Breve storia dell’Islam in Cina – Prima parte

Dal VII secolo d.C. alla Rivoluzione Culturale

 

 

IslamCina1

 

 

 

L’Islam fu introdotto in Cina nel VII secolo d.C., dai mercanti arabi e persiani che viaggiavano lungo le Vie della Seta terrestri e marittime. Sulle coste meridionali della Cina navi da trasporto facevano la spola tra Canton, Chuanzhou, Hangzhou, Yangzhou e i porti del Golfo Persico. Secondo la leggenda, quattro dei primi discepoli di Maometto vennero a diffondere la parola del Profeta tra gli arabi che già vivevano in Cina. Lo zio del Profeta, Saad ibn Abi Waqqas, fu accolto nel 651 dall’imperatore Tang Gaozong a Chang’an (ora Xi’an). Alla metà del VII secolo si fa risalire l’edificazione della prima moschea cinese e la predicazione del Corano a Canton, dove era stato costruito nel 627 un minareto usato come faropresso la moschea Huaisheng, o (per l’appunto) Moschea del Faro. Gli islamici venivano identificati col nome persiano Tashih, con la distinzione in Tashih Vestiti di Bianco (Arabi) e Tashih Vestiti di Nero (Persiani).

La penetrazione per via terrestre dell’Islam si intensificò in seguito alla battaglia del fiume Talas (751), al confine tra Kazakistan e Kirghizistan, quando la dinastia Tang – allora in guerra con l’impero del Tibet per il controllo del bacino del Tarim – fu sconfitta dagli eserciti musulmani. Talas impedì l’espansione cinese verso occidente e favorì la presenza di commercianti musulmani in Cina. Da allora delegazioni ufficiali e relazioni commerciali tra mondo arabo e cinese continuarono a ritmo incalzante: nel 760 si registravano 4000 famiglie arabe a Chang’an (Xi’An) e ambasciate arabe giungevano via terra o via mare.

A partire dalla metà del XIII secolo si registra una significativa presenza di musulmani con la dinastia mongola Yuan (1271-1368), che conferì agli immigrati musulmani uno status superiore rispetto agli autoctoni Han. L’integrazione all’interno della società cinese venne incoraggiata e facilitata dall’adesione all’Islam di Genghis Khan e dei dominatori mongoli i quali fecero largo uso di funzionari di origine araba, persiana e turca. L’alto numero di musulmani all’epoca era espresso dal detto popolare “durante la dinastia Yuan c’erano in tutto il mondo Hui” (Hui è rimasto come nome etnico ad identificare la più importante etnia di maggioranza dei musulmani residenti).

I musulmani sono giunti in Tibet nel XII secolo, come mercanti dal Kashmir e dal Ladakh. Durante il periodo del quinto Dalai Lama (1617-1682) ottennero il permesso di costruire moschee e di avere un cimitero, oltre alla possibilità di acquistare terreni e continuare il loro commercio.

La città di Quanzhou nella provincia di Fujian è citata da Marco Polo come il più grande porto del mondo (da lì nel 1292 Marco Polo partì per il viaggio di ritorno a Venezia), meta di mercanti, missionari e viaggiatori di fede islamica. Nel 1345 Ibn Battuta, il grande viaggiatore marocchino, arrivato a Quanzhou fu accolto dal locale Qadi o Fanzhang (Giudice), dall’imam e dal capo dei mercanti musulmani locali. Ibn Battuta testimoniò di aver visto nel porto migliaia di grandi navi e che la popolazione musulmana viveva all’interno di una parte della città dove c’erano moschee, bazar e ospedali. Dunque le comunità musulmane crescevano in numero ed influenza anche nei principali porti della Via della Seta marittima. Avevano il monopolio del commercio, combattevano la pirateria, godevano di privilegi ed erano relativamente autonomi.

Durante la dinastia Ming (1368-1644) i musulmani cinesi ebbero influenza specialmente negli affari militari. È pur vero che il mondo cinese confuciano ha sempre disprezzato tutto quanto aveva a che fare col commercio e se permise la presenza di musulmani stranieri, cercò sempre di “cinesizzarli”, renderli cioè “più compatibili” con la cultura Han. Ciò spiega perché i musulmani facenti parte della corte imperiale sono ricordati per i loro contributi come astronomi, dottori, ammiragli, ma non per la loro religione. Ricordiamo il famoso navigatore, ammiraglio Zheng He, musulmano ed eunuco reale della dinastia Ming, che dal 1405 fino 1434 effettuò ben sette viaggi esplorativi per mare.

