieremo. Abbiamo capito il mondo in cui viviamo, conosciamo le sue logiche, conosciamo le cause che provocano le contraddizioni, condividiamo idee comuni, principi e valori su come deve essere il mondo, il mondo che Fidel ci ha sempre insegnato che può essere migliore, che è possibile».

Il presidente ha ricordato che il covid ha accresciuto le contraddizioni di un paradigma neoliberale fallito: «Con la pandemia i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri più poveri. Sono morti molti più poveri che ricchi e stanno ancora morendo i poveri. Le multinazionali non volevano che le vaccinazioni giungessero  a tutti, né che terminasse la malattia».

Nel mezzo di tali contraddizioni – ha detto Díaz Canel – si sperava che il mondo fosse più solidale, più collaborativo, più cooperativo; ma è stato tutto il contrario: nel mondo ha fatto più strada il linguaggio della guerra, il linguaggio nel quale i potenti continuano a imporre sanzioni, nel quale si cerca d’imporre un’egemonia brutale e, ogni volta, diminuisce lo spazio per chi non si piega ai disegni dell’impero.

A proposito del ritorno delle idee fasciste, il mandatario ha valutato che questo fenomeno «è un’espressione di deterioramento e dobbiamo porre molta attenzione anche alle trappole di natura comunicativa che ci stanno tendendo».  Ha parlato di teorie disegnate per confondere, che prospettano un capitalismo più soft: «Tutto questo – ha denunciato – è una menzogna, una trappola e un fenomeno nuovo che dobbiamo guardare da sinistra».

A proposito della comunicazione, Diaz-Canel ha spiegato che «c’è una piattaforma mediatica brutale fatta dai centri di potere che ha risorse infinite, accompagnata da un’industria d’intrattenimento che favorisce la banalità e la volgarità, un’industria aggressiva, perversa, fatta per confondere».

Nel misurarci contro questa logica imperialista, Díaz-Canel ha acceso un’allerta: «Dobbiamo essere capaci di trovare le risposte da sinistra; nel nostro caso, dalla logica e dalla costruzione del socialismo per contrastare e vincere questa logica. Dipenderà dal modo in cui riusciremo a costruire un pensiero contro la colonizzazione culturale, una sfida che richiede tutto il nostro impegno, tutta la nostra intelligenza e il talento dei nostri popoli. Questi incontri devono proiettarci in una dimensione di sforzi comuni per realizzare un programma di contrasto alla colonizzazione culturale».

 

Resistenza e organizzazione sono le strade fondamentali

Nel Primo Incontro Internazionale delle Pubblicazioni Teoriche di Partiti e Movimenti di Sinistra, Díaz-Canel Bermúdez si è riferito all’inasprimento del blocco contro Cuba, un assedio che, letteralmente, ha negato all’isola l’ossigeno nei momenti critici del covid e l’ha ricollocata nella lista dei paesi che favoriscono il terrorismo.

«Resistiamo anche a questo, nonostante abbiamo dato dimostrazione di non meritare quest’inganno in occasione della mediazione che abbiamo offerto al Governo della Repubblica della Colombia».

Il presidente ha parlato degli sforzi di Cuba per andare avanti spiegando che si tratta di «una logica di perfezionamento della costruzione socialista fondata sul lavoro, sulle persone, sull’esempio, che vuole realizzare nel più breve tempo possibile tutta la giustizia sociale possibile, anche se già abbiamo ottenuto alti livelli di giustizia sociale».

Ha quindi affermato che «è necessario fare politica partendo dalla cultura e dal diritto, difendendo quello che è giusto; dalla verità potenziando la democrazia socialista; dall’ampliamento della partecipazione popolare; e senza farci imporre la democrazia che vendono al mondo, che viene confusa con il multipartitismo».

La solidarietà è un’arma cardinale, ha affermato Díaz-Canel, e implica la possibilità d’aiutare, ma è anche un cammino di apprendimento. Sulle idee di progresso che stanno avanzando internazionalmente ha detto che «ci sono molti giovani in altri luoghi del mondo che abbracciano il Marxismo, il socialismo e le cause della classe lavoratrice», e ai presenti ha ricordato: «Dobbiamo essere capaci di approfittare del momento storico dell’America Latina e dei Caraibi, con un gruppo di movimenti e di governi di sinistra giunti al potere con piani importanti di emancipazione dei loro popoli, e con i quali in questi momenti possiamo costruire progetti concreti ed efficaci d’integrazione  latinoamericana e caraibica».

In modo molto estemporaneo ha chiesto ai presenti: «Perché non facciamo una biblioteca digitale dei lavori teorici migliori della sinistra? Lo dico a proposito delle esperienze delle quali si è già parlato, che hanno a che vedere con editoriali, reti virtuali e spazi diversi per amplificare le idee.

Dobbiamo  lavorare con persone di ogni età e anche con i giovani. Manca la possibilità di mettere a fuoco di tutto quello che si fa; i contenuti devono essere  emancipatori, fatti per i popoli, per i lavoratori, per gli sfruttati. Credo che il modo in cui voi avete partecipato a questo dibattito sia conseguenza del dibattito che avete svolto nelle vostre vite, e possiamo dire che Fidel e Chavez sono qui presenti, con noi».

Díaz-Canel ha ringraziato tutti per la comprensione e la sensibilità con la causa cubana, e per l’appoggio dato nella lotta contro il blocco: «Vi aspettiamo - ha detto - nel prossimo Incontro Internazionale delle Pubblicazioni Teoriche dei Partiti e dei Movimenti di Sinistra, che sarà dedicato al 65º anniversario del trionfo della Rivoluzione Cubana, nel febbraio del 2024».

Alina Perera Robbio e GM per Granma Internacional, 10 febbraio 2023

 


 

GRANMA (CUBA) / SOCIETA’ / IL RUOLO DELLA DONNA

Rinforzare il ruolo della donna a Cuba è una priorità

 

 

Quando la Segreteria Nazionale della Federazione delle Donne Cubane (FMC) ha presentato la sua relazione al suo Comitato durante il Plenum Nazionale dell’organizzazione, le partecipanti hanno saputo che il 2022 è stato un anno di esteso lavoro in differenti ambiti, tra i quali le Case di Orientamento alla Famiglia, l’assistenza alle madri in situazione di vulnerabilità, il lavoro sociale nelle comunità e quello che riguarda il Programma di Superamento.

Alla  presenza dei membri del Burò Politico del Partito Comunista di Cuba, Dr. Roberto Morales Ojeda, segretario dell’Organizzazione del Comitato Centrale del PCC e Teresa Amarelle Boué, segretaria generale del Comitato Nazionale della FMC, è stato precisato che la meta per il 2023 è che la Federazione abbia «una svolta differente», un impegno che parta dalla preparazione dei quadri sulle politiche del territorio.

Amarelle Boué ha segnalato che, dall’organizzazione e dallo spazio comunitario, si dovranno sviluppare con tutti i municipi del Paese le azioni preventive contro la violenza, anche nella Strategia di Rafforzamento. Come prospettiva, ha sottolineato la necessità di realizzare un maggior coinvolgimento di giovani nel lavoro quotidiano della Federazione.

Nella relazione presentata nel Plenum, le rappresentanti della segreteria hanno riconosciuto le insufficienze in funzione delle domande delle famiglie ed hanno considerato che sono stati fatti passi indirizzati a incamminare il lavoro d’attenzione e prevenzione sociale e ella ricerca della corretta implementazione di politiche a favore della non violenza e la non discriminazione.

È stata sottolineata la priorità data all’attenzione all’implementazione del Programma Nazionale per la crescita delle donne, valutata dalla Segreteria del Comitato Nazionale del PCC, tra i vari temi, alla continuazione dello sviluppo dell’Osservatorio Scientifico di Cuba sull’Uguaglianza di Genere.

Mariela Castro Espín ha esortato a rinforzare il lavoro di comunicazione dell’organizzazione perché la popolazione ha bisogno di conoscere il lavoro della FMC: «È importante che noi, dalle nostre organizzazioni, si sia divulgatrici, ed è necessario potenziare una strategia comunicativa rigorosa, un processo per far sì che le federate ricevano le informazioni da differenti vie, oltre alle pubblicazioni nelle reti sociali e dell’Editorial de la Mujer», ha detto.

Al termine del Plenum, Morales Ojeda ha precisato che, «se vogliamo parlare di un ruolo protagonista partendo dal rafforzamento dalla base, dobbiamo sapere quello che le federate considerano debba essere l’organizzazione in questi tempi, come un processo di scambio. La violenza di genere – ha aggiunto – deve essere una costante preoccupazione nell’organizzazione e partendo da questo principio, determinare cosa stiamo facendo dal punto di vista preventivo e cosa potremo fare.

«Nessuno ha mai fatto di più per la donna come la Rivoluzione e la FMC, dove resta l’essenza del lavoro di questi anni», ha precisato.

