Honduras post-uragani

4 gennaio 2021

 

 

Al di là dei dati macroscopici che quantificano (e nemmeno in maniera sempre attendibile) l’entità della devastazione nell’Honduras post-uragani, per rendersi conto di ciò che tutto questo significa per la “qualità di vita” dei sopravvissuti, bisogna avvicinarsi al loro quotidiano e ascoltarne le testimonianze.

Emerge preponderante il sentimento di abbandono da parte dello Stato, accusato di aver dato l’allarme solo con molto ritardo (c’erano da favorire gli introiti del turismo nella cosiddetta ”settimana morazanica”), non aver organizzato un sistema adeguato per salvare vite, aver mobilitato posteriormente mezzi di soccorso insufficienti a fronte delle immani necessità, aver predisposto un numero altrettanto esiguo di centri d’accoglienza dove il sovraffollamento e la carenza di condizioni igieniche hanno nefaste conseguenze, essere del tutto assente nell’assistenza alle necessità di base della popolazione successive al disastro.

 

FAI DA TE, LO STATO NON C’E’

La percezione chiara e diffusa è di essere stati abbandonati a se stessi.

Storie di famiglie rimaste per giorni abbarbicate ai tetti delle case o agli alberi, sotto la pioggia, senza cibo, con l’inondazione tutt’intorno, la consapevolezza di aver perso tutto, magari anche in lutto per i loro cari, mentre la stessa vita loro era appesa al filo di speranza che qualcuno arrivasse a recuperarli… “Ci mettevamo a piangere, perché passavano gli elicotteri solo per farci fotografie, mentre noi non avevamo neanche acqua potabile per bere”.

 

Un lavoro di soccorso lodevole è stato effettuato dal Corpo dei Pompieri e dalla Croce Rossa, a fronte dei mezzi disponibili.

E non sono mancati gesti di solidarietà in mezzo a tanta tragedia, come a Río Chiquito (Yoro), dove José Francisco Zúniga e suo figlio, con la loro piccola barca a remi salvarono circa 150 persone della comunità. Remarono perfino con delle pale contro la corrente che ad un certo punto i remi se li era portati via. O come Gagarin Chávez, un muratore della colonia San Rafael a San Pedro Sula, uno dei pochi del luogo che sapeva nuotare, riuscito a salvare una quindicina di bambini.

 

Molti hanno ospitato altre famiglie in casa loro, quando agibile. Tabora, proprietaria di un’impresa di pompe funebri, edificio a due piani, lo trasformò in rifugio improvvisato, dove trovarono riparo circa 30 famiglie: “Non siamo stati nemmeno più a pensare alle precauzioni delle mascherine, vedendo tanta afflizione… venite, potete mettervi in salvo qui, sebbene sia un posto piccolo”.  Sergio Donaire, un tappezziere di 35 anni, vi è ospite con la moglie e tre figlie. Ci è arrivato con l’acqua al petto, dopo aver abbandonato casa sua, inondata e distrutta. Dopo due settimane continua a piovere forte e non sta arrivando alcun aiuto statale. “Le mie figlie si sono ammalate, con tosse e febbre…. Non abbiamo cibo, né luce, né possibilità di lavarci... Abbiamo tutti paura. È la cosa peggiore che abbiamo vissuto”.

“Abbiamo cercato di salvare qualcosa, come vestiti, documenti, piccoli elettrodomestici mettendoli sopra al controsoffitto, ma a nulla è servito”. Isaías Ortega, residente a Nuevo San Juan (La Lima, Cortés) ed il suo figlioletto di 9 anni, sono riusciti appena a salvare se stessi raggiungendo un’altra casa, dove hanno trascorso oltre una settimana stipati insieme ad altri 150 sfollati, senza poter dormire né mangiare. “Gli unici che riuscivano a dormire per terra o su una sedia erano gli anziani e i bambini”.

Suany Díaz è una giovane madre di tre figli. Un gruppo di volontari e volontarie della Rete di Emergenza e Solidarietà di El Progreso (Yoro), l’aiutò a svuotare casa da tutte le cose contenute, ormai da buttare. Quando aprì la porta e le vide, ammucchiate, piene di fango ed inservibili, si mise a piangere. “Non si tratta solo di perdere beni materiali, ma molti anni di lavoro e sacrificio, perdere parte della nostra storia”.

