Importanti sviluppi sulle due sponde del Mar Rosso

14 marzo 2021

 

          

  Evoluzione inarrestabile

   

     Le distinzioni dettate dalla geografia e dagli spazi territoriali non corrispondono più alla realtà politica scaturita dall’intreccio sempre più profondo delle relazioni createsi tra le due sponde di un mare ricco di storia millenaria.

      E’ quanto si è prodotto sulle due rive del mar Rosso, uno spazio marino che separa due continenti, l’Asia e l’Africa, ma che oggigiorno l’inarrestabile progresso della tecnologia, unitamente ad un quadro politico internazionale scosso da tensioni e confliggenti disegni di dominio, hanno contribuito a che una sorta di inarrestabile “spillover” avesse luogo creando un subsistema condiviso tra gli attori appartenenti a due regioni, la Penisola arabica ed il Corno d’Africa.

       In definitiva quel che si può affermare in conseguenza di quanto sopra delineato è che i tragici eventi prodottisi lo scorso novembre in Etiopia con la messa a ferro e fuoco della provincia del Tigray hanno toccato da vicino anche le entità facenti parte dell’altro versante del Mar Rosso, in particolare l’Arabia saudita e gli Emirati, senza peraltro escludere l’emirato di Qatar in rivalità con i due succitati Paesi.

       Si può dunque affermare che dal punto di vista geopolitico il Medio Oriente ed il Corno d’Africa fanno ormai parte di uno stesso spazio dalle interrelate ramificazioni? In base a quel che è dato di osservare ed a quel che ha favorito tale evoluzione la risposta non può che essere affermativa.

       L’evoluzione delineata, tuttora non sufficientemente carpita dalle cancellerie occidentali, è che il deteriorarsi del quadro politico e di sicurezza nel Corno non potrà più non interessare e non incidere sugli stessi equilibri nella Penisola arabica non solo per le interrelazioni createsi ma anche per i seguiti che da ogni guerra o conflitto in Africa orientale inevitabilmente potrebbero derivare in Paesi la cui logica di dominio a dire il vero non ha finora contribuito in maniera visibile ad una più sostenibile e duratura stabilità nella tormentata vicina area est-africana.

        Il dramma etiopico

 

      Quel che si è prodotto in Etiopia ha costituito nelle sue tragiche enucleazioni la conferma di come due spazi geograficamente distinti e separati siano al contempo divenuti un assieme geopolitico più coeso di quanto non possa apparire ad una prima osservazione.

       La decisione brutalmente assunta dal leader etiopico Abyi Ahmed di reprimere in maniera violenta la fronda irredentista del Tigrai, regione del nord-est dell’Etiopia confinante con l’Eritrea ed il Sudan, creatasi dopo l’insorgere di contrasti sul ruolo preminente che quel gruppo etnico aveva per decenni svolto ai vertici del potere politico in quel grande Paese, ha precipitato una situazione di crisi covante da tempo.

       Una decisione improvvida che non teneva conto del fallimento della repressione feroce che si era abbattuta nel Paese nel 2015/2016 e che aveva portato alle dimissioni del precedente leader Hailemariam Desalegn incapace di arginare un sommovimento di protesta divenuto devastante.

        A quel fallimento era seguito l’ingresso nella scena politica etiope dell’attuale leader Abyi Ahmed dal quale confortanti propositi erano scaturiti in termini di progetti di riforma e di programmi di rinnovamento mirati ad una governance più inclusiva nei confronti della società civile.

        Tutto questo ora è dolorosamente svanito con il ricorso ad una repressione, definita da Abyi Ahmed all’inizio delle operazioni militari di “mero ordine interno”, rivelatasi alla prova dei fatti fallimentare sotto il profilo politico e devastante per le conseguenze sul piano umanitario.

        Masse di umani sono fuggiti in direzione del finitimo Sudan, mentre il Tigray si è trasformato in una sorta di Yemen africano dove civili innocenti muoiono di fame e dove i combattimenti tra elementi del Fronte tigrino da una parte e le truppe etiopi, appoggiate dall’esercito eritreo, dall’altra proseguono. In definitiva tutto quello spazio etiope è divenuto un vero inferno in terra.

