Viaggio nella Repubblica Araba Sahrawi Democratica

Con questo primo articolo comincia la collaborazione di G. Zampiero ( giornalista e fotoreporter ) con il CIVG, che sarà il referente del Centro per la questione sahrawi e per alcuni progetti legati alla resistenza di quel popolo, sempre meno considerato dai media occidentali.

  

La mia esperienza nei campi profughi Sahrawi, nasce da un desiderio di conoscenza e da un istinto primordiale che mi porta da sempre ad avvicinarmi a le realtà più remote e dimenticate nel sud del mondo.

Uno sguardo che si perde nella luce accecante del sole del deserto e si fa strada tra la polvere rossa come il sangue e rovente come un fuoco che non cessa di ardere. Un popolo quello Sahrawi che ha conosciuto una colonizzazione, una guerra, l’invasione e infine l’esilio. La loro storia ha radici antiche e profonde, un popolo che ha fatto del deserto la propria dimora, nomadi viaggiatori hanno ancora nei loro occhi la voce dell’eterno, e con orgoglio e dignità portano avanti la loro esistenza silenziosa. Provenienti dallo Yemen, giungono nella regione dopo aver attraversato il Nord Africa nel XIII secolo, fondendosi poco a poco con la popolazione locale di lingua berbera. Trovarono nelle terre del Sahara occidentale, sulle coste dell’Atlantico, una terra fertile e un mare pescoso. Costruirono le prime città rudimentali e mentre una parte della popolazione continuava a percorrere le antiche vie del commercio verso il Mali e la Mauritania carichi di mercanzie colorate e profumate, un'altra fetta della popolazione trovava riposo in una vita sedentaria. Divenuta ormai una popolazione semi-nomade continuarono pertanto a mantenere le antiche tradizioni tribali di un tempo, fino a quando non arrivò anche per loro l’epoca delle grandi invasioni europee del ‘900, la colonizzazione. Gli spagnoli da subito imposero il loro dominio, la loro lingua e le loro leggi rendendo questa gente non più padroni della loro terra e del loro destino. Iniziò così, da parte degli invasori, lo sfruttamento massivo dei frutti della terra. Si scoprirono importanti giacimenti di fosfati cosi che presto questa terra, fino a quel momento ignorata, divenne un centro di interesse per le potenze circostanti: Marocco e Mauritania. A partire dagli anni 50, il Marocco rivendica il suo progetto espansionistico chiamato “Grande Marocco” che comprendeva il Sahara Occidentale, Mauritania e parte dell’Algeria e del Mali. Lo stesso farà la Mauritania rivendicando anch’essa il Sahara Occidentale. Inizia cosi l’odissea di questo popolo che ha visto sfumare le loro speranze e distruggere i loro sogni costruiti con la fatica e con il sudore.  Nel 1975, la Spagna lascerà i territori del Sahara Occidentale, quando il diritto all’autodeterminazione del popolo Sahrawi è riconosciuto dall’Alta corte di Giustizia dell’Aia. Il processo di decolonizzazione lascerà libero il campo alle altre contendenti e, un anno più tardi inizierà l’invasione marocco-mauritana. Nello stesso anno però, il Fronte Polisario proclama la Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD), riconosciuta da 80 paesi e ammessa come stato membro dell’Oua nell’ottanta. Si intravede uno spiraglio quando nel 1979 la Mauritania decide di abbandonare i territori occupati a seguito della pressione della lotta armata del Fronte Polisario che prenderà in seguito il pieno possesso dei territori liberati. La guerra si fa più cruenta con il Marocco che, assolutamente non intenzionato a ritirarsi, porterà avanti una colonizzazione di popolamento e una politica repressiva. Lo scontro raggiungerà il suo apice che si concluderà con la costruzione di un muro che taglia tutt'oggi in due questa terra longitudinalmente, come una cicatrice che non si è ancora rimarginata. Sono ormai più di 35 anni che è impossibile ogni tipo di contatto tra le due parti del muro e migliaia di famiglie sono costrette a vivere un esistenza spezzata. Le trattative diplomatiche da allora si sono susseguite senza nessun risultato concreto nonostante la creazione di una missione speciale delle Nazioni Unite nel 1991, la MINURSO. Questa aveva come compito di promuovere un referendum binazionale nel Sahara Occidentale per stabilire le regole e i tempi della consultazione ma il Marocco non ha mai espresso il suo impegno in questo senso.