 

 

San Pedro Sula, la seconda maggiore città del Paese, è devastata. La Lima, capitale di un comune di 500.000 abitanti, distrutta nella sua totalità. Dopo un mese e mezzo il fetore di fango putrido e animali morti ristagna da ogni parte.

Nella Valle di Sula oltre 18 mila famiglie sono ricoverate in scuole e chiese in condizioni precarie di igiene e affollamento. Chi non ha trovato rifugio in case altrui, nei ricoveri governativi o nelle chiese, si è arrangiato improvvisando baracche con mezzi di fortuna o riparandosi sopra o sotto i ponti.

 

 

Come a El Progreso, dove sul ponte La Democracia han trovato scampo centinaia di persone sfuggite alle acque straripate dal fiume Ulùa. Dopo due settimane 60 famiglie continuano accampate sotto un cavalcavia a sudest di San Pedro Sula, mentre lungo l’autostrada che collega questa città a La Lima vi è una fila ininterrotta di migliaia e migliaia di tende e capanne ricavate da pezzi di nylon, lamine di plastica, pali e teloni, con la gente che dorme su pezzi di cartone, i più fortunati sui materassi salvati dalle acque.

 

 

Alberto López Ocampo è un contadino che dopo aver messo al sicuro la famiglia, tornò per salvare i suoi animali: 11 oche, 25 galline e 40 anatre rifugiatesi sul tetto di casa. Le 25 pecore le trovò affogate. Non gli è rimasto null’altro, sotto quel ponte.

Sandro Mejía, 58 anni, anche lui ha per unico riparo il ponte: “Con la pandemia chiusero tutto, restai senza lavoro e senza soldi. Ora gli uragani… Qui tutto è perso, siamo come sepolti vivi” Accusa il governo di aver abbandonato le persone sinistrate: “Non ci sono diritti per questo popolo, non c’è salute, non c’è lavoro, non c’è nulla… Ora l’unica cosa che mi resta è emigrare negli Stati Uniti”.

 

 

Sono le storie di centinaia di migliaia di persone sfollate (330.000 secondo dati dell’ONU), che un mese dopo gli uragani non hanno ancora ricevuto alcun tipo di assistenza umanitaria o d’emergenza e sopravvivono nelle condizioni che queste storie descrivono. È la denuncia che anche Dominika Arseniuk, direttrice del Consiglio Norvegese per i rifugiati del Centroamerica e Colombia lancia a gran voce: “La gente è costretta a sopportare condizioni intollerabili … han perso tutto e non hanno dove andare, vivono per strada… Poche persone dispongono di mascherine, sapone, acqua pulita per prevenire la propagazione del Covid-19”.  

 

 

 

 

SOLO IL POPOLO SALVA IL POPOLO

Molti sfollati denunciano la negligenza delle autorità governative, e risaltano il lavoro dei giovani e delle organizzazioni che volontariamente han messo a disposizione forza lavoro per aiutare a ripulire le case e le strade.

Molte di queste “brigate di pulizia” sono persone che si aggregano spontaneamente, andando tutti insieme ora a casa dell’uno, ora dell’altro, ora nelle scuole ed edifici comunitari, ad affrontare la montagna di lavoro da fare per liberare dal fango quanto possibile. E non solo nel proprio quartiere, ma anche oltre, dove la gente ha bisogno. È una forma di organizzazione dal basso, nata spontanea dalla necessità e dallo spirito di solidarietà che alberga nel cuore del popolo.

Qui il video di un’iniziativa volontaria di mutuo aiuto pubblicizzata tramite i social: https://t.me/noticias_radio_progreso/854

 

 

Le autorità attraverso l’operazione governativa “Non siete soli”, contribuiscono unicamente alla raccolta dei rifiuti che la gente sta tirando fuori dalle case e accumulando per strada. Secondo quanto riporta Isaías (La Lima), fango e immondizia sono trasportati nella comunità di Los Pinos, luogo dove hanno sepolto le persone morte di covid. Si teme che, per la quantità di spazzatura che stanno accumulando in quella zona, non si riuscirà poi più a localizzare le tombe dei propri defunti.

 

 

Il Consiglio delle Organizzazioni Popolari e Indigene dell’Honduras (COPINH) tramite donazioni da La Esperanza e dalle comunità Lenca, come quella di Guachipilìn, ha raccolto ed inviato alle popolazioni danneggiate nel nord del Paese una parte dei loro propri raccolti: banane, riso, mais, fagioli, con la coscienza che “La solidarietà è la tenerezza dei popoli” e solo così si può far fronte ad una prassi statale disgregante.

