L'eliminazione del capo di Al-Qaeda e le sue implicazioni

 24 agosto 2022

 

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L’uccisione, avvenuta lo scorso 31 luglio in pieno centro della capitale afghana Kabul, del successore di Osama bin Laden, l’egiziano Ayman al-Zawahiri, di professione chirurgo, eliminato seguendo le consuete efferate modalità del modus operandi americano, riveste un significato soprattutto simbolico, dal quale tuttavia seguiti non secondari potrebbero derivare sia sul piano interno afghano sia sotto il profilo degli allineamenti diplomatici nella regione.

Di ciò parleremo più avanti. Per converso quel che ci preme ora porre in rilievo è che la scomparsa di al-Zawahiri non comporterà conseguenze positive sotto il profilo della sicurezza e della stabilità della turbolenta area dove l’assassinio del leader jihadista ha avuto luogo.

I precedenti di analoghe sanguinose iniziative perseguite dal braccio armato degli Stati Uniti parlano chiaro in proposito. L’assassinio dell’iraniano Qassem Soleimani in Iraq avvenuta più di due anni fa e quella, ancor più altisonante, prodottasi in Pakistan più di un decennio fa, del fondatore di al-Qaeda Osama bin Laden, non hanno comportato alcun risultato probante in linea con gli interessi dell’Occidente.

Il contrario è in effetti avvenuto. L’Iran continua a svolgere sul piano diplomatico nonché politico e militare un ruolo, seppur fortemente contestato, di assoluta rilevanza nella regione di appartenenza.

 La Repubblica islamica ha posto fine all’isolamento pluridecennale in cui si trovava relegata fino al momento della conclusione dell’accordo nucleare del 2015 ed ha consolidato in questi ultimi anni rapporti di collaborazione economica e commerciale con i Paesi della regione, in primis gli Emirati arabi uniti, nel mentre il processo negoziale per un allentamento delle tensioni con l’Arabia saudita prosegue il suo corso.

 Al momento sforzi sono prodigati, con gli europei in prima linea, per ridare vita ad una intesa, brutalmente ed unilateralmente denunciata nel 2018 dall’ex-Presidente USA Donald Trump e mai accettata da Israele. La parola finale sull’esito della problematica trattativa spetterà comunque alle decisioni della potenza americana.

Pari discorso si applica al jihadismo sunnita di al-Qaeda che continua ad esser presente ed operante in aree di crisi dello spazio islamico, che si tratti dello Yemen o della Somalia o delle sterminate lande del Sahel africano, senza tralasciare beninteso l’Afghanistan ed il Pakistan.

Le uccisioni di leader jihadisti, succedutesi nel tempo, hanno allungato la scia di sangue, aggravato il clima di incontrollata violenza ma non hanno fornito risultati incoraggianti sotto il profilo politico né hanno scalfito l’intento jihadista di combattere e di reagire contro politiche viste come lesive dell’identità religiosa della Ummah o comunità islamica nelle terre dove è professata la religione del Profeta.

In definitiva il bilancio di tale “short-term policy” si è rivelato nel corso degli anni politicamente fallimentare, innescando nuove e mai sopite spirali di destabilizzante violenza.

 

Accresciuto isolamento afghano nella regione

 

La morte di al-Zawahiri non risulterà comunque priva di incidenze sugli equilibri e sulle dinamiche dell’area più direttamente interessata dall’evento.

Le circostanze che hanno portato all’assassinio di al-Zawahiri non possono non suscitare dubbi ed interrogativi. In effetti da tempo si era a conoscenza di missioni ricognitive effettuate da droni USA nei cieli afghani, attraverso le quali monitorare e studiare i movimenti dell’anziano leader ora assassinato, a riprova, a dispetto di esternazioni in senso contrario, della volontà americana di non abbandonare aree di crisi definite dalla narrativa USA “guerre senza fine”.

 Da queste “guerre senza fine” l’intento non dichiarato della politica americana resta nondimeno quello di cercare di ottenere ex-post vantaggi sotto il profilo geopolitico, in ciò ponendo in essere azioni definite dai Talebani afghani “destabilizzanti” nonché “fallimentari”.

