Asse del male o asse del petrolio?

Tony Blair, il più fedele alleato di George W. Bush, ha presentato alla Camera dei Comuni un dossier per avvalorare la pericolosità di Saddam; ma il primo ministro inglese non ha convinto, confermando indirettamente l’opinione di Condoleezza Rice secondo la quale non c’è bisogno di provare la colpevolezza dell’Iraq. Non si sbaglia. Per giustificare una guerra contro Saddam è sufficiente sapere che Baghdad possiede la seconda riserva di petrolio della terra dopo l’Arabia Saudita. Intanto, un ex ispettore ONU ha svelato che…

 

Quasi sempre si dimentica che il groviglio di tragiche contraddizioni che lacerano oggi il Medio Oriente è la conseguenza di due secoli di imperialismo francese, inglese ed americano.

Interpretare la storia e l’attualità del Medio Oriente trascurando l’esistenza del petrolio è come voler scrivere la storia di Torino dimenticando l’influenza decisiva della Fiat negli eventi della città. Come scrisse anni orsono Filippo Gaja, “tutta la legalità del Medio Oriente è stata costruita con l’illegalità, la prevaricazione e la violenza. Le frontiere non sono che righe immaginarie che attraversano il deserto, tracciate dopo estenuanti mercanteggiamenti e continue cancellazioni con riga, compasso e matita, in base ad imperativi arbitrari dettati da calcoli economici totalmente estranei agli interessi dei popoli che, del resto, nessuno si è mai sognato d’interpellare. L’inchiostro con cui questa storia tragica è stata scritta negli ultimi cento anni è il petrolio”.

Oggi, invece, ci spiegano che l’intervento armato contro l’Iraq è necessario perché Saddam Hussein, occultando pericolose armi non convenzionali, costituisce un pericolo per il mondo intero, e perché occorre finalmente portare la democrazia al popolo iracheno e a seguire in tutto il Medio Oriente.

Anche se le motivazioni sinora addotte per giustificare l’attacco non si discostano poi molto da quelle che in passato i regimi liberali e fascisti usavano per legittimare le imprese coloniali, è interessante notare che questo nuovo diritto dell’Occidente all’ingerenza democratica è invocato per i paesi del Medio Oriente, proprio mentre nei paesi del Nord del mondo assistiamo ad uno straordinario attacco alle libertà e ai diritti democratici fondamentali in nome della globalizzazione, della governabilità, dei parametri di Maastricht, del pericolo terrorista, ecc.

 

SADDAM, BIN LADEN E LA GUERRA INFINITA

La guerra in Afghanistan e il completo fallimento del dichiarato proposito di catturare vivi o morti Bin Laden e il fantomatico mullah Omar hanno reso ancor più evidente che l’obiettivo delle operazioni militari progettate dagli USA sotto il nome di Enduring Freedom non hanno nulla a che vedere con la guerra al terrorismo internazionale.

Come il presidente Clinton con i bombardamenti sull’Iraq riusciva a sviare l’attenzione dell’opinione pubblica americana dalle sue prestazioni extra politiche, così Bush jr, agitando tempestivamente gli spauracchi di Bin Laden e di Saddam Hussein, riesce a garantire enormi flussi di denaro all’industria bellica statunitense e tenta di far passare in secondo piano gli scandali finanziari in cui membri autorevoli della sua amministrazione sono ampiamente coinvolti.

La guerra infinita che Bush jr ha garantito al mondo non è però solo l’ennesimo stratagemma per coprire difficoltà di politica interna e per tentare di risollevare l’economia americana da una ormai cronica recessione.

Non è un caso che due degli stati canaglia nel mirino degli USA, Iraq ed Iran, bollati da Bush jr nel suo discorso del 29 gennaio scorso sullo Stato dell’Unione come asse del male, siano anche importanti paesi produttori di petrolio.

Si diceva una volta che chi controlla il Golfo, controlla il mondo. Oggi, il dominio delle risorse energetiche dell’Asia Centrale, che con quelle del Medio Oriente rappresentano circa i due terzi delle risorse del nostro pianeta, è un obiettivo imprescindibile per chi come gli USA vogliono che il XXI secolo sia ancora un secolo americano.