 

IN CIFRE:

55670 nuove iscrizioni di giovani

315 case laboratorio create, appartenenti alle comunità con vulnerabilità

168 sportelli municipali d’ascolto creati per violenza

703 case laboratorio per l’attenzione e il controllo della violenza di genere

1543 donne vittime hanno ricevuto attenzione

2142 programmi d’addestramento realizzati preparando 52925 persone

165 gruppi multidisciplinari attivi sui procedimenti familiari

 

Susana Antón Rodriguez e GM per Granma Internacional, 11 febbraio 2023

 


 

SIN PERMISO / ANALISI / GUERRA IN UCRAINA

Dopo aver dato inizio ad una guerra, la peggior cosa è far si che continui

 

 

 

La complessa natura della guerra in Ucraina e nello specifico della questione della responsabilità relativa alle diverse parti, ha reso complicata la mobilitazione di un importante movimento contro la guerra. Persino una parte della sinistra si oppone al cessate il fuoco immediato ed alla ripresa dei negoziati, che furono interrotti brutalmente alla fine di marzo del 2022. L’obiettivo di questo articolo è fare luce sulla guerra al fine di aiutare gli oppositori dell’imperialismo ad adottare una posizione illuminata.

Alla luce delle divisioni all’interno della sinistra, credo sia necessario cominciare con qualche informazione su di me. Ho insegnato Politica dell’Unione Sovietica e degli stati che sorsero da essa nel corso degli anni. Come sindacalista e socialista, ho partecipato attivamente nella formazione dei lavoratori in Russia, Ucraina e Bielorussia, a partire dal momento in cui l’attività divenne politicamente possibile. Si tratta di una formazione di ispirazione socialista, intendendo il socialismo come un consistente umanesimo. Mi sono di conseguenza opposto attivamente tanto al regime russo come a quello ucraino, entrambi profondamente ostili alla classe lavoratrice.

La situazione della classe lavoratrice.
La situazione dei lavoratori nella Ucraina indipendente non è stata migliore di quella dei loro omologhi in Russia. Per certi aspetti è persino peggiore. A partire dalla indipendenza, una serie di governi depredatori  ha trasformato l’Ucraina da una regione relativamente prospera nell’ambito dell’Unione Sovietica nello stato più povero dell’Europa. La popolazione dell’Ucraina negli ultimi trenta anni è diminuita da 52 a 44 milioni (persino prima che l’attuale conflitto causasse un ulteriore fenomeno migratorio). E di questi 44 milioni, un gran numero attualmente lavora in Russia.
E’ vero che in Ucraina, a differenza di ciò che accade in Russia, le elezioni possono sostituire il governo. Ma non possono cambiare la natura antioperaia della politica statale. Nel febbraio del 2014 un colpo di stato violento, posto in essere da forze ultranazionaliste (neofasciste) e appoggiato attivamente dal governo USA, rovesciò un presidente eletto, per quanto corrotto, bloccando un accordo, raggiunto il giorno precedente con le opposizioni, sotto gli auspici di Francia, Germania e Polonia, per formare un governo di coalizione e convocare nuove elezioni.
Il colpo di stato e le prime misure del nuovo regime, in particolare una legge che aboliva l’utilizzo della lingua russa, utilizzata quotidianamente da almeno la metà della popolazione, come idioma ufficiale, provocò ostilità e quindi un confronto armato nelle zone orientali del paese, nelle quali predominava la popolazione di parlata russa. Questa opposizione venne soppressa ovunque, a volte con metodi violenti e perdita di vite, come accadde nella città di Odessa nel maggio del 2014, ad eccezione del Donbass. Scoppiò infine una guerra civile, con l’intervento russo a favore degli insorti e della NATO in appoggio a Kiev.
Inizio?
Questo considerevole aspetto della guerra non forma però parte della narrazione utilizzata dalla NATO, dal governo ucraino o dai principali mezzi di comunicazione occidentali, i quali preferiscono parlare di una “invasione russa” già nel 2014. Ma ciò che ha trasformato un movimento di protesta contro il colpo di stato in una rivolta armata fu il rifiuto, da parte del nuovo regime ucraino, persino di parlare con i dissidenti del Donbass. Invece che negoziare, Kiev avviò immediatamente una “operazione antiterrorista” contro la regione, inviando unità neofasciste appartenenti alla Guardia Nazionale appena istituita, dal momento che l’esercito regolare era risultato inaffidabile. (In effetti se la Russia avesse voluto impossessarsi dell’Ucraina, avrebbe potuto farlo facilmente allora: quando l’Ucraina non aveva un esercito degno di essere chiamato tale). La Russia, che fu immediatamente accusata da Kiev di invasione, intervenne direttamente con le sue forze armate solo diversi mesi dopo, per evitare l’imminente sconfitta dei ribelli.

Il modo in cui si analizza o valuta questa guerra dipende dal punto di partenza. Il governo ucraino, i portavoce della NATO, i principali mezzi di comunicazione occidentali, ed anche alcuni che si definiscono socialisti, sono soliti iniziare con la invasione della Russia nel febbraio 2022. L’immagine che si proietta è quella di uno stato grande e ben armato che invade uno stato  innocente molto più piccolo che sta difendendo valorosamente la sua sovranità.
Riguardo ai motivi dell’invasore russo, ai cittadini degli stati membri della NATO venne detto solo che l’invasione non era stata provocata. In una campagna di propaganda senza precedenti nella memoria recente, la definizione “senza provocazione” venne poi utilizzata in ogni successiva comunicazione sull’invasione. Si potrebbe osservare in proposito, l’assenza di tale definizione nelle comunicazioni sulle invasioni di USA e NATO a Vietnam, Iraq, Afghanistan, Serbia, Libia, ecc. Il termine “non provocata” servì così per bloccare sul nascere ogni discussione seria in merito ai motivi dell’invasore, a parte il suo presunto appetito imperialista.
Il solo proporre la questione della provocazione basta per conquistarsi l’accusa di apologia dell’aggressore. Anche una parte della sinistra condivide questa interpretazione, per esempio limitando il suo racconto dell’invasione ad alcuni passaggi selezionati dei discorsi di Putin, come la sua nota osservazione che la dissoluzione della Unione Sovietica sia stata la “più grande catastrofe geopolitica del secolo”. Raramente viene citato anche il seguito della frase: “Chiunque desideri il suo ritorno non ha cervello”.
Quello che non è stato fatto, sopratutto, è una analisi seria delle relazioni tra la Russia e l’Ucraina nei tre decenni anteriori l’invasione, una indagine che potrebbe verificare l’esistenza degli interessi imperialisti attribuiti a Putin. Ma perché sprecare energie quando tutto è già chiaro: un grande paese con armamenti nucleari ne invade uno piccolo che non possiede armamenti nucleari. Siamo sicuri che ciò sia sufficiente per dare appoggio incondizionato al regime ucraino? Perché preoccuparsi di analizzare la natura di questo regime o i motivi della NATO, suo sponsor, per incitare uno scontro e rifornirlo di armi e addestramento?

Un altro argomento che a volte si sente è che la Russia autocratica teme l’esempio e la attrazione che potrebbe essere esercitata dalla democrazia dell’Ucraina nei confronti della popolazione della Russia con cui l’Ucraina condivide una lunga parte di frontiera. In realtà, la triste esperienza dei lavoratori dell’Ucraina con la loro “democrazia” è uno degli argomenti più forti di Putin contro i suoi oppositori liberali e socialisti.
Di fatto, Putin dichiarò i suoi obiettivi quando diede inizio all’invasione: il “ritorno alla neutralità geopolitica” dell’Ucraina, la sua “smilitarizzazione” e la sua “denazificazione”. Mentre il primo punto enunciato è chiaro, gli altri necessitano di qualche chiarimento. La richiesta di smilitarizzazione esprime l’opposizione di Putin all’armamento ed all’addestramento, a cura della NATO, dell’esercito ucraino, che in effetti, già subito dopo il colpo di stato del 2014, ha iniziato ad integrarsi nella forza armata dell’alleanza atlantica.
Per denazificazione si intende invece l’eliminazione dell’influenza politica degli ultranazionalisti (neofascisti) nel governo e specialmente all’interno di esercito, polizia politica e regolare, così come nella politica linguistica e culturale. L’essenza stessa dell’ideologia degli ultranazionalisti è l’odio verso la Russia e verso tutto ciò che è russo. La loro influenza all’interno dell’apparato statale non ha smesso di crescere, specie a partire dal colpo di stato del 2014.

 

Sicurezza europea?
La definizione “non provocata” unita alla parola “invasione” serve in particolare per nascondere una lampante dichiarazione del presidente degli USA a proposito del fatto che nel caso in cui l’Ucraina non fosse entrata a far parte della NATO probabilmente si sarebbe potuta evitare la guerra. L’espansione della NATO verso l’Ucraina è stato il primo problema sollevato da Mosca nei mesi precedenti l’invasione. Durante quel periodo, Putin ha proposto regolarmente la negoziazione di un accordo sull’espansione della NATO in Ucraina. Nel dicembre del 2021, solo poche settimane prima dell’invasione, Mosca tornò a proporre formalmente agli USA e alla NATO che si iniziassero immediatamente i negoziati con l’obiettivo di stipulare un trattato di sicurezza europeo. La proposta fu ignorata allo stesso modo di quelle precedenti.