Quel che sta avvenendo in Afghanistan, dopo vent’anni di una guerra tanto calamitosa quanto insensata, conclusasi in modo tutt’altro che esaltante per l’immagine e la stessa credibilità nella più vasta regione degli Stati Uniti, ne fornirebbe l’ennesima prova.  Una guerra terminata che ha lasciato un Paese in rovina ed ha aggravato l’instabilità nel subsistema.

 

Afghanistan - Mappa

 

In proposito è bene ricordare, gettando uno sguardo sulla carta geografica, che l’Emirato islamico dell’Afghanistan, come da un anno si è auto-denominato, non ha sbocchi sul mare, ergo penetrare nel suo spazio aereo richiederebbe a fortiori il coinvolgimento e la collaborazione di altri Paesi dell’area. Quali?

Ebbene tra quelli contigui alla frontiera afghana l’unico verosimilmente disponibile ad autorizzare il sorvolo dei propri cieli appare il Pakistan alla luce se non altro dei recenti rivolgimenti politici ivi prodottisi che hanno portato alla estromissione del Primo Ministro Imre Khan, non in odore di santità con gli USA, e alla sua sostituzione con una leadership avente una inclinazione d’apertura verso l’Occidente, fondamentalmente motivata dal persistente disastrato quadro economico e finanziario pakistano.

Ove tale sviluppo dovesse essere ulteriormente suffragato da fatti di analogo segno, ciò costituirebbe indubbiamente la conferma dello stato alquanto precario della relazione intrattenuta dalla leadership talebana con un vicino del cui determinante aiuto i militanti afghani si sono avvalsi ai fini della conquista del potere a Kabul nell’agosto dello scorso anno.

Il che ben poco gioverebbe ad una leadership politica afghana, tuttora, dopo più di un anno dalla presa del potere, non diplomaticamente riconosciuta dalla comunità internazionale.[1]

Islamabad non ha dal suo canto quasi mai cessato di criticare la leadership politica a Kabul per la scarsa collaborazione fornita nell’opera repressiva contro l’omologo pakistano dei talebani, Tehreek Taliban-e-Pakistan (TTP), temibile formazione jihadista, anch’essa, al pari dei talebani afghani, collegata ad al-Qaeda e che da 14 anni fa pagare un alto tributo di sangue alle forze armate pakistane.

In proposito vi è altresì da segnalare il percepibile peggioramento della relazione intrattenuta da Kabul con il finitimo Iran, che non ha affatto approvato l’esclusione dell’etnia sciita degli Hazara dalla compagine governativa a Kabul. Con Teheran esistono inoltre seri contrasti di natura economica, vertenti principalmente sulla vexata quaestio della gestione delle acque, spinoso contenzioso che avvelena la relazione bilaterale.


 

 Le conseguenze sulla leadership talebana

 

L’assassinio del capo di al-Qaeda probabilmente porterà ad un accrescersi delle tensioni in seno al gruppo dirigente talebano, percorso da divergenze e divisioni.

Esse si erano manifestate fin dal negoziato che doveva portare nel febbraio 2020 alla conclusione del Doha Agreement, stipulato tra gli Stati Uniti ed i Talebani, con un ruolo poco più che marginale riservato all’allora screditato governo afghano presieduto da Ashraf Ghani, figura corrotta e scarsamente rappresentativa, attualmente in esilio dorato negli Emirati arabi uniti.

Il suddetto accordo è rimasto di fatto inattuato, destinatario di una ben scarsa realizzazione, e questo sia per la vaghezza delle sue enunciazioni sia per l’assoluta mancanza di fiducia e covante tensione esistenti tra le due parti: aspetti che costituiscono il lievito indispensabile perché un’intesa possa tradursi nel reale.

Le mal celate divergenze in seno alla leadership talebana hanno anch’esse contribuito all’effettivo fallimento del succitato negoziato diplomatico. Esse sono continuate anche dopo la presa del potere nell’agosto 2021, mettendo a confronto una fazione moderata, ispirata al pragmatismo, maggiormente incline a mantenere canali di contatto con l’Occidente ed un’altra, capeggiata dagli estremisti del “Haqqani Network”, molto vicini ad al-Qaeda, con importanti agganci presso i servizi segreti pakistani, inflessibilmente determinata ad imporre nella prassi sociale una versione estremamente severa del messaggio coranico, punitiva verso le donne, aliena da ogni contaminazione emanante da un mondo occidentale visto come portatore di corruzione e profondamente anti-islamico.