Con l’avvento della dinastia Manciù dei Qing (1644-1911) la situazione si deteriorò: i musulmani iniziarono a soffrire alcune limitazioni nell’esercizio dei commerci e in altre attività, e ciò condusse a un susseguirsi di conflitti e rivolte. All’inizio del XVIII secolo l’Islam divenne Xin Jiào ossia “Nuovo Insegnamento” o Nuova Setta, rappresentato dalle fonti imperiali come una mescolanza sospetta di settarismo mistico e millenarismo in decisa opposizione alla dinastia Qing. Nel 1783 il fondatore della setta fu catturato e messo a morte e i musulmani cinesi dovettero subire una forzata sinizzazione culturale specie nel decennio 1720-30. Venne proibita l’adesione al “Nuovo Insegnamento” e il pellegrinaggio alla Mecca, furono chiuse o distrutte molte moschee, fu proibita la conversione dei non musulmani all’Islam e l’adozione di bambini cinesi da parte di musulmani. L’Islam fu per i Qing una continua fonte di preoccupazione, considerato che nel 1860 rispuntò la Nuova Setta (Xin Jiào) il cui leader sembrò incarnare la profetica figura dall’Imam Mahdi delle sette sciite. Molte insurrezioni musulmane insanguinarono la Cina dei Qing. Dal 1856 al 1873 lo Yunnan fu teatro di una rivolta Hui; tra il 1861 e il 1878 i centri della provincia di Kansu furono devastati dalla rivolta di Kanchow (si calcola siano morti almeno due terzi della popolazione); la città di Lanzhou assistette alla rivolta dei Dungan (1862-1877, repressa con milioni di morti) che intendevano creare un Emirato islamico cinese. L’insurrezione con maggiori conseguenze fu quella del 1862-1863 a Kashgar, con la dittatura di Yaqub Beg e la formazione dello stato del Turkestan, che si protrassero fino a quando il territorio fu riconquistato dai Qing nel 1878.

C’è anche da osservare che i maggiori artefici delle repressioni e delle stragi di ribelli musulmani furono proprio musulmani militari Hui al servizio della dinastia Qing e della Repubblica di Cina. Un esempio è Ma Anliang, che si unì all’esercito imperiale Qing nel 1872 durante la rivolta dei Dungan, prestando aiuto al generale Han nella repressione; egli si segnalò anche nella campagna contro i ribelli turchi di Yaqub Beg. In una seconda rivolta dei Dungan (1895-1896), Ma Anliang affiancò il generale Han: la sua cavalleria liberò dall’assedio la città di Hezhou facendo un macello dei ribelli musulmani che avevano accettato di negoziare. Ma Anliang, anche se musulmano, non mostrò alcuna pietà per i musulmani che si ribellavano contro i Qing, ricevendo così il grado di generale dello Xinjiang e di colonnello di Hezhou. E quando nel 1911 scoppiò la rivoluzione Xinhai condusse più di 20 battaglioni Hui a difendere la dinastia Qing; infine, dopo l’abdicazione dell’imperatore Qing, aderì al Kuomintang, diventando nel 1912 Comandante in Capo del Gansu. La riconquista del Turkestan/Xinjiang da parte del governo centrale cinese è dunque, paradossalmente, dovuta proprio ad un musulmano.

Altro generale di etnia Hui, cui sono stati tributati onori e monumenti è Ma Bufang (1903-1975) cui venne affidata la soppressione delle rivolte tibetane. Quando nel 1932 il Tibet cercò di invadere la provincia di Qinghai, le truppe musulmane di Ma Bufang sconfissero gli eserciti del tredicesimo Dalai Lama. Il governo del Kuomintang sostenne Ma Bufang anche durante le ben 7 spedizioni di sterminio contro le tribù tibetane Ngolok. La fedeltà dei musulmani allo Stato fu in realtà assai utile e funzionale ai progetti di accentramento della dinastia Qing e della Cina repubblicana.