Ovviamente è possibile che Putin mentisse a proposito della sua aspirazione ad arrivare ad un accordo e che stesse solo cercando una scusa per assorbire l’Ucraina. Ma allora, perché non tentare questa strategia, se ci fosse stata anche la minima possibilità di evitare una guerra che l’amministrazione statunitense andava predicendo da mesi?
E si tenga anche conto che la CIA, dal canto suo, ha accertato che la decisione di invasione fu presa da Mosca solo pochi giorni prima che venisse emesso l’ordine. Ciò indica che la guerra avrebbe potuto essere evitata se la NATO avesse accettato la proposta della Russia di iniziare i negoziati.

 

Rifiuto statunitense
Il rifiuto degli USA di dar seguito alle preoccupazioni sulla sicurezza di Mosca nei mesi ed anni precedenti alla invasione, nonostante una serie di chiari segnali da parte di funzionari statunitensi di alto livello, incluso William Burns, ex ambasciatore a Mosca e attualmente capo della CIA, suggerisce che il governo degli USA di fatto voleva questa guerra. In ogni caso, gli USA, con l’appoggio entusiastico del Regno Unito e l’accordo degli altri membri della NATO, non hanno fatto assolutamente nulla a partire dall’inizio della guerra per promuovere un accordo negoziato che ponesse fine alla orribile distruzione di vite e infrastrutture socioeconomiche. Piuttosto il contrario: Washington ha bloccato qualsiasi opzione di fine negoziata della guerra. Prendiamo per esempio le “sanzioni infernali” imposte alla Russia: perché non sono state accompagnate anche dalle condizioni per la loro revoca, se l’obiettivo era quello di interrompere l’invasione?

Altro obiettivo, mai ammesso, è il consolidamento della dominazione degli USA sulla politica estera europea. A partire dalla dissoluzione dell’URSS nel 1991, gli USA hanno agito sistematicamente per escludere la Russia da ogni possibile struttura di sicurezza europea in sostituzione della NATO, alleanza nata dalla Guerra Fredda con l’URSS. Come era prevedibile, questa politica provocò l’ostilità della Russa, persino prima che Putin arrivasse al potere e nel periodo in cui consiglieri statunitensi occupavano incarichi chiave nell’amministrazione russa. L’ostilità della Russia, a sua volta, servì come giustificazione utile per continuare l’espansione della NATO. E dunque, dopo breve tempo la NATO dichiarò la Russia una minaccia esistenziale per la sicurezza dei suoi membri. Il circolo era stato chiuso.
Prima di proseguire devo chiarire una cosa: riconoscere le preoccupazioni di sicurezza della Russia ed il ruolo di Washington nella provocazione e prolungamento nella guerra attuale non significa esonerare Mosca dalle sue responsabilità per la perdita di vite e la distruzione materiale causata dalla guerra. La carta delle Nazioni Unite riconosce solo due eccezioni alla proibizione del ricorso alla forza militare da parte di uno stato contro un altro: quando l’uso della forza sia autorizzato dal Consiglio di Sicurezza o nel caso in cui uno stato possa reclamare la legittima autodifesa.

L’espansione della NATO fino alla frontiera russa, l’armamento e l’addestramento dell’esercito ucraino, a partire dal colpo di stato del 2014, la deroga da parte di Washington di una serie di trattati di limitazione nucleare, e l’installazione di missili in Polonia e Romania, a soli 5-7 minuti di volo da Mosca, possono essere, a mio parere, considerati legittimamente da Mosca come gravi minacce alla sicurezza della Russia.
Però la minaccia non era immediata tanto da giustificare l’invasione. Mosca non ha tentato tutte le alternative possibili. Anche dal suo proprio punto di vista, l’invasione ha peggiorato la situazione della sua sicurezza facendo sì che la NATO si ponesse sotto la guida degli USA, e in particolare ha permesso che Washington consolidasse l’appoggio di Francia e Germania nella politica aggressiva della NATO nei confronti della Russia. Questi due membri della NATO furono i più accaniti oppositori alla sua espansione prima della invasione. Ed ora Svezia e Finlandia, che prima erano “neutrali” (anche se in realtà è attualmente in corso un processo di integrazione “de facto” dei loro eserciti nelle forze della NATO) ora hanno deciso di unirsi all’alleanza.
Nei giorni precedenti l’invasione, la Russia affermò che l’Ucraina stava pianificando di invadere le regioni dissidenti. Alla vigilia dell’invasione, dopo essersi astenuta dal farlo durante gli otto anni di guerra civile, Mosca infine riconobbe l’indipendenza delle due regioni del Donbass e firmò con esse un trattato di mutua difesa per giustificare l’affermazione da parte di Mosca che stava invadendo legittimamente ed in risposta alla richiesta dei suoi alleati, vittime di aggressione.
La validità della affermazione che Kiev si stava preparando per attaccare non è chiara, nonostante nei mesi precedenti l’invasione russa Kiev avesse dichiarato apertamente la sua intenzione di recuperare tutti i suoi territori, compresa la Crimea, attraverso l’utilizzo delle sue forze armate. L’Ucraina aveva concentrato 120,000 soldati, la metà del suo esercito, lungo la frontiera della regione dissidente del Donbass. Nei quattro giorni precedenti l’invasione, i 700 osservatori dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) documentarono una enorme intensificazione dei bombardamenti, la maggior parte da parte di Kiev al di qua della linea di demarcazione, vale a dire da parte delle forze ucraine. Negli otto anni precedenti l’invasione, vi furono 18,000 vittime delle quali 1304 furono i civili, per la stragrande maggioranza tra i ribelli.
Come rilevato, la CIA conferma che la decisione di invasione è stata presa da Mosca in Febbraio, solo pochi giorni prima che accadesse. Ciò contraddice le ripetute affermazioni dell’amministrazione statunitense fatte nei mesi precedenti a proposito del fatto che un’invasione sarebbe stata imminente.
Dal mio punto di vista, quali che fossero le intenzioni di Kiev prima dell’invasione, Mosca avrebbe dovuto aspettare prima di scatenare il suo esercito. Fino a che Kiev non avesse intrapreso azioni di aggressione, avrebbe potuto continuare a cercare l’appoggio di Francia e Germania per un trattato di sicurezza, dal momento che questi erano gli stati che più si opponevano all’espansione della NATO. Di conseguenza, l’invasione ha spinto una buona parte della popolazione ucraina che fino a quel momento aveva simpatizzato per la Russia nelle braccia degli ultranazionalisti.

 

Stallo politico, lotta brutale
Una volta cominciata la guerra, la posizione umanista è quella di esigere una fine rapida e negoziata per ridurre al minimo la perdita di vite e di infrastrutture socioeconomiche. Perché una volta cominciata una guerra, l’atto più riprovevole è quello di farla continuare se non c’è speranza che far proseguire la lotta possa modificare il risultato finale.
Tuttavia, questa è esattamente la politica di Kiev e della NATO, il cui unico obiettivo, dalle parole di Biden, è: “indebolire la Russia”. Incredibilmente, questo rifiuto della diplomazia è appoggiato anche da certi circoli che si identificano nella sinistra socialista.

Bisogna capire che, a prescindere dalle rosee prospettive sugli esiti della guerra per l’Ucraina, rivelatesi poi errate, prospettate dai portavoce della NATO e dai media servili, la realtà è che il proseguimento dei combattimenti può solo far crescere la sofferenza dei lavoratori ucraini, senza speranza che la guerra abbia per loro un esito positivo. Mentre è certo il contrario.
Il ripristino dell’integrità territoriale dell’Ucraina, obiettivo dichiarato da Kiev che conta sull’appoggio della NATO, è sicuramente legittimo (nella misura in cui non metta in discussione il diritto alla autodeterminazione culturale o territoriale dei gruppi etnici e linguistici non ucraini). Però questo obiettivo, dichiarato ora da Kiev, è illusorio. Di conseguenza è necessario un compromesso. Insistere nel proseguire la guerra fino a che venga recuperato tutto il territorio perso è, di fatto, un vero e proprio crimine, addirittura più grave della stessa invasione. Peraltro, la ricerca ostinata di questo obiettivo chimerico corre il rischio di generare un confronto diretto con la NATO e la guerra nucleare.
Di fatto, i negoziati tra Russia e Ucraina, che furono in gran parte ignorati dai media servili, ebbero luogo nelle prime settimane di conflitto e sembravano progredire bene. Secondo le relazioni, l’Ucraina aveva accettato lo status di neutralità, lo status non nucleare e di non allineamento, con la propria sicurezza garantita, in caso di attacco, dai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. La Russia, dal canto suo, aveva rinunciato alla sua richiesta di denazificazione, e l’Ucraina aveva promesso di ripristinare la lingua russa come idioma ufficiale, che già era stata proibita nella vita pubblica.
C’era stato anche qualche passo verso un impegno nell’intricato tema dello stato del Donbass. Per quanto invece riguardava la Crimea, la cui restituzione non era assolutamente messa in conto dalla Russia, si era convenuto di rinviare la soluzione di quindici anni.