L’esistenza di simili contrasti ha ulteriormente complicato il travagliato e sofferto quadro politico ed economico afghano con tristi conseguenze sulla inerme popolazione civile alle prese con indicibili difficoltà sul piano della mera sopravvivenza.

Contrasti e difficoltà che si sono aggiunti alle deprecate disumane decisioni assunte prima dagli Stati Uniti e quasi contestualmente dagli organismi finanziari internazionali, quali il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, con le quali forme basilari di sostegno economico, finanziario e sociale sono a tutt’oggi venute a cessare, includendovi cibo e medicinali.

E’ come se in questi spazi dell’Asia sud-occidentale si fosse venuta a creare una situazione ad immagine e somiglianza di quella apocalittica costatabile nel più povero Paese del mondo arabo, lo Yemen, anch’esso vittima da sette anni a questa parte delle “benemerenze” occidentali sotto forma di collusioni tutt’altro che occulte con i due Paesi aggressori, l’Arabia saudita e gli Emirati.

L’eliminazione fisica di al-Zawahiri potrebbe dunque alimentare nuove tensioni in seno ai talebani, ricreando nuovamente lo scontro politico tra i “pragmatisti” e la rete Haqqani, quest’ultima a tutt’oggi dominante in seno al gruppo di potere, composto in larghissima maggioranza di membri dell’etnia Pashtun, con buona pace degli impegni presi di garantire dignitose forme di coinvolgimento a favore delle altre componenti etniche del Paese.

Al succitato gruppo di potere, emanante dalla capitale storica del movimento talebano, Kandahar, la seconda città dell’Afghanistan dopo Kabul, dove emerge la figura del Leader Supremo, Habitullah Akhunzada, si rimprovererà la protezione accordata agli elementi di al-Qaeda in ennesima flagrante violazione delle intese stipulate a Doha con la controparte americana un paio di anni fa. [2]

Uno sviluppo comunque appare tutt’altro che improbabile: in mancanza di una politica da parte delle cancellerie, innanzi tutto occidentali, volta a creare le condizioni per un dialogo costruttivo con la dirigenza talebana, che riservi una dignitosa considerazione anche ai bisogni vitali della comunità afghana, l’Afghanistan, dove la povertà endemica ha preso il posto della violenza endemica, appare destinato a diventare un luogo dove l’estremismo jihadista troverebbe il modo di prosperare e consolidarsi, aggravando il già deprecabile quadro di tensione, instabilità e vulnerabilità attualmente costatabile nella regione[3].

Ovunque predominino il caos, la violenza e la latitanza delle istituzioni, il jihadismo militante consolida e rafforza la sua ragion d’essere, creando sinergie con i clan politici più vicini alla propria dirompente ideologia, costatazione confermatasi nelle varie aree di crisi che da decenni avvelenano lo spazio islamico.

Di tale possibile involuzione ovviamente non sarebbe solamente l’Afghanistan a patire le conseguenze ma anche altre entità, limitrofe e non, esposte ai colpi di una militanza islamista a dimensione globale.

 

Quali i seguiti per al-Qaeda?

 

La formazione fondata da Osama bin Laden nel 1988 nel bel mezzo dello scontro in Afghanistan tra le truppe sovietiche ed i mujaheddin ha dimostrato da allora la capacità di reagire e sopravvivere ai colpi subiti nel corso dei decenni passati.

L’uccisione nel 2011 in Pakistan del suo fondatore ad opera di un commando americano non ha sortito in effetti i risultati sperati dal controterrorismo internazionale. Al-Qaeda ha continuato ad imperversare in vari luoghi dello spazio islamico, dal Sahel africano sino al sud - est asiatico.

I terribili effetti prodotti in Yemen dal controterrorismo USA ai danni della locale branca di al-Qaeda ( AQAP )  sotto la Presidenza Obama hanno indubbiamente indebolito ma non sconfitto la formazione jihadista in grado non solo di mantenere il controllo di aree del territorio yemenita ma perfino di allacciare importanti sinergie con le forze della coalizione filo-saudita nell’implacabile conflitto con la tribù sciita araba degli Houthi, sostenuta dall’Iran.

Pari discorso vale particolarmente per il Sahel e la Somalia in Africa dove formazioni collegate ad al-Qaeda governano estesi territori, stabilendo, come nel succitato Yemen, sinergie e contatti con le locali realtà tribali.