          L’immagine e la credibilità di Abyi Ahmed sono state colpite in maniera irreversibile. L’Etiopia, già alle prese con rapporti difficili con l’Egitto ed il Sudan a causa della pervicace intransigenza mostrata sull’annosa questione della Grande Diga sul Nilo Azzurro, a poca distanza dal confine sudanese, si trova ora confrontata ad un nuovo ciclo di violenze etniche non solo nel martirizzato Tigray dove esecrabili violazioni dei diritti umani continuano ad essere commesse ma anche in altre aree del Paese dove analoghe tensioni tendono ad esplodere. Il conflitto interetnico sembra diffondersi a macchia d’olio in quella complessa realtà.

        Quella che doveva essere un’operazione di ordine interno si è rivelata alla prova dei fatti una guerra di sterminio con l’intervento armato della finitima Eritrea le cui unità combattenti hanno colto l’occasione per procedere impunemente al massacro sistematico, tuttora in corso, non solo delle comunità locali ma anche dei numerosi rifugiati eritrei sfuggiti all’abusivo potere di Abraham Afwerki, alcuni dei quali costretti a rientrare in Eritrea dove verosimilmente una triste sorte li attende.

       In definitiva da quel che si può capire l’Etiopia sembra essere ripiombata in un vortice di instabilità e di violenza dal quale era apparsa uscire all’indomani dell’assunzione di funzioni dell’attuale Presidente e dal quale non si vede come potrà uscirne nel prossimo futuro.

        Lo spettacolo di milizie dell’etnia Amhara, abitanti un’area contigua al Tigray, impegnate a reprimere ed a massacrare i civili del Tigray nonché ad entrare in conflitto armato con l’esercito sudanese su contenziosi di frontiera mai risolti la dice lunga sul disordine e sul caos diffusi nel Paese e che ora si diffondono al di là delle frontiere etiopi.

        Come già segnalato l’irresponsabile decisione del Presidente ha inferto durissimi colpi all’immagine ed alla credibilità di Addis Abeba, fino a tempi recenti viste con favore dalla comunità internazionale, in un momento di svolta del suo divenire ora confrontato a poco rassicuranti prospettive.

          Problemi e questioni che Abyi Ahmed aveva promesso fin dall’inizio della sua Presidenza di risolvere attraverso il ricorso al dialogo e ad una fruttuosa interazione tra le varie componenti del mosaico etiopico.

          Aspettative per l’inizio di un processo concreto di riconciliazione nazionale erano sorte, rivelatesi ora tragicamente illusorie, con il risultato di un’esplosiva incontrollata instabilità in un Paese cerniera dell’Africa orientale, sede dell’Unione africana.   

 

             Conseguenze sulla sponda araba del mar Rosso

 

       Come già premesso i Paesi del Golfo, in particolare gli Emirati, l’Arabia saudita e Qatar, hanno massicciamente investito nel Corno d’Africa, includendovi anche il Sudan. Investimenti non solo di natura economica ma anche sotto il profilo politico cercando di orientare le scelte dei governi africani in direzioni favorevoli alle loro politiche di penetrazione nell’ambito di una strategia espansiva mirata a contrastare, nel caso degli Emirati e dei sauditi, l’influenza iraniana e turca nella regione.

         La Turchia è massicciamente presente in Somalia con la quale Ankara è legata da un accordo di cooperazione militare e da qualificate ed apprezzate iniziative nei settori dell’istruzione, sanitario ed umanitario.

          Tornando agli Emirati basti pensare che nella sola Etiopia Abu Dhabi ha dato vita ad un centinaio di iniziative economiche e di sviluppo il che rende Addis Abeba un partner di estrema importanza per il minuscolo e ricchissimo Stato del Golfo.