Dopo cinque settimane di guerra, Kiev e Mosca manifestavano ottimismo su un cessate il fuoco negoziato. Ma il quel preciso momento, il presidente degli Stati Uniti chiuse la sua visita in Europa con un importante discorso. Dopo aver affermato che Putin voleva ricreare un impero, dichiarò: “Per l’amor di Dio, quest’uomo non può restare al potere”. Qualche giorno dopo, l’allora primo ministro del Regno Unito, Boris Johnson, apparve all’improvviso a Kiev. Un assistente di Zelenskyy disse ai media che era stato latore di un semplice messaggio: “Non firmare alcun accordo con Putin, egli è un criminale di guerra”.
Per coincidenza, questo accadde giusto dopo il ritiro delle truppe russe dai dintorni di Kiev, e ciò fu descritto dai media occidentali, a mio parere erroneamente, come un segnale della possibilità per l’Ucraina di vincere la guerra. E allo stesso tempo, anche qui come per caso, Kiev annunciò la scoperta di crimini di guerra attribuiti alle forze russe nel villaggio di Bucha. Ciò pose fine ai negoziati, fino ad oggi.

 

La situazione diplomatica
Mentre Mosca continua a ripetere il suo desiderio di ripresa della diplomazia, Kiev insiste nelle sue condizioni per porre fine alla guerra: la restituzione di tutti i territori, compresa la Crimea. Arrivando ad inserire Henry Kissinger nella lista nera dei nemici dell’Ucraina per aver chiesto un accordo negoziato che almeno temporaneamente portasse un ritorno allo status quo territoriale precedente l’invasione e la neutralità dell’Ucraina. Un consulente di Zelenskyy descrisse questa dichiarazione come una “pugnalata alla schiena dell’Ucraina”. Qualcuno ha anche dichiarato che se Henry Kissinger diventa la voce della ragione allora la situazione è veramente grave.

Dobbiamo ricordare che Zelenskyy venne eletto presidente nel 2019 con una coalizione pro-pace, conquistando il 73,2% dei voti. Immediatamente dichiarò la sua intenzione di riavviare gli Accordi di Minsk e dichiarò di essere disposto a pagare il prezzo di una perdita di popolarità. Dmitrii Yarosh, il leader neofascista che venne nominato consulente del capo di gabinetto dell’esercito, rispose in un’intervista televisiva che Zelenskyy non avrebbe perso la popolarità ma invece “Se tradisce l’Ucraina e coloro che morirono nella rivoluzione e nella guerra, perderà la vita e penderà da un albero in  Khreshchatyk [una via centrale di Kiev]”.
Ma nell’ottobre del 2019, Zelenskyy, tuttavia, firmò un nuovo accordo con la Russia e i dissidenti del Donbass per l’eliminazione delle armi pesanti dalla linea di contatto, per uno scambio di prigionieri e la concessione di una qualche autonomia alla regione: si trattava dell’Accordo di Minsk II. E quando i soldati del reggimento neofascista Azov si rifiutarono di spostarsi, Zelenskyy si recò nel Donbass per richiamarli all’ordine. Ma i gruppi di estrema destra bloccarono la ritirata, e il 14 di ottobre del 2019, 10,000 manifestanti mascherati, vestiti di nero e muniti di torce, marciarono per le vie di Kiev, al grido “Gloria all’Ucraina! No alla resa!”.

Infine, Zelenskyy recepì il messaggio. A partire dal golpe del 2014, i neofascisti sono penetrati sempre più nelle diverse strutture, armate e non, dello stato (specie nell’esercito, la polizia civile e quella politica). La loro ideologia, nel cui nucleo esiste un profondo odio verso la Russia e verso tutto ciò che sia russo, è penetrata negli ambienti politici ben oltre quelli apertamente neofascisti, compresi quelli che si considerano liberali.
Abbiamo quindi un’alleanza tra lo “stato profondo” [Deep State] degli Stati Uniti, che non nasconde il suo obiettivo di indebolire la Russia con una “sconfitta strategica”, e i neonazisti ultranazionalisti ucraini che esercitano una influenza significativa e forse anche decisiva sul governo: nello scorso ottobre, Zelenskyy è arrivato a firmare un decreto sulla “impossibilità di negoziare con Putin”: una formula disastrosa per la classe lavoratrice ucraina e di tutto il mondo.

 

Cessate il fuoco immediato
La sinistra canadese dovrebbe esigere che il governo canadese faccia pressioni per un cessate il fuoco immediato e per il ritorno al tavolo delle trattative, ciò che Mosca ha richiesto in continuazione. Il monitoraggio informativo è stato profondamente distorto dai principali media a proposito delle “grandi vittorie” dell’esercito ucraino. In realtà si tratta di ritirate strategiche russe, portate a termina in buon ordine e con perdite minime in preparazione di una grande offensiva con forze consolidate e rinforzate. Nulla ha cambiato un fatto fondamentale: Kiev non può vincere la guerra con i suoi soli mezzi militari senza l’intervento diretto della NATO. Come non può migliorare la sua posizione né eliminare la minaccia di scontro nucleare che ciò implicherebbe.

A lungo termine, la sinistra deve costruire un grande movimento - come quello che servì a bloccare la partecipazione canadese alla guerra in Iraq o l’installazione di missili nucleari di medio raggio da parte degli USA in Europa negli anni ‘80 - per esigere che il Canada abbandoni la NATO, che è una organizzazione pericolosa e imperialista che minaccia l’umanità intera.
di David Mandel, 13 febbraio 2023

 

David Mandel: Insegna scienze politiche nella Università del Quebec a Montreal. Storico e  attivista socialista canadese. Ha tenuto per molti anni corsi di educazione sindacale in Ucraina e Russia. E’ autore, tra gli altri, dell’ormai classico “The Petrograd Workers in the Russian Revolution”

 

Fonte: sinpermiso.info, rivista di politica internazionale

Articolo originale: Más allá de comenzar una guerra, lo peor es apoyar que continue.

https://sinpermiso.info/textos/mas-alla-de-comenzar-una-guerra-lo-peor-es-apoyar-que-continue


Traduzione a cura di Patrizia B., Patria Grande, CIVG
Fonte dell'articolo tradotto da Sinpermiso: https://socialistproject.ca/2022/12/next-to-starting-war-worst-keep-it-going/

 

 


 

 

ALAI INFO / ANALISI / IL MARXISMO CUBANO

Fidel e il marxismo della Rivoluzione cubana: ribellione contro i dogmi

 

Un viaggio nel pensiero marxista e martiano di Fidel Castro, leader della prima rivoluzione socialista trionfante nel continente americano
di Frank Josué Solar Cabrales, 25 novembre 2022

 

 

“Questa è una dottrina rivoluzionaria e dialettica, non una dottrina filosofica;
è una guida all'azione rivoluzionaria, non un dogma.

Pretendere di inquadrare il marxismo in una specie di catechismo è antimarxista.
La diversità delle situazioni attirerà inevitabilmente un numero infinito di interpretazioni.

Coloro che interpretano correttamente potranno essere chiamati rivoluzionari;

chi farà la vera interpretazione e l’applicherà coerentemente trionferà;

chi sbaglia o non sarà coerente con il pensiero rivoluzionario fallirà, sarà sconfitto

e anche soppiantato, perché il marxismo non è una proprietà privata che si iscrive in un registro;

è una dottrina dei rivoluzionari, scritta da un rivoluzionario,

sviluppata da altri rivoluzionari, per i rivoluzionari”.
Fidel Castro, 3 ottobre 1965.

 

Le vie del marxismo rivoluzionario nella Cuba degli anni '50 correvano fuori dai canali del Partito Comunista. La confluenza di una serie di fattori contribuì a far sì che questo raggruppamento non fosse un efficace strumento d'avanguardia per portare avanti un processo di trasformazione. Sebbene questa incapacità sia stata generalmente attribuita al dilagante anticomunismo rampante dell'era della Guerra Fredda e del maccartismo, le sue cause vanno ricercate soprattutto nel rifiuto della degenerazione burocratica di cui aveva sofferto l'Unione Sovietica dopo l'ascesa al potere di Stalin e negli errori commessi nella sua carriera politica, che gli avevano alienato il sostegno di ampi settori popolari.

Per la giovane generazione di rivoluzionari degli anni Cinquanta, il partito dei comunisti non era solo quello che si era accordato con Fulgencio Batista nel 1940, ma anche quello che aveva mantenuto per tutto quel decennio una politica riformista, adeguandosi ai limiti della democrazia liberale; quello che, di fronte al colpo di stato del 10 marzo 1952, proponeva un fronte unito dei partiti di opposizione per la partecipazione elettorale e la mobilitazione delle masse, in direzione opposta a una soluzione insurrezionale. Se il Partito Socialista Popolare (PSP) era passato all’illegalità sotto Batista, era soprattutto a causa del clima di Guerra Fredda regnante, non perché la sua prassi e i suoi obiettivi costituissero una minaccia rivoluzionaria al dominio della borghesia. Il partito che a Cuba deteneva la rappresentanza ufficiale del marxismo contava su una militanza di operosi combattenti, la cui disciplina e dedizione alla lotta per le rivendicazioni concrete dei lavoratori erano proverbiali, ma non proponeva un'alternativa di rottura violenta con la dittatura e condannava sistematicamente, almeno fino al 1958, qualsiasi tentativo di insurrezione armata. Come disse il Che: "Sono capaci di formare quadri che si lasciano fare a pezzi nell'oscurità di una prigione senza dire una parola, ma non di formare quadri che assaltino un covo di mitragliere"¹.