In effetti in ciò risiede la loro forza e la loro capacità. Il saper radicarsi nel territorio, allacciando fruttuosi rapporti con soggetti al di fuori dell’areopago jihadista.

In questa sua proiezione al-Qaeda si differenzia profondamente dall’altra formazione dell’estremismo sunnita, l’ISIL (Islamic State in Iraq and in the Levant), fondata nel 2014 dall’iracheno Abu Bakr al-Baghdadi. Da essa al-Qaeda è divisa da una cruenta profonda rivalità e da una contrapposizione in chiave ideologica.

In effetti il modus operandi dell’ISIL si caratterizza per la violenza della sua azione attraverso l’imposizione di regole e dettami che non tengono conto dei tratti peculiari delle realtà sottoposte al suo dominio. Esso obbedisce infatti alle parole d’ordine emananti da un apparato di comando centralizzato operante in Medio oriente che non ammette se o ma, venato di una matrice settaria ed esclusivista che trae la sua origine dalla degenerata interpretazione wahabita del messaggio coranico.

Il contrasto insanabile con l’ISIL ha costituito uno dei tratti salienti del retaggio politico trasmesso dal defunto al-Zawahiri, che non ha mai mancato di evidenziare come profondamente errata e “deviante” si rivelasse l’azione della formazione rivale, handicappata a suo giudizio dal morboso settarismo sunnita caratterizzante il credo wahabita professato nel regno saudita che la porta a considerare gli sciiti i veri nemici da abbattere, addirittura più di Israele (!).

Sulla base di queste considerazioni siamo dunque portati a ritenere che l’assassinio del successore di bin Laden non costituirà un colpo fatale per al-Qaeda. La struttura decentrata della sua organizzazione che le consente, come abbiamo visto, di trarre lievito ed alimento dagli apporti delle realtà locali nonché di operare in un quadro di autonomia operativa inesistente nello schieramento rivale dell’ISIS rappresenta una base sufficiente per il perseguimento della sua battaglia volta a colpire tutti coloro visti come usurpatori dei valori islamici.

Né si possono passare sotto silenzio la coerenza e la flessibilità del suo messaggio ideologico, scaturito dalle ceneri del fallimento del nazionalismo arabo di stampo nasseriano, propenso ad incanalare il proprio modus operandi tenendo conto sia dei mutamenti intervenuti nel quadro reale sia delle differenziate esigenze emananti dal particolare contesto nel quale la militanza jihadista è chiamata ad operare.

Questo rimarrà il retaggio fondamentale del messaggio politico di al-Zawahiri, perseguito in modo fermo e coerente, nel quale si evidenzia la necessità, definita “strategica”, di stabilire contatti e sinergie con le comunità con le quali la formazione jihadista è chiamata ad interagire.

Le differenze sopra delineate tra le due principali formazioni estremiste potrebbero altresì spiegare il diverso approccio nei confronti di al-Qaeda tenuto dagli occidentali rispetto al cosiddetto, già menzionato, “asse anti-egemonico” per il quale il vero pericolo sarebbe rappresentato dall’ISIL, visto da alcuni ambienti all’interno ed all’esterno del mondo islamico addirittura come “l’obiettivo alleato dell’Occidente”, e non dalla formazione fondata da Osama bin Laden.

 

Conclusioni

 

L’onda destabilizzante del jihadismo estremista non si fermerà a causa dell’assassinio di un leader, come già avvenuto in occasione di altre analoghe cruente evenienze.

Al contrario, a parere, a nostro avviso difficilmente confutabile, di alcuni analisti, essa potrebbe fornire lo sprone per radicalizzare l’implacabile contrapposizione contro non solo quelle entità appartenenti alla regione ritenute colpevoli di imporre regole di vita in discrasia con i valori dell’Islam ma altresì con quelle potenze esterne che da più di un secolo hanno condizionato e continuano inflessibilmente e pesantemente a condizionare il divenire e la sostenibile crescita materiale e culturale delle comunità ivi residenti.

Il timore espresso da alcuni commentatori, tutt’altro che inverosimile, è che l’eliminazione fisica di al-Zawahiri possa provocare per converso un consolidamento dei rapporti tra i Talebani ed al-Qaeda, rapporti in realtà mai cessati, rendendo possibile quel che è l’incubo delle cancellerie occidentali e dei paesi limitrofi dell’Afghanistan ovverossia che quest’ultimo divenga il terreno propizio perché da esso prenda inizio una campagna terroristica suscettibile di colpire obiettivi nella più vasta regione.