            Pari discorso vale per l’Eritrea che, oltre che beneficiare del sostegno politico e finanziario di Abu Dhabi, ospita una importante base aerea e navale nel porto di Assab, distante appena settanta chilometri dalla costa yemenita. Inoltre in alcune isole al largo della costa eritrea sono operativi anche luoghi di detenzione di oppositori yemeniti dove, secondo quanto riportato da organizzazioni umanitarie, gravissime violazioni dei diritti umani hanno impunemente corso, nell’indifferenza dei media internazionali.

           Secondo qualificate fonti arabe lo stesso Accordo di pace concluso tra l’Etiopia e l’Eritrea nell’agosto 2018 ha potuto realizzarsi grazie al determinante impulso e l’altrettanto prezioso sostegno finanziario di Abu Dhabi interessato ad una penetrazione nel mercato etiope che compensasse la perdita d’influenza subita in Somalia dove, come già accennato, il governo in carica è molto vicino alla Turchia ed a Qatar.

           Una penetrazione che comprenderebbe progetti di rilevante interesse per i due suddetti Paesi, in primis la costruzione di un oleodotto petrolifero collegante Asmara e la capitale etiope.        

           Da qui si può comprendere come l’aumento delle tensioni nell’area sia visto con preoccupazione dagli Emirati e dall’Arabia saudita il cui intento è di contrastare l’espandersi dell’idra islamista nel subsistema africano, sia essa di matrice sunnita o sciita come nel caso dell’Iran, al quale i due governi assoluti, in particolare l’Arabia saudita, rimproverano il sostegno fornito alle milizie islamiste sciite degli Houthi nel vicino Yemen.

           Il contrasto tra l’Etiopia da una parte e l’Egitto ed il Sudan dall’altra a proposito della Grande Diga sul Nilo Azzurro in prossimità del confine etiope-sudanese continua peraltro ad avvelenare il quadro politico est-africano e non sembra che una via d’uscita dalla crisi sia conseguibile in un futuro ravvicinato nonostante i tentativi sauditi di mediare tra le parti. L’ultima mediazione americana portata avanti dall’ex-Presidente USA Donald Trump, è completamente fallita, provocando ulteriori delusioni e risentimenti, in particolare da parte etiopica.

          Si assiste inoltre ad un evidente avvicinamento tra il Cairo e Khartoum, legati ora da un accordo di cooperazione militare, in un crescendo di pressioni esercitate dalle due capitali perché Addis Abeba assuma un atteggiamento più flessibile in un processo negoziale che stenta a decollare in ordine al quale uno dei punti del contendere concerne perfino il numero degli attori internazionali coinvolti nell’opera di mediazione. L’Etiopia desidera restringere la lista alla sola Unione africana mentre l’Egitto ed il Sudan vorrebbero allargarla anche alle Nazioni Unite, all’Unione Europea ed agli Stati Uniti.

         Se poi a questo aggiungiamo gli effetti calamitosi scaturiti   dall’invasione del Tigray dello scorso novembre, tra i quali merita di essere menzionata anche la situazione di guerra venutasi a creare tra Etiopia e Sudan per un contenzioso di frontiera mai risolto, quel che emerge si rivela uno scenario tutt’altro che idilliaco dei cui destabilizzanti sviluppi non solo le autocrazie arabe ma anche le cancellerie internazionali hanno preso coscienza. L’arco dell’instabilità copre ora gran parte dello spazio separato dal Mar Rosso.

         Il rischio dunque che i “ritorni” dei cospicui investimenti realizzati dalle monarchie arabe subiscano contraccolpi negativi per i loro stessi interessi si rivela reale.

          A tal proposito un precedente val la pena di ricordare. Esso si riferisce all’esodo di centinaia di migliaia di profughi, in gran parte etiopi ed eritrei, provocato dalle disperanti condizioni di vita nell’area del Corno, prodottosi nel periodo 2018-19 in direzione del martoriato Yemen, da tre-quattro anni in guerra a causa dell’aggressione perpetrata contro di esso dagli stessi Paesi arabi di cui stiamo discorrendo: l’Arabia saudita e gli Emirati, intervenuti nella guerra civile yemenita, seppur con divergenti finalità.