Il partito che, in teoria, avrebbe dovuto organizzare la classe operaia per prendere il potere e guidare una rivoluzione socialista si è trovato impossibilitato a svolgere tale compito. Questa situazione spiega che l'avanguardia politica e intellettuale del nuovo gruppo di rivoluzionari, mossa da aspirazioni socialiste di trasformazione, rifiutava allo stesso tempo il marxismo di origine sovietica e il suo rappresentante nazionale. Questi giovani, per realizzare i loro ideali di riscatto e giustizia sociale, cercavano i loro principali referenti ideologici e politici nella tradizione del socialismo cubano, che fin dagli anni '20 era esistito in parallelo a quella legato agli orientamenti comunisti del Cremlino.

Fernando Martínez Heredia afferma nella Rivoluzione Cubana del 1930 che:

“Nel processo storico del socialismo come politica rivoluzionaria a Cuba, esistevano due linee ben definite: quella di un socialismo cubano che trova la sua massima espressione nei decenni degli anni Venti e Trenta del XX secolo in Julio Antonio Mella e Antonio Guiteras, e quella di un socialismo inscritto nel movimento comunista internazionale. Mella e Guiteras trovarono la strada del socialismo cubano: antimperialismo intransigente, ideale comunista, insurrezione armata, fronte rivoluzionario e conquistando nella lotta il diritto di guidare la creazione del socialismo”.

Solo comprendendo le influenze e le espressioni ideologiche del socialismo cubano in questa generazione si può comprendere la maturità di un documento come ¿Por qué luchamos?, il testamento politico dei fratelli Luis e Sergio Saíz Montes de Oca, due adolescenti di un piccolo villaggio di Pinar del Rio, assassinati il 13 agosto 1957.
La pretesa di lanciare una rivoluzione socialista a Cuba condannando sia il capitalismo draconiano e sfruttatore sia il "falso paradiso dei lavoratori" della Russia Sovietica, non è un approccio strano o un "raggio luminoso", ma piuttosto il riflesso dell'organicità di una corrente di pensiero diffusa tra i giovani insurrezionali degli anni Cinquanta. Le loro critiche al socialismo di stampo stalinista sono di sinistra, non vengono da grossolano anticomunismo. Al contrario, sottolineano che non è abbastanza rivoluzionario o socialista.

Sulla stessa linea sono i manifesti programmatici di forze insorgenti come il Movimiento Nacional Revolucionario (MNR) e il Directorio Revolucionario (DR), dove si trovano riferimenti al socialismo come obiettivo delle loro lotte³.
Il quadro sopra descritto rivela la complessità del contesto nel quale si collocarono i primi approcci del giovane Fidel Castro al marxismo. La sua prima lettura di un testo marxista, quando era al secondo o terzo anno dei suoi studi universitari alla fine degli anni '40, fu Il Manifesto del Partito Comunista, che lo colpì profondamente:

“Avevo 20 anni quando entrai in contatto con la letteratura marxista; avevo una mentalità vergine, non deformata e molto ricettiva, una specie di spugna condizionata da tutta la mia esperienza - da quando morivo di fame all'età di sei o sette anni, quando ero molto giovane – e da tutte le mie lotte (…). Vi trovai una grande logica, una grande forza, un modo di esprimere i problemi sociali e politici in in modo molto semplice ed eloquente”.⁴

Le opere marxiste che catturarono maggiormente il suo interesse furono quelle dedicate all'analisi storico-politica e alla lotta di classe, e tra queste Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte e Le guerre civili in Francia. Approfondì soprattutto Lo Stato e la Rivoluzione di Lenin, per le sue considerazioni sul potere e la sua presa del potere rivoluzionario. Con queste letture, Fidel non si dichiarò esplicitamente marxista, ma assimilò parecchie lezioni e insegnamenti, interpretandoli creativamente secondo le condizioni specifiche di Cuba. Secondo le sue stesse parole, dal marxismo trasse il concetto di cosa sia la società umana e la storia del suo sviluppo, e la bussola per orientarsi con precisione negli eventi storici.⁵ E pur mantenendo ottimi rapporti personali con i militanti comunisti, condivise la visione critica della sua generazione verso lo stalinismo e la politica estera sovietica, così come verso la prassi e la traiettoria politica del PSP.

Lo spirito ribelle di Fidel, forgiato fin dall'infanzia e dall'adolescenza, incontrò all'Università dell'Avana le idee più avanzate e radicali del suo tempo, e lì iniziò un processo di apprendimento politico e di sviluppo della sua coscienza rivoluzionaria. Per questo amava dire: “Sul colle dell’Università sono diventato rivoluzionario, qui sono diventato martiano, qui sono diventato socialista”.⁶
Tuttavia, la componente essenziale della sua formazione politica e ideologica non veniva dai classici del marxismo, ma dalla storia nazionale, dalla tradizione ribelle del popolo cubano, dall'eredità delle sue lotte per la liberazione nazionale e la giustizia sociale. Fidel si nutrì della somma di una cultura politica molto radicata nel pensiero e nell'azione dei rivoluzionari cubani, che ha avuto in Martí il suo principale ed eminente esponente e maestro, e che offrì al paese una rivoluzione popolare di indipendenza e di lunga successione di lotte e idee per la giustizia e la libertà. Fidel dà continuità a quel radicalismo da cui apprese che le azioni, le idee, le proposte e i progetti dovevano essere "molto sovversivi rispetto all'ordine costituito e ai suoi fondamenti, e di gran lunga superiori a quanto sembrava possibile per il buon senso comune e per le idee allora condivise, comprese quelle di altri rivoluzionari”.⁷
Fidel arrivò al marxismo lungo la strada che José Martí gli aveva aperto, e per questo si assunse una condizione rivoluzionaria:

“Avevo seguito una tradizione storica cubana, una grande ammirazione per i nostri patrioti, per Martí, Céspedes, Gómez, Maceo. Prima di essere marxista fui martiano, provavo un'enorme ammirazione per Martí. Passai prima per un processo di educazione martiana che mi inculcai da solo leggendo i suoi testi. Avevo un grande interesse per le opere di Martí, per la storia di Cuba, iniziai da quel percorso”.
L'unico modo per il marxismo di essere rivoluzionario nella Cuba degli anni Cinquanta era intraprendere un proprio, nuovo cammino che tenesse conto dei dati specifici della realtà nazionale per superarli e proporre un progetto efficace di sovversione totale della società.

Quando avvenne il colpo di stato militare del marzo 1952, Fidel apparteneva all'ala sinistra del Partito Popolare Cubano (Ortodoxos), un movimento di massa eterogeneo e multiclassista che cercava di portare alle sue ultime conseguenze, senza oltrepassare i suoi limiti, il riformismo democratico borghese della seconda repubblica. Erede degli ideali della rivoluzione del 1930, traditi e frustrati dai governi “autentici”, l'Ortodossia aveva incarnato la speranza di una vita migliore per le maggioranze popolari attraverso la lotta alla corruzione e un riordinamento della vita pubblica.
Il golpe seppellì non solo quella speranza, ma anche la legittimità e il credito dell'intero ordine politico precedente, che garantiva la riproduzione dell'egemonia borghese. Di fronte alla nuova situazione, Fidel capisce, a differenza della leadership ortodossa, passiva e confusa dagli eventi, che "il momento è rivoluzionario e non politico". Capisce che dovrà necessariamente essere molto creativo e ribelle per non seguire le vie battute della partecipazione elettorale, della blanda partecipazione o dei compromessi senza principi con i corrotti di ieri che conducono a vicoli ciechi, e modellare nuovi percorsi e metodi per la liberazione.

Per questo, partendo dall'analisi delle esatte circostanze e dall'interpretazione delle aspirazioni e dei bisogni popolari, con gli strumenti di formazione politica che aveva accumulato e le esperienze vissute, si dedicò all'articolazione di un movimento clandestino disposto a lottare per mobilitare il popolo e guidarlo alla conquista rivoluzionaria del potere.

Dai settori più umili della società e da quella stessa Gioventù Ortodossa che nel 1948 aveva proclamato come sua fondamentale aspirazione ideologica "l'instaurazione di una democrazia socialista a Cuba" e definito che la lotta per la liberazione nazionale di Cuba era “la lotta contro l'imperialismo statunitense”⁹, uscì il grosso degli assalitori della caserma Moncada. Le azioni del 26 luglio 1953 sorpresero tutti perché ruppero con tutto ciò che sembrava possibile. I protagonisti non erano stati nessuno degli attori principali del dramma politico nazionale. L'opposizione alla dittatura fino a quel momento era passata attraverso i canali pacifici delle dichiarazioni di denuncia e condanna, della resistenza passiva e legale; e gli insurrezionalisti “autentici” e ortodossi, che disponevano di abbondanti mezzi bellici, dell'esperienza di ex combattenti rivoluzionari e dei gruppi di azione degli anni '30 e '40, non andarono oltre la promessa di operazioni armate che non si concretizzarono mai.