Il mio viaggio attraverso questo popolo si è incentrato soprattutto nei territori concessi dall’Algeria nel sud-ovest del paese e destinati alla creazione di campi profughi destinati ad accogliere le 300.000 persone sopravvissute all’esodo dai territori occupati. Ed è appunto la sopravvivenza il pane quotidiano che queste persone ingeriscono ogni giorno. Questi accampamenti si estendono per chilometri in pieno deserto Algerino dove la situazione è tremendamente difficile e la giornata si svolge essenzialmente alla ricerca di un impiego per non cadere nella disperazione e la desolazione. Quei pochi ragazzi che non hanno aderito alla lotta armata sono costretti a vagare per le vie sabbiose dei campi aspettando il tramonto, e un altro giorno uguale al precedente, e cosi lo stesso scenario da più di trent’anni. Le donne invece sono immerse nei lavori di casa, l’allevamento dei figli e del bestiame ma trovano sempre il momento di sorseggiare un tè con noi ospiti graditi. Veniamo accolti con un sorriso ironico e forse un po’ beffardo come di chi, in trent’anni, ha sentito molte promesse e molte domande, poche risposte e lo stesso sguardo rassegnato di sempre. Nonostante questo si respira nell’aria carica di sabbia e filtrata dal turbante, un profumo di speranza come un vento che accarezza il cuore e che non ha mai cessato di riscaldare gli animi di questa gente, che mantiene ancora la fierezza dei loro antenati berberi, gli austeri uomini del deserto

La sopravvivenza nei campi profughi è invece garantita essenzialmente dagli aiuti umanitari che, oltre ad inviare beni di prima necessità, collabora a la costruzione di orti educando la gente all’agricoltura, anche se, le condizioni climatiche e la scarsità di acqua rende il progetto molto precario. I campi sono strutturati in 4 province (Wilayas) e 25 comuni (Dairas) e tre scuole residenziali. I nomi degli accampamenti: Smara, Dakhla, Ausserd e Al-Ayoun, riprendono i nomi delle città occupate nel Sahara Occidentale a simboleggiare il legame profondo ad un passato comune tenuto in vita dalla forza del ricordo e della speranza. Ed è proprio questo che dona forza al popolo Sahrawi, unico esempio di autorganizzazione di profughi, altrove affidata ad organismi internazionali o ad organizzazioni umanitarie. Qui, in una delle parti più inospitali del deserto del Sahara, il Fronte Polisario si impegna ad organizzare la vita nei campi, in modo che sia la popolazione a prendere in mano gli aspetti principali della vita. La distribuzione degli aiuti alimentari, la salute e l’educazione sono affidati ai comitati popolari, formati prevalentemente da donne. Mentre tutti sembrano avere il loro posto nella società, i bambini dal canto loro sono abbandonati a se stessi. Ma non mi voglio soffermare sul senso negativo del termine perché nei campi, i bambini, non sembrano correre alcun rischio e vivono gran parte della giornata giocando per le strade con vecchi rottami, carcasse di macchine, palloni bucati e sgonfi, mai stanchi di correre, un’incessante curiosità e quella sana ingenuità che rimane nel cuore di chi cresce nella semplicità e in totale libertà. Si è vero, sembrerà un paradosso parlare di libertà ma è stato proprio questa la sensazione che mi ha avvolto allorquando mi sono ritrovata circondata da una mandria di bambini vivaci e dispettosi, sorridenti e timidi, incuriositi dalla mia pelle chiara e la mia lingua bizzarra. Venivo derisa ogni qual volta cercavo di comunicare con quel poco di arabo che conosco e allora mi sono resa conto di essere un’estranea, accolta con tutti gli onori di chi arriva per fare informazione, ma sempre e comunque un’ ospite, e che, lì in pieno deserto, sono loro i padroni dei loro destini e gli unici a poter essere in grado di cambiare realmente le cose. Con queste foto ho voluto cogliere l’altra faccia della medaglia, quella che non parla di violenza, di povertà, di sofferenza e rassegnazione ma ho voluto raccontare un popolo che è ancora capace di ridere, di giocare, di cantare, apprezzare i piccoli momenti della vita, in una parola sola: la quotidianità. 

…”una strana esperienza di immobilità. I giorni passano un granello dopo l’altro misurati da una clessidra di sabbia paziente, sono talmente lenti che si perdono sul calendario…” Isabel Allende.

Quella dei Sahrawi continua ad essere ancora oggi una delle tante vicende perse e dimenticate nei sotterranei del mondo ma l’impegno e la solidarietà del mondo occidentale che osserva impotente e troppo spesso impassibile, è di estrema importanza per dare un contributo alla soluzione equa di questo conflitto che dura ormai da troppi anni e che rischia di cancellare per sempre un intero  popolo.