          Ciò merita di essere ricordato per le conseguenze ancor più destabilizzanti che da un altro esodo, verosimilmente di dimensioni più gravi di quello avvenuto alla fine dello scorso decennio, generato questa volta da una possibile implosione dell’Etiopia, potrebbero prodursi per autocrazie arabe già esposte ad un quadro regionale alquanto turbato, principalmente generato da importanti mutamenti avvenuti nello scenario internazionale.

           Un primo esempio è stato fornito da quel che è seguito all’esecrabile invasione da parte dell’esercito di Addis Abeba e di milizie Amhara. Masse di rifugiati hanno letteralmente invaso le precarie strutture di accoglienza del finitimo Sudan creando situazioni di estrema difficoltà per un Paese debole e povero, ma che per converso in conseguenza del deteriorarsi del quadro etiope pare assurgere ad un ruolo politico di rilievo nella regione.

            In definitiva ove le aree di crisi nell’area est-africana dovessero aggravarsi le incidenze di un tale sviluppo finirebbero per ripercuotersi anche sull’altro versante del Mar Rosso dove gli equilibri, seppur in un contesto ben diverso da quello del Corno, sarebbero nondimeno messi a dura prova.

             L’ambito internazionale è decisamente mutato all’indomani della sconfitta elettorale del loro grande alleato Donald Trump alla Casa Bianca. La presenza nello stesso locale di un Presidente intento, per quanto gli sarà possibile, ad apportare correzioni ad una leadership del suo predecessore rivelatasi lesiva degli interessi e della stessa credibilità degli Stati Uniti non collima propriamente con le aspirazioni profonde dei due regimi assoluti.

              

    Ripercussioni sul piano regionale

         

            Interessante ed allo stesso tempo preoccupante appare altresì il porre attenzione agli effetti che l’implosione di un grande Paese come l’Etiopia comporterebbe in quello che molto acutamente l’Economist di Londra definisce il precario “state system” nel mondo arabo in generale e nel contesto africano in particolare.

             Eclatanti in effetti appaiono gli esempi di disfacimento degli assetti territoriali nel contesto arabo-islamico. Siria, Libia, Yemen e, seppur in misura apparentemente meno impattante, Iraq costituiscono esempi rappresentativi degli sbocchi devastanti cui hanno portato in quei Paesi le aggressioni esterne subite ad opera di Governi nel perseguimento della mortifera logica del “regime change”. Quei risultati sono davanti ai nostri occhi ed è ben triste farne menzione.

               Ma Il riferimento della rivista inglese riguarda particolarmente i precedenti storici prodottisi nello stesso ambito sulla riva africana del Mar Rosso. Al riguardo il primo esempio di significativo mutamento dell’assetto territoriale nel Corno è stato fornito nel 1993 con la separazione dell’Eritrea dallo spazio etiope, dopo una sanguinosa guerra di liberazione durata due anni (1998-2000), seguita da una situazione di “no war – no peace”, sfociata finalmente in un trattato di pace firmato dopo quasi vent’anni (2018).

            Il secondo esempio si è prodotto nel finitimo Sudan dove una pluridecennale guerra nel Paese tra il nord islamico ed il sud cristiano-animista ebbe finalmente termine nel 2011 con la nascita del più giovane Stato al mondo, il Sud-Sudan.

            Né potremmo omettere di menzionare la dichiarazione di indipendenza del Somaliland del 1991, entità non riconosciuta dal governo di Mogadiscio e dalla comunità internazionale, retta da un governo democraticamente eletto.

            Ciò non ha impedito agli Emirati arabi uniti di acquisire un’importante presenza economica nell’auto-dichiaratosi Stato che ha saputo mettere a profitto il supporto finanziario di Abu Dhabi, trasformando il volto della sua capitale Hargeisa, divenuta un luogo di sviluppo e di relativa prosperità in una regione afflitta da ogni male.