Inaspettatamente e praticamente dal nulla, senza fortune né grandi risorse, senza tribune, spazi di potere o numerosi militanti e contando solo sugli sforzi della gente semplice delle campagne e su poche armi di piccolo calibro, dalle mura della caserma Moncada sorse una nuova avanguardia rivoluzionaria inserita in una complessa rete di relazioni dove si scontravano vari fattori politici, ciascuno con interessi e obiettivi differenti. Il 26 luglio 1953 aprì la strada alla lotta armata contro la dittatura di Batista, ma quella data non significò solo un assalto alle oligarchie, ma anche ai dogmi rivoluzionari, come direbbe il Che. Tra loro c'era chi sosteneva l'impossibilità di portare avanti una insurrezione popolare vittoriosa contro l'esercito a Cuba, a meno di 90 miglia dall'imperialismo nordamericano, e che la via per rovesciare Batista era attraverso transazioni politiche o congiure di piccoli gruppi di civili armati di cospirazioni militari.

Quando nel processo ai sopravvissuti dell’assalto fu presentato come elemento accusatorio un libro di Lenin trovato nell'appartamento di Abel Santamaría, Fidel rispose che sì, leggevano Lenin perché chi non lo leggeva era ignorante, ma la verità è che non si limitavano alla lettura: i principali dirigenti del movimento, Fidel, Abel e Jesús Montané, tenevano circoli di studio delle opere marxiste durante i mesi precedenti l'azione. Se il marxismo era presente nelle analisi sociali e della situazione dei dirigenti, l'ispirazione fondamentale comune a tutti gli assalitori era la figura di José Martí, la sua ideologia radicale e democratica. Lo dichiaravano nel Manifesto alla Nazione che in caso di successo avrebbero letto alla radio: «La Rivoluzione dichiara di riconoscere e di orientarsi negli ideali di Martí contenuti nei suoi discorsi, nelle Basi del Partito Rivoluzionario Cubano e nel Manifesto di Montecristi; e sostiene i Programmi Rivoluzionari della Joven Cuba, ABC Radical e del Partido del Pueblo Cubano (Ortodoxos)»¹⁰. Tra i programmi assunti come propri spicca quello della Joven Cuba, che si proponeva come obiettivo «che lo Stato cubano si strutturasse secondo i postulati del socialismo»¹¹, e proponeva una linea insurrezionale per realizzarlo.

Uno dei contributi pratici più significativi della Rivoluzione cubana alla teoria marxista è l'importanza della determinazione personale per la creazione delle cosiddette condizioni soggettive in una situazione rivoluzionaria, e della funzione pedagogica che hanno per la mobilitazione del popolo i fatti compiuti, le promesse mantenute, gli eroici esempi individuali e collettivi. Per qualsiasi sforzo insurrezionale, una sconfitta militare come quella subita negli assalti alle caserme di Santiago de Cuba e Bayamo avrebbe potuto significare un colpo terminale e irreversibile. Pochi mesi prima, il 5 aprile 1953, diversi membri del Movimiento Nacional Revolucionario furono arrestati mentre stavano per intraprendere un'operazione per impadronirsi della fortezza della Columbia, in coordinamento con i militari cospiratori. L'evento rappresentò il fallimento del progetto insurrezionale di quell'organizzazione e segnò l'inizio del suo declino. D'altra parte, Fidel e i sopravvissuti all'assalto della Moncada mantennero la decisione di continuare a combattere in qualsiasi circostanza e trasformarono il processo in una ribalta per trasmettere il loro messaggio rivoluzionario al popolo e ottenere una straordinaria vittoria politica.

In particolare, l’autodifesa di Fidel, nota come “La Storia mi assolverà”, diffusa clandestinamente in maniera massiccia in tutto il Paese, fu il veicolo attraverso il quale si denunciarono non solo i crimini di tirannia contro i combattenti del 26 luglio 1953, ma anche l'ideologia che li muoveva e gli obiettivi che perseguivano. Divenne il primo programma della Rivoluzione, oltre alle misure di utilità popolare che propugnava, perché spiegava che esse potevano essere attuate solo attraverso la conquista del potere con metodi rivoluzionari e con la partecipazione diretta delle maggioranze a quella lotta.

Il documento contiene una brillante analisi marxista della struttura del dominio di classe che esisteva a Cuba, e definisce come popolo, in funzione della lotta, la massa lavoratrice e umile del Paese che soffriva sotto il giogo della dittatura, ma che subiva anche un sistema sociale di oppressione ed esclusione. Si rivolgeva così alle forze popolari che dovevano costituire il fronte rivoluzionario, quelle su cui si sarebbe appoggiato e ai cui interessi avrebbe risposto il governo che fosse uscito dalla vittoriosa insurrezione, e identificava nel campo nemico, al di là di Batista e dei suoi apparati repressivi, le “mani straniere”, i “potenti interessi” e i “detentori di capitali”.

Ne “La Storia mi assolverà” si affermava chiaramente che l'obiettivo della Rivoluzione era mantenere la promessa di sovranità nazionale e giustizia sociale, a lungo rimandate, e della proposta martiana, ancora una volta negletta e tradita nella Rivoluzione del 1930. Ciò significava che la lotta non si concludeva con il rovesciamento di una dittatura, ma implicava l'inizio di profondi cambiamenti economici, politici e sociali che avrebbero trasformato le strutture di dominio e di ingiustizia della società cubana. Per i giovani “moncadisti”, l'ideale rivoluzionario si sintetizzava nella triade ideologica libertà politica, indipendenza economica e giustizia sociale, diffusa nell'immaginario politico cubano dai tempi della lotta contro Machado e la prima dittatura di Batista. Sebbene la parola socialismo non fosse menzionata nel testo, nelle condizioni specifiche della Cuba del 1953, un Paese sottosviluppato, dipendente e soggiogato dall'imperialismo, le misure che prevedeva potevano essere realizzate e portate alle ultime conseguenze solo con una rivoluzione socialista. Le esigenze di libertà, indipendenza, uguaglianza e giustizia sociale erano già incompatibili con i limiti imposti dal capitalismo. Così lo spiega lo stesso Fidel:

“Per noi, già quella era una lotta per una rivoluzione profonda, ma in tutto quel periodo non si parlava ancora di rivoluzione socialista. Il mio discorso di autodifesa alla Moncada era già stato pubblicato. Chiunque legga seriamente quel materiale, e lo legga bene, vede che c'è un programma, che ci sono tutti i germi di una rivoluzione molto più progressista, di una rivoluzione socialista: parlo di impiegare le risorse nello sviluppo del Paese, del diritto urbanistico, della proprietà abitativa, della riforma agraria, delle cooperative; dico il massimo che si può dire in un periodo simile, il programma più ambizioso che si potesse proclamare e che fu la base di tutto ciò che fece la Rivoluzione. Era già il programma di un marxista-leninista, di qualcuno che capiva bene la lotta di classe, che quando parla di popolo si riferisce ai settori umili, ai contadini, agli operai, ai disoccupati; ne “La Storia mi assolverà” c'è una concezione classista, un programma che è stato il primo passo verso il socialismo”¹².

Uscito dal carcere il 15 maggio 1955 grazie alla campagna popolare per l'amnistia, Fidel si concentrò su una battaglia politica di denunce contro la tirannia. Uno degli obiettivi principali che si proponeva era quello di dimostrare l'inesistenza di garanzie e di un clima favorevole allo sviluppo di una lotta civica. Dal momento stesso della sua scarcerazione e forse ancor prima, aveva proclamato la sua adesione a una soluzione democratica: “L'unica soluzione che vedo per la situazione cubana sono elezioni generali immediate”¹³. Questo cambiamento di atteggiamento, motivato da ragioni tattiche¹⁴, generò sconcerto in alcuni settori insurrezionalisti¹⁵. Tuttavia, una frase in una delle sue dichiarazioni pubbliche fu rivelatrice dei veri obiettivi della sua svolta tattica e del carattere radicale che caratterizzava tutte le sue azioni: «Se non si può ottenere il meglio possibile, è meglio lottare per l'impossibile”¹⁶.

In realtà, Fidel non aveva abbandonato la sua tesi insurrezionale, ma non ne aveva le risorse, e privilegiava l'opera di organizzazione, proselitismo e propaganda rispetto alla preparazione dei guerriglieri¹⁷. Per il suo progetto di insurrezione armata popolare che superava i limiti della “cospirazione di caserma” e l'attentato, era fondamentale ottenere l'appoggio delle masse¹⁸ e questo fu il fulcro della sua attività politica, interviste e articoli, nei giorni successivi all'amnistia¹⁹.

Ancora considerava se stesso e i suoi seguaci come parte dell'Ortodossia, e apprezzava nella difesa della linea di indipendenza chibasista la possibilità di conquistare l’appoggio della sua militanza, principalmente a favore di quella posizione²⁰. All'interno dell'ampio ed eterogeneo movimento ortodosso, rappresentava l’alternativa più logica e con maggiori possibilità di guadagnarsi adepti: quella che senza concordare con gli “autentici”, non si fermava alle dichiarazioni passive e si disponeva seriamente alla lotta armata.