Quel che sta avvenendo alla frontiera con il Pakistan ne costituisce eloquente conferma. In quei desolati spazi la già accennata formazione pakistana del Tehreek Taliban -e- Pakistan (TTP), con la quale, elemento di assoluto rilievo, i Talebani afghani sono partecipi della stessa matrice ideologica,  viene a trovarsi ora in una posizione di forza nei confronti di forze governative, indebolite e demotivate, in un quadro politico interno avvelenato dalla repentina estromissione di Imran Khan, un leader visto con favore per il suo vibrante populistico nazionalismo in larghi settori della società pakistana.

Secondo fonti attendibili l’obiettivo dei jihadisti pakistani sarebbe addirittura quello di pervenire alla nascita di un nuovo emirato che vedrebbe la luce nelle aree, di fatto fuori controllo, prospicienti la frontiera settentrionale con l’Afghanistan.

Dallo scorso giugno una mediazione orchestrata dai talebani afghani è faticosamente in corso tra il governo pakistano e la formazione jihadista del TTP senza che a tutt’oggi risultati apprezzabili siano stati conseguiti.

 

Resta il fatto che una situazione, pericolosamente fuori controllo, continua ad avvelenare il clima alla frontiera tra i due Paesi dove scontri e fatti di sangue si succedono con una certa frequenza.

Ultimo in data è stato l’assassinio di uno dei principali leader del TTP, Abdul Wali Khurasani, ritenuto colpevole di aver scatenato una sanguinosa campagna di attentati contro l’esercito pakistano, prodottosi in circostanze poco chiare lo scorso 8 agosto in Afghanistan a pochi chilometri dal confine pakistano.

L’ennesimo cruento evento, intervenuto a pochi giorni dall’assassinio di Zawahiri, potrebbe costituire un colpo micidiale al suaccennato processo negoziale, allargando verosimilmente le aree di violenza, in un Paese di 230 milioni di anime, come il Pakistan, potenza nucleare, dove al momento una esplosiva crisi politica viaggia di concerto con una gravissima crisi economica. [4]

 

Waziristan - Wikipedia

Lo spazio verde indica il Waziristan dove l’estremismo jihadista pakistano ha i suoi punti di forza

 

Vi è infine da rilevare come un altro Paese finitimo dell’Afghanistan, la Cina, condivide i timori che il nuovo Emirato islamico possa divenire la base di appoggio ideale per dar vita ad azioni destabilizzanti all’interno del suo spazio territoriale.

Il riferimento è alla formazione dell’East Turkestan Islamic Movement (ETIM), legato anch’esso da stretti rapporti con i Talebani, rivendicante la creazione di un Emirato nella regione cinese del Xinjiang, composto da militanti dell’etnia Uyghur, circa 25 milioni di anime praticanti, come altre comunità dell’Asia centrale, un idioma affine alla lingua turca.

 

Xinjiang | History, Map, Population, People, & Facts ...

 

L’interesse di Pechino è quello di contribuire ad un quadro di più appagante stabilità politica nel finitimo Paese islamico. Il che consentirebbe alla Cina di valorizzare le ingenti risorse energetiche, quali il litio e minerali rari, di cui dispone l’Afghanistan.

Né per ultimo si può dimenticare, parlando dell’agitato contesto afghano, che esso è teatro da tempo di un’altra campagna terroristica portata avanti dalle milizie dell’ISIS-Khorasan, la filiale afghana della formazione fondata da al-Baghdadi, ben presenti ed attive non solo nel nord e nell’est del Paese ma anche nella stessa capitale Kabul, dove la sua azione indiscriminata e di cieca barbara violenza, che non risparmia civili innocenti, figure religiose, moschee e minoranze etniche, continua ad insanguinare il suolo afghano.

Come si può notare si è in presenza di una miscela esplosiva, all’interno ed all’esterno dell’Afghanistan, dove ormai la dimensione globale del militantismo jihadista nelle sue varie articolazioni non è più da dimostrare.

Eliminare un obiettivo, seppur mediaticamente altisonante come il leader di al-Qaeda, peraltro privo di un reale potere, non porterà a risultati probanti per l’antiterrorismo occidentale.