 

Il gruppo ”Paso a Paso” opera a Rivera Hernandez, una delle aree urbane col più alto tasso di degrado e criminalità di San Pedro Sula (e più colpite dall’inondazione) con un progetto educativo rivolto ai bambini. Ora il gruppo si sta occupando di assistere le famiglie legate al progetto, ma non solo, fornendo prodotti alimentari non deperibili, per la pulizia, per la biosicurezza, medicine, vestiti, materassini. Hanno inoltre procurato due potabilizzatori per poter fornire acqua purificata, una delle necessità prioritarie in questo momento, e organizzato laboratori di formazione rivolti alla collettività, per insegnarne l’uso.

Erick Martínez Salgado, difensore dei diritti della comunità LGBT, parla con orgoglio della solidarietà ricevuta sia attraverso il gruppo "Movimiento de Diversidad en Resistencia”, sia dalle rifugiate trans negli Stati Uniti. Coi soldi raccolti han potuto comprare alimenti, vestiti, scarpe. Afferma:“La cittadinanza sta sostituendo le funzioni del governo nell’assistenza umanitaria”.

L’Organizzazione Fraterna Nera dell’Honduras (OFRANEH) sostiene le comunità afrodiscendenti garifuna. Essendo per lo più ubicate lungo la costa atlantica, sono quelle che hanno subito il primo e più devastante impatto degli uragani. Oltre ad aver predisposto un dispensario alimentare nella Valle di Sula, OFRANEH offre la possibilità agli sfollati di essere ospitati presso la comunità di Vallecito (municipio di Limón, Colón), dove i loro figli potranno frequentare la scuola e l’asilo locali usufruendo di alimentazione gratuita, mentre si ricostruiranno una casa. In cambio dovranno collaborare alle attività agricole.

Il Dott. Luther Castillo riferisce che nella comunità costiera garifuna di Corozal, a nord della città di La Ceiba, si è vista l’unica presenza governativa: un rappresentante del governo scortato da otto militari, arrivato a distribuire vestiario in cattivo stato, in pratica borse di spazzatura. La gente, indignata, lo ha cacciato. “Ciò che sprecano per proteggere personaggi simili, lo potrebbero usare per regalare vestiti decenti”. “Stanno facendo campagne politiche, quando la gente ha subito gli impatti della crisi economica. È deplorevole e fa rabbia, vedere questi mercenari arrivare con delle miserie, solo per farsi una fotografia”. ”Sono degni di uno Stato fallito, collassato, corroso dalle metastasi del cancro della corruzione”.

 

GESTIONE POLITICA DEGLI AIUTI

La Comisión Permanente de Contingencia (COPECO) è l’istituzione incaricata di fornire l’assistenza umanitaria in caso di catastrofi naturali ed ha l’obbligo di organizzare, dirigere, coordinare, adottare misure di prevenzione per proteggere la vita ed i beni degli abitanti dei 18 dipartimenti in cui è suddiviso l’Honduras.

Suo dirigente è stato nominato un artista, Max González, non certo per le sue competenze tecniche, ma per le affinità politiche. Questa struttura burocratica ed inetta a gestire situazioni di rischio ed emergenza è servita però per intercettare e sequestrare tutti gli aiuti materiali possibili provenienti dall’estero ed è l’unica autorizzata dal governo a distribuirli. L’accaparramento privato e la ripartizione degli stessi secondo convenienze politiche è la pratica conseguente. Innumerevoli sono le denunce, diffuse attraverso le reti dei social.

 

 

Honduregni emigrati negli Stati Uniti hanno riempito tre aerei di aiuti destinati alle loro comunità di origine, designando persone di fiducia per la consegna, ma non glielo hanno permesso. COPECO ha confiscato tutto, persino i pacchetti con l’indirizzo di una specifica famiglia. A fronte di questa situazione, non raccoglieranno più aiuti, non potendo render conto ai donanti che il loro contributo sia giunto a buon fine e, soprattutto, in mani oneste.

Altri stranieri che accompagnavano container di aiuti umanitari han denunciato l’abuso delle autorità honduregne, che pretendevano tariffe assurde per poterli sdoganare: “Arrivi al punto che tali tariffe superano il costo del contenuto. Questi non vogliono aiuti per i più sfortunati!”