              Gli esempi addotti si rivelano emblematici di come sia fragile lo “state system” della regione e di come le attuali destabilizzanti tensioni in Etiopia, la più popolosa realtà dell’est del Continente dove convive una pletora di etnie tra di loro confliggenti, trovino terreno fertile per degli sviluppi paventati sull’altro versante dell’altro mare e ben oltre.  

              In sostanza il timore che ulteriori cambiamenti alla mappa politica del subsistema possano aver luogo appare tutt’altro che ingiustificato.

                Le incognite sul divenire della tormentata regione non si fermano qui. Intendiamo alludere a quei pericoli che ritroviamo oggigiorno in ogni spazio geopolitico scosso da tensioni e profondo malessere. Esse sono date anche nel caso in esame dall’estremismo islamico, covante in Etiopia e ad uno stadio esplosivo in Somalia.

               Come giustamente fatto rilevare da attenti osservatori esso trarrebbe ogni vantaggio dall’esplosione di scontri interetnici nell’acrocoro abissino dove tra gli altri non si è mai spento l’irredentismo della minoranza somala nella regione sud-orientale dell’Ogaden. Esso trae linfa dall’imperversare nella finitima Somalia della formazione affiliata ad al-Qaeda di al-Shabab (“gioventù” in arabo).  Una forza chiaramente jihadista ma con movenze anche nazionaliste alla luce della presenza in Somalia di unità militari straniere. 

                Le condizioni dunque perché sia al-Qaeda sia la terroristica idra dello Stato islamico (ISIS) trasformino il Corno d’Africa in un’area di incontrollata violenza al livello di quel che già osserviamo in altre devastate lande africane ed asiatiche parrebbero ampiamente soddisfatte.

                Il che costituisce la prova inconfutabile di quanto insensata, per non dire, masochistica, si sia rivelata la decisione del leader etiope Abyi Ahmed capace di spazzar via con un solo gesto quel capitale di speranze che aveva accompagnato l’inizio della sua presidenza nell’aprile 2018.

                Il ricorso all’uso della forza dopo la fallimentare esperienza del suo predecessore si è rivelato un vero harakiri ed ora la pressione delle Nazioni Unite e dell’Occidente che accusano i governi di Addis Abeba e di Asmara di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, diventa martellante, fiaccando ulteriormente l’immagine e la credibilità politica del leader etiope, ponendolo di fatto sulla stessa linea del suo discreditato omologo eritreo.

                   In definitiva quel che si è prodotto nel Tigray è quello che da anni osserviamo nello scenario arabo, che si tratti di Siria, Libia, Yemen od Iraq. Le strategie militari non appaiono il migliore rimedio per ridare una sembianza di pace e stabilità a realtà dove allignano crisi politiche giunte a livelli esplosivi per la carica sociale che le genera. 

                    Quel che vale per il mondo arabo è più che mai valido nell’agitato e composito scenario politico est-africano dove povertà e desolante emarginazione coesistono con un quadro generale caratterizzato da tensioni etniche e da rivendicazioni politiche e sociali di cui sono principali araldi masse di giovani pronte a battersi contro un sistema iniquo ed a sfidare le rozze reazioni di un ordine autoritario a corto di risposte alle nuove sfide cui si trova esso confrontato.

                     Abbiamo avuto gli ultimi esempi di ciò non solo in Etiopia ma anche in Sudan dove la situazione pare essersi stabilizzata, seppur soggetta ad equilibri interni tuttora precari, aggravati dal clima di guerra creatosi alla frontiera con l’Etiopia all’indomani della repressione nella confinante provincia del Tigray.

                     E’ anche vero che Khartoum ora sembra definitivamente uscito dall’isolamento cui l’aveva costretto il dittatore Omar al-Bashir, scalzato dal suo scanno nell’aprile 2019 dopo trent’anni di permanenza al potere.