Come già accennato la stessa struttura organizzativa della formazione jihadista, contraddistinta da autonomi centri operativi disseminati in Africa, Asia e Medio Oriente rende alquanto sterile il “ritorno” in termini politici della cruenta operazione.

Al contrario il contraccolpo che da essa si teme è reale. Basti pensare alla messa in guardia indirizzata ai cittadini USA nel mondo perché osservino ogni possibile cautela a fronte di quel che potrebbe apparire come una rappresaglia sanguinosa per vendicare la morte dell’anziano leader.

Il senso di insicurezza ed il clima di violenza difficilmente diminuiranno come conseguenza dell’uccisione di un capo. I leader scompaiono ma la struttura e le motivazioni ideologiche rimangono e resistono all’usura del tempo.

Quanto descritto suona in definitiva come una ulteriore ossessiva ripetizione di quel che è stato fatto in Afghanistan per lunghi venti anni conclusosi, come abbiamo visto, con un fallimento totale.

Fallimento che ha inferto gravi colpi alla credibilità degli Stati Uniti, dei quali Washington sta pagando un caro prezzo anche presso le autocrazie arabe dell’area del Golfo, da qualche tempo portate a riservare scarsa considerazione alle priorità della policy americana.

Fallimento che sembra una copia conforme di quel che costatiamo in altri luoghi, quali l’Iraq, la Libia e lo Yemen dove il risultato percepibile è il disordine ed il caos nonché la latitanza delle istituzioni.

Ed a proposito della uccisione di Ayman al-Zawahiri non mancano voci critiche anche da parte americana volte ad attenuare il senso di euforia riscontrabile nelle alte sfere a Washington per aver eliminato una figura fisica, simbolicamente rilevante, con un indubbio effetto mediatico ma con scarse risultanze in chiave politica.

Come per dire: meglio mantenere i piedi per terra piuttosto che saltare di gioia. A meno che le manifestazioni di giubilo traessero la loro ragion d’essere dai desiderati “ritorni” collegati alla scadenza elettorale americana del prossimo novembre.

Ulteriore esempio di un’inguaribile arrogante miopia politica dei cui deleteri effetti quella parte del mondo continua tuttora a pagare l’amaro crudele prezzo.

 

 

·       AngeloTravaglini, diplomatico in pensione. Membro del Comitato Scientifico del CIVG

 



[1]L’unico formale rapporto col mondo esterno vantato da Kabul è al momento costituito da una rappresentanza politica operante a Doha, nell’Emirato di Qatar che come noto intrattiene da tempo relazioni con la dirigenza talebana.

[2]Kandahar appare essere la effettiva capitale politica del Paese. Le due più importanti riunioni a livello politico, presiedute da Akhunzada, svoltesi finora in questo primo anno di governo talebano, hanno infatti avuto luogo in quella città, in una sorta di riedizione storica di quanto prodottosi nel 18° secolo quando Kandahar era la capitale dell’allora Impero afghano.

[3] L’atteggiamento occidentale verso Kabul diverrà verosimilmente più intransigente dopo l’assassinio di al-Zawahiri. Questo farebbe risaltare il diverso porsi dello schieramento anti-occidentale, in primis della Cina e della Russia, che da qualche tempo hanno creato canali di contatto informali con la dirigenza talebana prefiguranti possibili forme di cooperazione economica con l’Emirato. L’inasprimento delle tensioni con l’Occidente del suddetto schieramento, il cui grado di sinergia al suo interno si è conseguentemente elevato, potrebbe favorire un graduale avvicinamento del cosiddetto “asse anti-egemonico” verso Kabul nel quadro di politiche dettate dal reciproco vantaggio. Il che non lascerebbe comunque prevedere, perlomeno nel breve termine, un riconoscimento formale del regime islamista.

[4] La polarizzazione politica ora costatabile in Pakistan ha raggiunto tale soglia di gravità quando si pensi che l’attuale capo del governo Shabaz Sharif è il fratello dello screditato leader Nawaz Sharif, estromesso nel 2017 dal quadro politico nazionale per il clima di corruzione e malaffare che aveva contraddistinto la sua gestione. In effetti la popolarità di cui gode Imran Khan nel Paese è accresciuta dalla percezione presso settori della società che la sua estromissione abbia consentito il ritorno ad un passato politico aborrito, caratterizzato dal potere delle “grandi famiglie”.