La manipolazione politica degli aiuti si estende anche agli edifici pubblici adibiti a ricoveri, dove il controllo delle donazioni è gestito da figure dette “guide di famiglia”, operanti nell’ambito del programma governativo ”Vita Migliore”, e se una chiesa, istituzione, organizzazione, persona vuole consegnare la donazione direttamente, non le viene concesso.

La Chiesa Cristiana di Agape ha fatto una denuncia pubblica in tal senso: aveva raccolto vestiario, coperte, calzature, viveri destinati agli sfollati ospiti nell’Istituto Centrale Vicente Càceres di Tegucigalpa, ma gli attivisti non sono stati autorizzati neppure ad entrare, per cui piuttosto di lasciare gli aiuti nelle mani dei gestori della struttura, li hanno distribuiti direttamente a persone indigenti, che vivono per strada, donne, bambini, anziani. La percezione che si stia politicizzando una dolorosa tragedia è forte e indignante.

 

 

“Io sto in questo ricovero da quando passarono gli uragani, qui continuiamo a dormire sul pavimento, senza materassi. Dato che non siamo di nessun partito, non ci danno niente” dice Josefa Martínez, rifugiata nella scuola Edgardo Alanez, di San Pedro Sula.

Le denunce arrivano anche dai sindaci, come quelli di Santa Rosa, Copan Ruinas, San Josè Colinas, San Manuel. Ai municipi gestiti da sindaci del partito Liberale (opposto al partito Nazionale al governo) gli aiuti arrivano col contagocce o per nulla. “Sappiamo di 3.000 razioni di alimenti dirette alla zona nord di Copan, ma qui a Santa Barbara non ne abbiamo vista una”. Gli aiuti, attraverso il COPECO e i vari deputati (che se li disputano addirittura tra di loro per trarne vantaggio), vengono canalizzati verso i municipi filogovernativi, escludendo le comunità che pur ne hanno urgente bisogno, come quella di San Manuel, ubicata in una zona tra le più danneggiate. I famosi fondi, che il governo propaganda di aver trasferito, qui non sono arrivati.

Per cui le organizzazioni popolari e i singoli privati cercano referenti propri di fiducia o di recarsi direttamente sul posto, se vogliono avere la certezza che gli aiuti umanitari per alleviare questa immane tragedia non finiscano nelle mani sbagliate.

 

SOTTOSTIMA DELLE VITTIME

I due uragani hanno provocato 96 morti, secondo i dati ufficiali. Ma sono solo quelli denunciati sul momento, dopodiché COPECO ha chiuso il registro.

La realtà dimostra che la cifra è ampiamente sottostimata. I cadaveri estratti in un secondo momento dal fango o sotto le macerie delle case, le persone decedute nei giorni successivi per le conseguenze delle ferite, per infarti da stress, per aver bevuto acqua contaminata, perché folgorati da cavi elettrici staccati, perché non han potuto ricevere trattamenti medici per le patologie croniche precedenti, solo per fare alcuni tra i mille possibili esempi, non vi rientrano. I parametri internazionali prevedono di tener conto dei decessi associati alle conseguenze dei disastri anche nel corso delle settimane e mesi successivi. Ma qui non esiste alcuna struttura statale designata a farlo. Non esiste quindi un registro dei morti affidabile. Né degli scomparsi.

 

 

Tra il 5 e il 19 novembre, quando passarono gli uragani, si crearono gruppi in Facebook per trovare persone di cui non si avevano più notizie. Sui social giravano liste con centinaia di nomi, ma il conteggio del governo fu: tra 6 e 9 persone scomparse.

Il Dott. Fidel Barahona, specialista in salute pubblica denuncia: “A quest’ora dovremmo già avere un registro delle persone sfollate, il numero reale dei morti e degli scomparsi, le cause dei decessi, le malattie presenti, nel quadro di un piano di vigilanza epidemiologica” Ma il sistema honduregno non è organizzato allo scopo, né c’è alcun interesse a farlo. E non vi è alcuna intenzione di chiarire i numeri delle perdite umane, né di dare risposte alle famiglie.

È quanto sostiene anche la Dott. Julissa Villanueva, ex direttrice di Medicina Forense: in tema di raccolta dati e controllo epidemiologico non esiste alcun coordinamento tra Segreteria di Salute, Segreteria dei Diritti Umani, men che meno col COPECO. Chiunque voglia conoscere i dati ufficiali in Honduras si troverà a fare i conti con una sottostima che diventa occultamento dell’informazione. Le cifre dei decessi conseguenti al disastro continueranno ad aumentare in silenzio.