Per un paese che aspira alla dittatura globale, l’intervento in Afghanistan era perciò necessario non solo per insediare un fedelissimo come Karzai al governo del paese, ma soprattutto per piazzare per la prima volta alcune basi militari nelle repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale che, oltre ad essere una spina nel fianco di Iran e Cina, potrebbero diventare utilissime per l’attacco all’Iraq nel caso probabile di un rifiuto dei paesi arabi amici ad offrire le loro basi per tale operazione.

Gli eventi dell’11 settembre 2001 e ciò che n’è seguito, il diritto alla legittima difesa, il diritto alla rappresaglia da tutti riconosciuti ed approvati con risoluzione dell’ONU 1368 del 12 settembre 2001, sono serviti da pretesto per fornire una parvenza di legittimità ad un nuovo capitolo della vecchia e mai dimessa politica delle cannoniere. Esemplari a tale proposito le affermazioni del consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice. “Per l’Iraq non c’è bisogno di prove: Saddam è un individuo pericoloso”.

Se per l’Iran si sta ancora battendo la via diplomatica, per l’Iraq gli USA hanno ormai scelto quella militare.

RAFFREDDARE IL CONFLITTO PALESTINESE

Nell’editoriale del 22 aprile scorso il Washington Post si rammaricava che gli USA non possano attaccare a loro piacimento l’Iraq senza avere alle spalle il consenso di tutti gli arabi.

Certamente per gli USA è un problema entrare in conflitto contemporaneamente con due popoli arabi, quello palestinese e quello iracheno, senza creare tensioni irreparabili fra le masse popolari di quei paesi come l’Egitto, l’Arabia Saudita, la Giordania, i cui governi sono considerati moderati solo perché asserviti agli interessi occidentali.

Gli USA non hanno nulla da offrire se non un temporaneo raffreddamento del conflitto israelo-palestinese, giusto il tempo occorrente per una guerra che porti ad un cambiamento di regime in Iraq. Una volta neutralizzato Saddam, potranno delegare nuovamente a Sharon, Netanyahu o Peres la soluzione finale del problema palestinese.

La ricerca di alleati interni ed esterni all’Iraq, la scelta all’interno dell’inconsistente e litigiosa opposizione irachena d’una testa di legno che garantisca in futuro gli interessi americani, la risistemazione territoriale del Medio Oriente e il consenso dell’opinione pubblica americana e mondiale a questa nuova operazione di polizia coloniale, sono tutte questioni che gli USA debbono definire prima dell’intervento armato.

Per mascherare la divisione dell’Iraq in tre piccoli stati più controllabili e più deboli economicamente e militarmente, per il dopo Saddam si prospetta una soluzione federalista che permetta “alle etnie sciite, sunnite e kurde di vivere insieme senza la prevaricazione di una di esse, evitando però che l’autonomia si trasformi in indipendenza, il che nel caso dei kurdi potrebbe compromettere un aiuto militare turco”, come spiega l’ex segretario di Stato Henry Kissinger.

In realtà si vuole evitare che in futuro l’Iraq possa tornare ad essere una potenza regionale concorrenziale e ostile ad Israele. Perciò fra gli aspiranti alla guida del futuro Iraq troviamo tale Al Sharif Alì Bin Al-Hussein, parente del re di Giordania e quindi esponente hascemita. Cioè di quella monarchia che governò l’Iraq con una politica completamente subalterna agli interessi britannici sino al 14 luglio 1958, quando tutto il popolo iracheno insorse, fucilò la famiglia reale, linciò il primo ministro Nuri Al-Said considerato “più inglese degli inglesi”, e proclamò la repubblica.

LA CROCIATA MASS-MEDIATICA

L’amministrazione Bush jr è divisa al suo interno fra coloro che intendono attaccare l’Iraq infischiandosene dell’opinione degli alleati, e quanti ritengono invece che si debba ricercare il consenso più ampio, soprattutto tra i governi europei. Questi però, consapevoli della contrarietà alla guerra della maggioranza dell’opinione pubblica, si nascondono dietro una risoluzione dell’ONU che avalli l’intervento armato contro l’Iraq.