Insieme a questo rifiuto di raggiungere accordi o alleanze con altri partiti politici, soprattutto con le tendenze “autentiche”, cercava di sfruttare le minime opportunità offerte da Batista nel suo intento di mostrare un volto civile e pacifico per sviluppare una lotta politica aperta che gli permettesse di unire in un blocco le larghe basi ortodosse, quelle di origine popolare e i movimenti che chiamava le “forze morali” del Paese²¹.

Sebbene la predicazione unificatrice avesse avuto risultati parziali, l'incorporazione di giovani di diversa origine e quadri e militanti del MNR nel gruppo iniziale dei combattenti di Moncada fu sufficiente affinché in occasione della sua prima Direzione Nazionale il 12 giugno 1955, il Movimiento Revolucionario 26 de Julio fosse un organismo con diffusione in tutta la geografia nazionale e con le strutture organizzative minime per intraprendere la ripresa del confronto armato contro la dittatura. Portata al limite la “apertura democratica” di Batista, che in realtà non fu mai disposto a dare spazio ad una lotta civica, Fidel andò in esilio il 7 luglio 1955 con un’autorevolezza rivoluzionaria nell’opinione pubblica già notevole al momento della sua scarcerazione ma ulteriormente accresciuta, lasciando a Cuba un suo proprio apparato politico-insurrezionale. Quando fu dimostrato che l'uso della violenza sarebbe stata l'unica via d'uscita, decise di affidare tutto agli sforzi della sua organizzazione e continuare su un percorso indipendente, ora di lotta armata.

Diversi membri della Direzione Nazionale del Movimento 26 Luglio condividevano una visione radicale degli obiettivi della Rivoluzione, come si può capire da un editoriale che pubblicarono nel maggio del 1956: “Quando si chiarisce fino alle ultime conseguenze l'idea democratica e socialista della rivoluzione nazionale, tutta l'azione si orienta verso quella rotta”²³. In questo senso, insistevano sulla necessità che l'organizzazione avesse un programma più ampio e articolato da presentare alla gente. Alcuni di loro iniziarono addirittura nel 1956 a Cuba il lavoro di stesura di una sintesi programmatica che tenesse conto delle esperienze e delle realtà della lotta dal 1953²⁴.

 

Tuttavia, Fidel espresse la sua opposizione all'elaborazione di un tale programma che avrebbe limitato le possibilità e la portata della lotta. “La Storia mi assolverà” sarebbe stato la base programmatica del Movimento 26 Luglio durante tutta l'insurrezione, che da quel momento si sarebbe caratterizzata per la relativa indefinitezza del suo progetto politico di trasformazioni, delineato a grosse linee in manifesti e proclami, ma non enunciato in dettaglio in documenti dottrinari. I suoi sono principi generali alla base del pensiero rivoluzionario cubano fin dagli anni '30, e che potremmo considerare universali all'interno del magma ideologico degli anni '50, assunti da quasi tutti i movimenti anti-Batista. Espressione delle aspirazioni popolari, quegli ideali di giustizia, libertà democratiche e sovranità nazionale apparivano raccolti in vari programmi dello spettro politico cubano. Ciò che distingueva il Movimento 26 Luglio dal campo dell'opposizione nel suo insieme era la natura radicale degli obiettivi che si proponeva di raggiungere e dei mezzi utilizzati. Per i suoi militanti, la Rivoluzione, attraverso la lotta armata e la partecipazione diretta del popolo, non poteva limitarsi alla cessazione della dittatura e ad un adeguato ed equilibrato funzionamento dell'istituzionalità repubblicana, ma doveva produrre profonde trasformazioni dell'assetto sociale, politico ed economico del Paese a vantaggio dei suoi strati più umili.

Le ragioni che fecero del Movimento 26 Luglio l'organizzazione egemonica dell'opposizione alla dittatura di Batista e lo misero in grado di guidare la rivoluzione furono molteplici:
“Aver prodotto il primo atto armato dell'insurrezione e ottenerne un equilibrio politico favorevole pur avendo sofferto una sconfitta militare. Un comportamento di fermezza e coerenza nelle sue promesse che si realizzano anche a rischio della vita e in cui i fatti accompagnano le parole. Questa capacità di contribuire all'atto rivoluzionario di mobilitazione attirerà la simpatia e la fiducia della gente, in particolare dei settori giovanili che avevano perso la fiducia nei politici tradizionali”.

Il discorso ideologico del Movimento 26 Luglio, molto ampio, attraente e senza definizioni settarie, riuscì a esprimere le aspirazioni dei settori più umili e ad identificarsi con essi, e permise loro di avere una grande risonanza politica e sociale. La leadership carismatica e crescente di Fidel, dentro e fuori il M26, si rafforza e acquista maggior significato lungo tutto il processo che dal maggio del 1958 riesce ad accentrare nella sua persona la direzione politica e militare della rivoluzione. Gestione flessibile di una pratica politica di principio. Intransigente atteggiamento nei confronti della possibilità di una giunta militare e di un intervento straniero. Abile uso della propaganda, alla quale si attribuisce la massima importanza. Capacità di aggregare attori, partendo da uno stato iniziale di cellula, di gruppo chiuso, e di crescere rapidamente nello spazio e nel numero. Efficace politica di alleanze con altre organizzazioni, senza compromettere il suo programma rivoluzionario, cercando sempre la supremazia del Movimento. Creazione di organizzazioni di spinta come il Fronte Nazionale degli Studenti, il Fronte Nazionale dei Lavoratori e la Resistenza Civica, oltre alla sua militanza diretta, che gli permisero di mobilitare il sostegno di settori sociali ampi e differenti. Capacità di recuperare e superare i propri errori e fallimenti, si è sempre ripreso in brevissimo tempo, trasformando le sconfitte in vittorie con una velocità impressionante.
Negli anni Cinquanta, la dottrina ufficiale “marxista-leninista” dell'Unione Sovietica stabiliva che nei Paesi che erano stati colonizzati non si poteva nemmeno considerare la possibilità della vittoria di un'insurrezione che portasse a una rivoluzione socialista, perché dovevano prima completare una fase di sviluppo capitalista, dove spettava ai lavoratori e ai comunisti sostenere le loro borghesie nazionali in modo che potessero adempiere ai loro compiti democratici e progressisti. Una tale posizione teorica era accompagnata da una politica di coesistenza pacifica tra il campo del “socialismo reale” e il mondo capitalista, che abbandonava la prospettiva internazionalista della lotta di classe e scoraggiava l'emergere di ribellioni contro il dominio dell'imperialismo e delle borghesie autoctone nel cosiddetto Terzo Mondo.

La Rivoluzione Cubana fu l'eresia che, guidata da Fidel, non solo sovvertì completamente l'ordine sociale imperante a Cuba, ma trasgredì anche i ruoli che questo schema teorico assegnava alle realtà e alle ribellioni dei popoli, e distrusse tutti i calcoli e le previsioni di ciò che è possibile nell'equilibrio geopolitico tra le grandi potenze. Dimostrò che era fattibile, partendo dalle condizioni concrete di un Paese con una struttura di dominazione neocoloniale come Cuba e facendo appello alla forza, all'organizzazione e alla mobilitazione dei più umili, liberare  un'insurrezione popolare vittoriosa che si ponesse fondamentali obiettivi di liberazione nazionale e giustizia sociale. Il leader ribelle che nel giugno del 1958, nella Sierra Maestra, resistendo a un'offensiva militare della dittatura, avvertì che il suo vero destino sarebbe stato quello di lottare contro l'imperialismo nordamericano, insegnò e apprese, insieme al suo popolo, che solo con il socialismo possiamo liberarci dal dominio straniero e costruire una società di piena uguaglianza e libertà. L’eterna lezione di inestimabile valore che ci ha lasciato è che, per una rivoluzione, la cosa più sensata e raccomandabile, cioè la migliore, sarà sempre lottare per l'impossibile.

Frank Josué Solar Cabrales, 25 novembre 2022

 

Articolo originale: Fidel y el marxismo de la Revolución cubana: rebelión contra los dogmas

https://www.alai.info/fidel-y-el-marxismo-de-la-revolucion-cubana/

Traduzione a cura di Luigi M., CIVG Patria Grande

Note

[1] Ernesto Guevara de la Serna: Pasajes de la guerra revolucionaria. Cuba 1956–1959, 3.a e 4.a ristampa, Editora Política, L’Avana, 2003, p. 200.

[2] Fernando Martínez Heredia: Guiteras y el socialismo cubano, in Fernando Martínez Heredia: La Revolución Cubana del 30. Ensayos, Editorial de Ciencias Sociales, L’Avana, 2007, p. 118.

[3] «Il movimento insurrezionale degli anni Cinquanta nutriva visioni molto forti del socialismo cubano e dei suoi intimi legami con la liberazione nazionale. È molto comprensibile che sia stato così, data la densa storia cubana di proteste, ribellioni e azioni collettive rivoluzionarie tra il 1868 e il 1959, se guardiamo il periodo in prospettiva storica, e data la sua grande coerenza e la sua enorme vocazione nel sentirsi seguaci ed eredi degli sforzi e dei progetti precedenti (…). I testi dell'insurrezione – atti di organizzazione, articoli, lettere e messaggi politici e personali, annotazioni di pensieri o progetti, comunicazioni orali – abbondano nell’uso di concetti di liberazione, antimperialismo, socialismo, nazionalismo rivoluzionario, latinoamericanismo, democrazia». Fernando Martínez Heredia: Visión cubana del socialismo y la liberación, en Fernando Martínez Heredia: Pensar en tiempo de revolución. Antología esencial, CLACSO, Buenos Aires, 2018, p. 869.