 

           Conclusioni

       

                     Le autocrazie del Golfo sono state le prime a realizzare come ai fini dei loro calcoli di dominio il Corno d’Africa faccia ormai parte di un’area integrata. Un’integrazione dettata ovviamente da rapporti di forza caratterizzata dall’espandersi delle rivalità in seno alle monarchie del Golfo verso un’area africana debole e divisa dove a loro volta le élites politiche non disdegnano affatto di beneficiare del sostegno di esterni potenti protettori.

                      Alcuni osservatori dell’area est-africana non hanno esitato a riconoscere in questo processo un iter destinato a favorire una maggiore stabilità del subsistema africano beneficiando del sostegno di partner ricchi e potenti in grado di affievolire le tensioni ivi presenti attraverso una cooperazione economica suscettibile di elevare le rattristanti condizioni di vita di popolazioni afflitte da angoscianti livelli di povertà.

                       In effetti questo è stato il sentiero percorso dall’Arabia saudita e dagli Emirati attraverso il cospicuo ricorso a forme di sostegno finanziario in grado di porre Paesi derelitti come l’Etiopia ed il Sudan al riparo da implosioni estremamente rischiose in un contesto dove lo scontro di interessi di diversa natura viaggia di concerto con la pressione esplosiva di masse, soprattutto giovanili, desiderose di uscire dal ghetto dell’indigenza e dell’emarginazione intellettuale.

                        L’impatto di tali argomentazioni è del resto uscito recentemente rafforzato dall’avvenuta riconciliazione intervenuta lo scorso gennaio all’interno del Gulf Cooperation Council (GCC), l’organizzazione cui appartengono le sei monarchie assolute del Golfo, tra l’emirato di Qatar e le due autocrazie dominanti del Regno saudita e degli Emirati sostenute dal minuscolo Regno di Bahrein e dall’Egitto.

                        Come si ricorderà il tutto aveva preso inizio nel giugno 2017 con il blocco terrestre, navale ed aereo imposto dal fronte conservatore arabo, appoggiato dall’ex-Presidente Trump, ai danni di Qatar, ritenuto responsabile di appoggiare i Fratelli mussulmani, giudicati terroristi da Riyadh ed Abu Dhabi, per converso sostenuto dalla Turchia di Erdogan.

                         A parere della corrente di pensiero sopra citata tale positivo sviluppo renderebbe più agevole e meglio “digeribile” la stabilizzante penetrazione araba nel Corno d’Africa affrancandola dai condizionamenti generati dal contrasto, ora apparentemente diluito, in essere all’interno del GCC in presenza oltretutto di un migliorato clima recentemente intervenuto nei rapporti tra la Turchia, alleata di Qatar, e l’Arabia saudita.

                         La logica non manca a simili ben auguranti argomentazioni. Ma come spesso accade le connessioni logiche, ben accette al livello del pensiero teorico, vengono poi brutalmente smentite quando esse si trovano confrontate ad una prassi dove le variabili in gioco sono molteplici ed imprevedibili.

                          In effetti quel che forse sfugge all’analisi di coloro inclini a scorgere effetti positivi in una penetrazione di questo tipo nel Corno d’Africa è la logica di dominio alla base della strategia di integrazione comprensiva delle realtà del Corno e dei partner arabi.

                           Ed è questa logica di dominio della quale costatiamo i deleteri effetti sopra descritti. Una logica di dominio percorsa da biasimevole miopia e scarsa considerazione delle conseguenze derivanti da scelte che non hanno tenuto conto del turbolento peculiare carattere dei problemi affliggenti le realtà del Corno.

                            Il supporto, latente o patente, fornito, soprattutto dagli Emirati, alla insana decisione assunta da Abyi Ahmed di reprimere brutalmente un movimento, come quello del Tigray, avente una indubbia matrice popolare, ricorrendo perfino all’intervento delle forze armate eritree, le cui atroci violazioni dei diritti umani suscitano tuttora l’orrore e la riprovazione dell’opinione pubblica internazionale, costituisce la conferma di come alquanto illusorio si riveli l’apporto in termini di stabilità delle autocrazie arabe al subsistema est-africano.