Non esistendo al momento la prova del coinvolgimento iracheno negli eventi dell’11 settembre né tanto meno un collegamento con Al Qaeda, per convincere l’opinione pubblica dell’urgente necessità della guerra contro l’Iraq, è iniziata una martellante crociata mass-mediatica consistente nella quotidiana scoperta di fabbriche e depositi di sostanze chimiche, batteriologiche e nucleari pronte per essere usate contro tutto l’Occidente.

Il copione che si sta realizzando è quasi simile a quello che portò all’intervento della NATO in Jugoslavia: il 15 gennaio 1999 venne confezionato dall’UCK l’eccidio di Racak che provocò la generale indignazione dell’opinione pubblica che così diventò favorevole all’intervento armato. Il 6 febbraio si mise in scena la farsa dei colloqui di pace di Rambouillet con condizioni talmente vessatorie ed inaccettabili per la Serbia che in pratica equivalsero ad una dichiarazione di guerra.

ALLA RICERCA DI UN CASUS BELLI

Per l’Iraq si sta costruendo il casus belli. La richiesta di ispezioni incondizionate corrisponde già alla farsa di Rambouillet.

E’ opportuno ricordare che, verso la fine dell’ottobre 1997, il governo iracheno bloccò alcune ispezioni dei commissari dell’UNSCOM (United Nations Special Commission) ai palazzi presidenziali e alla sede dei servizi segreti, peraltro già perquisiti più volte, avendo il sospetto che l’obiettivo delle visite non rispecchiasse gli scopi della risoluzione 687, ma che fosse quello di scoprire il sistema di sicurezza a protezione del presidente dell’Iraq. Il governo di Baghdad, nel riconfermare l’intenzione di continuare a collaborare con l’ONU, richiese però l’allontanamento degli ispettori di nazionalità USA.

Nei mesi successivi gli USA fecero pressioni sui loro alleati per trovare consenso e collaborazione per risolvere militarmente la controversia. Quando ormai la guerra sembrò inevitabile, il segretario dell’ONU Kofi Annan, su pressione di molti governi, il 22 febbraio 1998 volò a Baghdad e strappò in extremis un accordo. Alcune richieste irachene, come quella di iniziare a discutere una data certa per la fine dell’embargo, vennero prese in considerazione e si stabilì la continuazione delle ispezioni dell’UNSCOM, accompagnate da diplomatici di varie nazionalità nominati direttamente da Kofi Annan.

Due mesi dopo, gli ispettori più sensibili alle esigenze degli USA accusarono i diplomatici nominati dal segretario dell’ONU di intralciare le ispezioni e in taluni casi di sostenere addirittura il punto di vista delle autorità irachene.

Nell’agosto 1998, l’Iraq sospese nuovamente la collaborazione con gli ispettori reclamando una discussione sulla fine dell’embargo. A fine mese, le tensioni all’interno dell’UNSCOM sfociarono nelle dimissioni del più discusso fra gli ispettori: l’ufficiale dei marines William Scott Ritter. Nel corso d’una trasmissione televisiva, Ritter rivelò che gran parte della commissione, compreso il capo degli ispettori l’australiano Richard Butler, lavoravano per la CIA ed Israele. Paradossalmente l’Iraq, cui competevano le spese delle ispezioni, pagava per essere spiato!

Nel dicembre 1998 gli ispettori di Butler lasciarono definitivamente Baghdad sostituiti dai bombardieri anglo-americani, e la questione delle ispezioni è rimasta a tutt’oggi nella medesima situazione di allora. L’Iraq chiede di affrontare non solo il problema delle armi, ma anche quello della durata dell’embargo, del ristabilimento della sovranità su tutto il paese e dell’eliminazione delle no fly zone. Gli USA puntano solo all’intervento militare per ripristinare quel dominio sul petrolio arabo che le nazionalizzazioni dei primi anni Settanta gli avevano tolto.

Prossima fermata, Teheran.      

 

Torino, 11 settembre 2002

Pubblicato su MISSIONI CONSOLATA - dicembre 2002