[4] Katiuska Blanco Castiñeira: Fidel Castro Ruz: Guerrillero del Tiempo. Conversaciones con el líder histórico de la Revolución Cubana, 1.a. parte, tomo 1, Ediciones Abril, L’Avana, 2011, pp. 251, 253.

[5] Ignacio Ramonet: Cien horas con Fidel, Oficina de Publicaciones del Consejo de Estado, L’Avana, 2006. pp. 124–126.

[6] Discurso de Fidel Castro en el Aula Magna de la Universidad de La Habana, 4 settembre 1995. Disponibile su http://www.cuba.cu/gobierno/discursos/1995/esp/f040995e.html

[7] Fernando Martínez Heredia: Revolución Cubana, Fidel y el pensamiento latinoamericano de izquierda, en Fernando Martínez Heredia: Pensar en tiempo de revolución. Antología esencial, p. 1180.

[8] Katiuska Blanco Castiñeira: Op. cit., 1.a. parte, tomo 1, p. 254.

[9] Comisión Nacional Organizadora de la Sección Juvenil del Partido del Pueblo Cubano (Ortodoxos): El pensamiento ideológico y político de la juventud cubana, en Colectivo de autores: Eduardo Chibás: imaginarios, Editorial Oriente, Santiago de Cuba, 2010, pp. 89–90.

[10] Manifiesto a la Nación. Disponibile su http://www.fidelcastro.cu/es/documentos/manifiesto-del-moncada

[11] Fernando Martínez Heredia: Guiteras y la revolución, en Fernando Martínez Heredia: Pensar en tiempo de revolución. Antología esencial, p. 953.

[12] Katiuska Blanco Castiñeira: Op. cit., 1.a. parte, tomo 1, p. 95.

[13] Carlos Franqui: Amnistía Política. Los Presos en libertad. En Batabanó. Una entrevista con Fidel Castro, en Carteles, L’Avana, anno 36, n. 21, 22 maggio 1955, p. 38. «Quando eravamo ancora in carcere, dissi nella mia lettera a Luis Conte, pubblicata in Boemia, che se un mutamento di circostanze e un regime di garanzie positive esigessero un cambio di tattica nella lotta, lo faremmo nel rispetto del supremo interesse della nazione (…). Ora, liberi, ratifichiamo quelle parole senza alcun tipo di riluttanza perché non siamo facinorosi di mestiere e sappiamo fare sempre ciò che è meglio per il Paese». Manifiesto al Pueblo de Cuba de Fidel Castro y Combatientes, en La Calle, L’Avana, Anno I, Nº 39, 16 maggio 1955, p. 1.

[14] «… fummo rilasciati a grande richiesta della popolazione e in un clima di ricerca della pace, motivo per cui non potevamo presentarci dal primo momento alzando il vessillo della lotta armata, volevamo far capire che se non c’era una soluzione politica, non è stata colpa nostra ma di Batista». Katiuska Blanco Castiñeira: Op. cit., 1.a parte, tomo 2, p. 328.

[15] «Frank considera prematuro quel passo [l'unione con Fidel e i Moncadisti]. Aleggia nell'aria che i Moncadisti si uniranno alla lotta civica nei termini di un'opposizione pubblica e pacifica e la posizione dei membri dell'ARN [Azione Rivoluzionaria Nazionale] è l'insurrezione armata». Renaldo Infante Urivazo: Frank País, leyenda sin mitos, Editorial de Ciencias Sociales, L’Avana, 2011, p.135. «… uscito dal carcere, Fidel rilasciò alcune dichiarazioni in cui si dichiarava disposto a partecipare alla lotta civica, e faceva intendere che si sarebbe unito alla vita politica, allontanandosi dalla via dell'insurrezione. Questo, a quanto pare, non è stato compreso molto bene da Frank e Pepito, che si mostrarono cauti». Reinaldo Suárez Suárez y Oscar Puig Corral: La complejidad de la rebeldía, Ediciones La Memoria, Centro Cultural Pablo de la Torriente Brau, L’Avana, 2010, p. 58.

[16] Conferencia de prensa de Fidel Castro a la salida de prisión, 15 maggio 1955, en Mario Mencía: Las rejas se abrieron, obra inédita.

[17] «Il nostro compito immediato, ora, è mobilitare l'opinione pubblica a nostro favore, diffondere le nostre idee e conquistare il sostegno delle masse popolari. (...) prima eravamo pionieri anonimi di queste idee, ora siamo costretti a lottare per loro apertamente, la tattica deve essere completamente nuova». Carta de Fidel Castro a Haydée Santamaría y Melba Hernández, Isla de Pinos, 19 giugno 1954. Fondo Fidel Castro Ruz. Archivo de la Oficina de Asuntos Históricos del Consejo de Estado. «La nostra linea è la mobilitazione di massa; non la cospirazione di caserma, né l’attentato». Dichiarazioni di Fidel Castro usceno di prigione il 15 maggio 1955, in Luis Conte Agüero: Fidel Castro, vida y obra, Editorial Lex, L’Avana, 1959, p. 235.

[18] «Credo che la propaganda sia vitale in questo momento; senza propaganda non c'è movimento di massa, e senza movimento di massa non c'è rivoluzione possibile». Lettera di Fidel Castro a Haydée Santamaría e Melba Hernández, Isla de Pinos, 18 giugno 1954. Fondo Fidel Castro Ruz. Archivo de la Oficina de Asuntos Históricos del Consejo de Estado. «… le nostre possibilità di vittoria si basano sulla certezza che il popolo sosterrà gli sforzi di uomini puri che metteranno al primo posto le leggi rivoluzionarie fin dall'inizio (…). Le nostre speranze si basano sul popolo. Lanciamo al più presto il nostro programma che è l'unico veramente rivoluzionario, e le nostre idee per organizzare il grande movimento rivoluzionario che deve coronare gli ideali dei caduti!». Lettera di Fidel Castro a Haydée Santamaría e Melba Hernández, Isla de Pinos, 19 giugno 1954. Fondo Fidel Castro Ruz. Archivo de la Oficina de Asuntos Históricos del Consejo de Estado. «… non sarà mai troppo ripetere che è la propaganda a legare il popolo a una bandiera». Lettera di Fidel Castro a Melba Hernández, Isla de Pinos, 5 settembre 1954. Fondo Fidel Castro Ruz. Archivo de la Oficina de Asuntos Históricos del Consejo de Estado.

[19] Un ampio racconto di quanto accaduto in questi 53 giorni si può consultare su Mario Mencía: Solución: la del 68 y el 95. Su Bohemia, L’Avana, Anno 77, numeri dal 20 al 33; 17, 24 e 31 maggio; 7, 14, 21 e 28 giugno; 5, 12, 19 e 26 luglio; 2, 9 e 16 agosto del 1985.

[20] «Se questa linea non è stata quella corretta, perché la simpatia del popolo nei nostri confronti cresce di giorno in giorno mentre settori precedentemente potenti vengono annientati? Grazie alla nostra posizione possiamo contare sul pieno appoggio della massa ortodossa che è al di sopra di tutte le tendenze e rappresenta centinaia di migliaia di cittadini. Quella massa è a favore della linea indipendentista, che è sempre stata la nostra linea rivoluzionaria. Dichiararlo apertamente è stato un enorme successo. (...) difenderla non significa affatto aderire a nessuna tendenza politica, ma affermare davanti al popolo la nostra posizione storica». Lettera di Fidel Castro a Haydée Santamaría e Melba Hernández, Isla de Pinos, 19 giugno 1954. Fondo Fidel Castro Ruz. Archivo de la Oficina de Asuntos Históricos del Consejo de Estado.

[21] «Lotterò per l'unità delle forze morali. (...) Tutti noi che la pensiamo allo stesso modo, tutti noi che abbiamo lo stesso pensiero sociale e la stessa ideologia progressista dobbiamo unirci. (...) Questo è il momento di unirsi perché possiamo osservare una nuova fede che sta emergendo e un risveglio nella coscienza nazionale che stimola migliori determinazioni». Dichiarazioni di Fidel Castro uscendo di prigione il 15 maggio 1955, in Luis Conte Agüero: Op. cit., p. 235.

[22] Armando Hart: Fundación del Movimiento 26 de Julio, in Enrique Oltuski Ozacki et. al. (coords): Memorias de la Revolución, Ediciones Imagen Contemporánea, L’Avana, 2007, pp. 78–91.

[23] Revolución: única salida, in Aldabonazo, Órgano del Movimiento Revolucionario 26 de Julio, no. 1, 15 maggio 1956, p. 1.

[24] Enrique Oltuski Ozacki: Gente del Llano, Ediciones Imagen Contemporánea, L’Avana, 2001, p. 95.