                             Non solo ma un’altra considerazione s’impone ovverossia che, come già accennato, inevitabilmente le conseguenze di queste malsane collusioni verranno a ricadere sugli stessi protettori di coloro che improvvidamente hanno seminato morte e distruzione nel Corno d’Africa.

                              La catastrofe umanitaria finirà per coinvolgere le finitime ricche realtà della Penisola ledendo i loro interessi strategici di fronte al possibile disfacimento di entità come l’Etiopia, paradossalmente il simbolo dell’unità del continente, sede dell’Unione africana, ed al contestuale acuirsi delle tensioni già covanti nella regione.

                              Il pericoloso contrapporsi degli schieramenti a proposito della annosa faida legata alla Grande Diga, voluta da Addis Abeba senza considerazione degli interessi vitali di altri Paesi, conseguentemente osteggiata dall’Egitto e dal Sudan fermamente allineatisi contro l’intransigente posizione etiope in materia, si è pericolosamente aggravato a causa anche della tragedia intervenuta nel Tigray.

                               L’aggravarsi del contrasto frontaliero tra l’Etiopia ed il Sudan, avvelenato da reciproche accuse e sfociato in scontri armati nel bel mezzo dell’esodo di centinaia di migliaia di esseri umani in Sudan per sfuggire alla fame ed ai crimini commessi da milizie etniche ed unità dell’esercito eritreo è stato parimenti alimentato dalle conseguenze di scelte appoggiate da Paesi, in particolare gli Emirati e l’Arabia saudita, già resisi colpevoli di aberranti atti nel finitimo Yemen dove il loro operato ha portato alla più grave catastrofe umanitaria dalla fine della Seconda guerra mondiale.

                                Se poi aggiungiamo al lugubre scenario sopra tratteggiato l’atteggiamento di assurdo rifiuto fino ad ora frapposto da Addis Abeba verso quei Paesi ed organizzazioni umanitarie imploranti l’accesso ai luoghi dove esecrabili atti sono stati e sono tuttora commessi, ben poco ci induce a nutrire una parvenza di ottimismo su quel che seguirà, anche in riferimento agli interessi di penetrazione provenienti dall’altra sponda del Mar Rosso.

                                Il clima imperante nel subsistema si è drammaticamente deteriorato, reso vieppiù tragico dal radicarsi della logica conflittuale che ha preso ormai il sopravvento sulle politiche basate sul dialogo e sulla reciproca comprensione.

                                Ed è per questo motivo che non ci sentiamo di avallare la tesi di coloro, in buon numero, che vedono nell’integrazione tra le due sponde del Mar Rosso, così come essa si è articolata, un’evoluzione positiva portatrice di “interessanti sbocchi”.

                               A nostro parere tale linea di pensiero si rivela superficiale e fuorviante, avulsa da un’attenta considerazione e riflessione sul tipo di dinamiche alla base di un processo destinato per converso ad esasperare pericolosamente le tensioni e ad aggravare le sofferenze di inermi popolazioni, spianando in tal modo la strada all’esplodere degli estremismi politici e religiosi che sulla miseria e la violenza trovano la maniera di prosperare.

                                I misfatti di un tenebroso passato coloniale sembrano sinistramente ripetersi sotto mutate spoglie nel Corno d’Africa. Questa è la nostra triste conclusione, purtroppo.

                                Le aree di instabilità tendono ad espandersi con effetti dirompenti sugli equilibri globali già afflitti da altri mali (pandemie, crisi economiche in primis) portatori a loro volta di sventure e sofferenze.

                                Rebus sic stantibus quel che potremo fare è continuare a seguire e comprendere le evoluzioni in corso dagli effetti negativi ma che in ogni caso contengono in nuce i semi di nuovi cambiamenti non necessariamente privi di speranza.

 

Angelo Travaglini diplomatico in pensione, membro del Comitato Scientifico del CIVG