 

SITUAZIONE SANITARIA

La Segreteria di Salute stima che attualmente oltre 250.000 persone abbiano un accesso limitato o nullo ai servizi sanitari, a causa dei danni alle strutture del sistema pubblico. In più, oltre l’80 % della popolazione sfollata nei rifugi non sta usando mascherine e non dispone di acqua potabile sufficiente. Quelli che sopravvivono sotto i ponti o lungo le strade, oltre al covid, sono esposti a malattie dermatologiche, gastroenteriche, respiratorie.

Il Dott. Hugo Fiallos, medico intensivista, afferma che si sta registrando un aumento dei casi di covid in molte regioni del Paese. È una situazione disastrosa e continuerà a peggiorare, sia per l’affollamento forzato, sia per la mancanza di misure di biosicurezza. Già prima non vi erano centri sanitari adeguati, men che meno a riabilitare le persone che dal covid guarivano, ma portandosi appresso le sequele della malattia. La medicina in questo Paese è sintomatica, non preventiva.

 

 

Il dipartimento di Cortés, dov’è ubicata la città di S. Pedro Sula, era già prima in testa alla classifica dei malati di covid: 3 su 10 contagiati vivono qui. Il dirigente sanitario della città, Juan José Leiva, afferma che han trovato “un 35% di casi positivi in ogni rifugio visitato”. Sempre in questo dipartimento si stanno rilevando i primi casi di leptospirosi, malattia trasmessa dall’urina di certi animali, contraibile attraverso gli alimenti, le mucose, la pelle ferita.

Per la presidentessa dell’Ordine dei Medici dell’Honduras, Suyapa Figueroa, siamo in un’emergenza sanitaria cui le istituzioni non danno risposta. “La gente sta affrontando quadri clinici di gastroenteriti, cui seguono possibili leptospirosi, focolai di tifo, epatite A, aumento dei casi di dengue e malaria. La mancanza di acqua potabile ha un impatto enorme su questo”.

Altro serio fattore di rischio sono le necessità legate alla salute mentale. È proprio dopo disastri come questi che tali necessità si accentuano, dovendo le persone affrontare stress, attacchi di panico, ansietà, lutti legati alla perdita tanto di beni e sicurezze materiali, quanto di persone care e animali.

Il Dott. Efraín Fajardo, medico chirurgo, membro per molti anni di Medici Senza Frontiere, prevede un quadro molto fosco per la salute del popolo honduregno. Il governo attuale non ha alcun interesse a rafforzare il sistema di sanità pubblica, anzi, ha già preso impegni volti alla privatizzazione. La sua priorità non è la salute, ma la vendita della salute. Vendere ciò che resta delle strutture pubbliche a grandi milionari, che a loro volta venderanno la salute; la sua priorità è trasformare un diritto inalienabile del popolo in merce.

 

SI SALVA LA GRANDE IMPRESA

Rodolfo Pastor Fasquelle, piccolo imprenditore agricolo della Valle di Sula, aveva un sogno: la sicurezza alimentare per tutti gli honduregni, arrivare a produrre tutto ciò che serve per alimentarsi bene. Ma sa che non vi sono le condizioni per realizzarlo. La prevalenza dell’agricoltura destinata all’esportazione rispetto alla produzione per l’autosussistenza, l’impatto ambientale che la prima ha creato, la deforestazione massiccia con suoli non più in grado di trattenere le acque, acque che arrivano senza più freni naturali a distruggere tutto, il cambio climatico…

Ci sono decine di migliaia di piccoli produttori che coltivavano banani, mais, grani basici, ortaggi… e han perso tutto, così come un gran numero di allevatori, che han visto affogare migliaia di animali. Come risollevarsi? Ci vorrà molto tempo prima di tornare a produrre. Le grandi imprese non hanno problemi ad accedere ai crediti bancari. Ma il governo farà la scelta politica di sostenere anche la piccola e media produzione?

 

 

Preoccupazione condivisa anche dai membri dell’Associazione Nazionale della Micro e Piccola Impresa dell’Honduras (ANMPIH), poiché le poche piccole imprese sopravvissute alla crisi economica sono ora sul punto di chiudere.

Efraín Rodríguez, dirigente della ANMPIH fornisce dei dati: dopo gli uragani, soltanto nella Valle di Sula sono scomparse 30.000 piccole imprese, corrispondenti a circa 150.000 posti di lavoro, che sommati a quelli già persi per la crisi economica legata dalla pandemia, ammontano ad un totale di oltre 300.000, un impatto notevole sul tasso di disoccupazione.

 

Il governo ha firmato un accordo con le banche, che non è nulla più di una campagna pubblicitaria. Poche imprese hanno aderito, per le condizioni sfavorevoli dei crediti. L’ANMPIH chiede al governo di stabilire programmi di accesso al credito differenziati per la micro/piccola impresa rispetto alla media/grande: “Loro posso fornire garanzie ed ottenere facilmente finanziamenti milionari dalle istituzioni finanziarie, noi no”.

 

LE DONNE

Le donne sono il settore della popolazione honduregna più colpito dall’emergenza climatica, sociale, umanitaria.

Gran parte delle persone sfollate nei rifugi sono donne. L’ONU ha fatto un’inchiesta a San Pedro Sula in 109 rifugi temporanei: ospitano 3.232 famiglie, 179 donne incinte, 476 donne che stanno allattando i loro piccoli. Ci sono donne che hanno partorito in questi ricoveri, che però non hanno spazi e condizioni igieniche ed alimentari adeguate per le mamme ed i neonati. Hanno sovente alle spalle storie drammatiche.

 

 

Per Karol Bobadilla, avvocatessa, difensora dei diritti delle donne, rappresentante del Foro delle Donna per la Vita, le donne che si trovano a coabitare nei rifugi “patiscono tutte le violenze che quotidianamente vivevano prima degli uragani” quelle violenze semplicemente si sono trasferite lì. Vi sono casi in cui, il giorno dopo l’uragano, hanno subito violenza dai loro mariti/compagni, casi di minori stuprati tra le mura domestiche, venuti alla luce proprio durante la permanenza nei ricoveri. Questi non sono luoghi sicuri per le donne, le bambine, i bambini. Le condizioni di sovraffollamento, a volte in edifici deteriorati, senza luce elettrica, li espone ad abusi e molestie. Vi sono già state denunce in tal senso. Suggeriscono alle persone nei rifugi di organizzarsi in gruppi di vigilanza diurna e notturna per prevenire le molteplici forme di violenza, specie di tipo sessuale.

 

 

In Honduras la cultura patriarcale è quella dominante e si manifesta con pratiche violente nei rapporti sociali e famigliari, condizionando in modo traumatico l’esistenza delle donne e dei minori. Gli uragani hanno solo inasprito le condizioni materiali quotidiane in cui tale cultura nefasta si rivela.

Il femminicidio, le minacce di morte dirette alla donna o a qualcuno del suo nucleo famigliare, la violenza fisica e psicologica, sono le cause principali che spingono le donne a migrare, spesso portando i figli con sé. Fuggire o morire: non c’è alternativa. C’è un aspetto terribile in tutto questo: le donne che fuggono dalla violenza sanno che lungo il cammino verso gli Stati Uniti, subiranno degli abusi sessuali. Per questo assumono pillole anticoncezionali, perlomeno non rimarranno incinte dei loro aggressori. Molte decidono di espatriare ugualmente: due o tre stupri non equivalgono ad una vita intera di intimidazioni e violenze nel loro paese. Anche quando una donna denuncia l’aggressore, non ottiene la sua condanna o protezione per se stessa. Non vi è legislazione al riguardo.

Altre cause che spingono le donne (e figli) a migrare sono il reclutamento forzato nelle bande criminali, l’estorsione, la crisi economica. Ma anche le minacce contro le difensore dei diritti umani, del territorio, dell’ambiente.

 

MIGRAZIONE

L’Honduras è uno dei Paesi coi tassi di migrazione più alti al mondo. Secondo dati dell’ONU, nel solo 2019 sono emigrate 800.707 persone su 9.588.000 abitanti. Il numero di morti violente legate alla criminalità supera quello di molte delle peggiori zone di guerra. Negli ultimi dieci anni, ossia dal colpo di stato in poi, sono stati assassinati 150 ambientalisti ed ambientaliste, più di uno al mese, altri incarcerati. È uno dei Paesi col più alto indice d’impunità. Ed è una delle zone più colpite da eventi climatici estremi.

 

Tutti i corpi armati e repressivi dello Stato hanno in tanta violenza un ruolo pesantissimo.

Il 9 dicembre 2020 gli abitanti della comunità di Sabana de San Pedro (Yoro), che manifestavano chiedendo il ripristino delle strade gravemente danneggiate dagli uragani, sono stati brutalmente repressi dalla polizia nazionale, polizia militare e corpi speciali a colpi d’arma da fuoco e bombe lacrimogene (lanciate pure all’interno di un bus carico di gente, donne e bambini, che nemmeno c’entravano con la protesta). Yoro è uno dei dipartimenti più impoveriti del Paese, impoverito dal saccheggio dei boschi, dei minerali, di altri beni naturali e comunitari, la gente abbandonata nelle sue necessità, dove si riparano solo le strade utili agli impresari del legname e delle miniere, affinché il saccheggio possa proseguire. Dunque la risposta dello Stato a chi ha già patito il disastro climatico e tutto il resto sono dei lacrimogeni? Non vi sono già state lacrime abbastanza?

 

 

Sempre il 9 dicembre è partita dall’Honduras una nuova carovana di migranti, alla volta degli Stati Uniti. La maggior parte a piedi, giovani, uomini, donne, bambini, famiglie complete, gente che ha perso tutto nelle inondazioni, anche la speranza di trovare risposte al loro diritto di vivere con dignità nel proprio Paese.

 

 

C’è un disegno criminale e perverso in tutto questo. Emerge chiaro mettendo insieme i vari tasselli del puzzle.

“Il piano del governo è svuotare il Paese dalla sua popolazione. I territori si vendono agli investitori come se fossero disabitati. Alla classe politica interessa che la gente se ne vada dalle proprie terre, per consegnarle in mani altrui. Le carovane con migliaia di persone dirette al Nord sono frutto della disperazione” afferma Miriam Miranda, dirigente di OFRANEH.

Se svuoti un territorio dai suoi abitanti, non avrai nemmeno più il fastidio di qualcuno che lo difenda. E ne farai quello che vuoi, sarà merce da vendere al miglior offerente e sfruttare a piacimento, incurante dello sfacelo ambientale e delle devastanti conseguenze a catena. Quelli che resistono e protestano li reprimi brutalmente, gli altri li abbandoni a se stessi, che s’impoveriscano sempre di più. Così avrai anche manodopera a bassissimo costo, da schiavizzare. Si chiamano CRIMINI CONTRO L’UMANITÀ, CRIMINI CONTRO LA NATURA, CRIMINI CONTRO IL PIANETA.

Schiavizzare. Come ad esempio nelle “Zone Speciali di Sviluppo Economico” (ZEDE), definite anche “città modello”, zone che pur essendo nel territorio nazionale, di fatto sono concesse in tutto e per tutto alla gestione delle multinazionali. Una sorta di Stato nello Stato, governato con leggi proprie, con totale autonomia in quanto a politica fiscale, doganale, lavorativa, giudiziaria e per la sicurezza, disponendo anche di un esercito privato; il lavoro supersfruttato e i diritti inesistenti. Un investimento finanziario redditizio ed un paradiso fiscale per riciclare il denaro sporco del narcotraffico. Già qualche anno fa ve n’era una dozzina in Honduras. Nella Valle di Sula ora ne è proprio in progetto una. Alla moltitudine di gente che ha perso il lavoro, perso tutto nelle inondazioni, vuoi non offrire questa “opportunità”?

Possiamo dire che i piani del regime dittatoriale di Juan Orlando Hernández sono a loro volta pezzi di un puzzle che collimano perfettamente con un piano ancora più globale di rapina delle risorse del pianeta e sottomissione delle genti, portato avanti con sistematicità da coloro che attraverso le guerre scatenate con pretesti ed il terrorismo, occultato dietro le svariate etichette dell’estremismo religioso, provocano migrazioni epocali e l’abbandono di territori, sulle cui risorse si avventano e si scannano poi i rapaci di turno.

CRIMINI CONTRO L’UMANITA’, CRIMINI CONTRO LA NATURA, CRIMINI CONTRO IL PIANETA.

 

Fonti:

Le notizie e le foto in questo articolo sono tratte da: Radio Progreso, Criterio, Contra Corriente, COPINH, Paso a Paso,  CESPAD, El Paìs, Deutsche Welle, Newsweek, El Libertador, TuNota, La Cuerda.