I musulmani godettero di un ruolo importante nella costruzione della Repubblica: per la prima volta l’etnia e la nazionalità Hui vennero legittimate e gli Uiguri della regione dello Xinjiang ebbero finalmente un riconoscimento. La Costituzione del Kuomintang si espresse chiaramente a favore della libertà di religione e stabilì che i rappresentanti musulmani nell’Assemblea Nazionale fossero eletti dai musulmani stessi. Rimanevano i fermenti nello Xinjiang dove i musulmani si ribellarono ad Hami nel 1912 e poi nuovamente nel 1930. Questi movimenti si estesero a Kashgar nel 1933 fino alla proclamazione della prima Repubblica del Turkestan sotto controllo sovietico con Shen Sicai, signore della guerra e dittatore dello Xinjiang dal 1933 al 1944.

Ciò non impedì che venisse fondata la Muslim Association con sede a Pechino e filiali in tutte le province, sostituita nel 1929 dalla China Islamic Association e dalla Chinese Muslim Union, aventi come scopo la pubblicazione e la promozione della letteratura e della cultura musulmana. Una società per la predicazione islamica nacque nel 1933 a Taiyuan; ad Hankou, nel 1937, venne fondata la Federazione Islamica Cinese per la Salvezza Nazionale, presieduta dal generale Omar Pai Chung Hsi, noto per il suo impegno di resistenza contro il Giappone. E viene oggi riconosciuto che molti musulmani hanno dato la vita per la Repubblica e contro l’invasione giapponese: la loro mobilitazione infatti fu totale sul fronte della lotta contro il nemico nipponico, come dimostrano il gran numero di cariche governative e militari occupate da musulmani.

Nel 1945, il Partito definì le politiche etnico-religiose nelle zone controllate. La libertà di religione venne riconosciuta – con chiari limiti – negli articoli 5 e 53 del Programma Comune per il Popolo, approvato dalla Conferenza Consultiva del settembre 1949, cui parteciparono anche rappresentanti del mondo religioso: “Sono ammesse tutte le religioni nelle zone liberate della Cina, secondo il principio della libertà di fede religiosa. Tutti i seguaci del Protestantesimo, del Cattolicesimo, dell’Islam, del Buddismo e altre religioni godono della protezione del governo del popolo, a condizione che rispettino le leggi. Ogni attività superstiziosa e contro-rivoluzionaria intrapresa sotto l’egida della religione è da considerarsi illegale”. Furono emanate anche direttive precise perché tale libertà fosse tutelata soprattutto nelle aree delle minoranze etniche. Per svolgere il compito venne creato un Ufficio per gli Affari delle Minoranze. Questa politica di riconciliazione e di controllo si tradurrà in autonomia regionale concessa ad alcune regioni a grande maggioranza musulmana: Mongolia Interna nel 1947, Xinjiang-Uygur nel 1955, Níngxià Huízú e Guǎngxī nel 1958, Tibet nel 1965.

Ma la liberazione-unificazione di tutto il paese incontrò anche una certa resistenza. Già nel 1947, in Gansu e Shaanxi, gruppi islamisti inflissero una pesante battuta d’arresto al processo di riconoscimento della libertà religiosa. Allo stesso modo fin dal settembre 1949, nel nord del Xinjiang, si erano mobilitate forze per resistere alle riforme e molte province erano insorte contro la riforma agraria. Dopo la liberazione, il 10 gennaio 1951 un quotidiano di Pechino lanciò un attacco contro Maometto, definendolo un “ladro”. La tempesta di proteste dei musulmani che volevano distruggere la sede del giornale costrinse a ritrattare. Nel corso degli anni successivi il quotidiano dello Xinjiang segnalò omicidi, avvelenamenti, sparatorie, pozzi avvelenati, rapine, scippi, linee telefoniche e telegrafiche tagliate, in un crescendo preoccupante anche di casi di insurrezione armata. Nelle province di Xinjiang, Shaanxi e Ningxia apparvero iscrizioni anti-governative. Nell’aprile 1952 a Lanzhou, capitale del Gansu, la moschea fu espropriata, tanto che i musulmani insorsero in armi, continuando la resistenza nel nord dello Xinjiang. Seguirono a Urumqi processi esemplari e condanne a morte.

Solo dal 1953 Pechino adottò un nuovo metodo di riconciliazione, addolcendo i musulmani con la prospettiva di vantaggi materiali e istruendo i giovani a diventare dirigenti responsabili. Per la dirigenza comunista la partita fu lunga e difficile e Pechino aveva ben chiaro di dover trattare le minoranze con cautela, perché sebbene la pratica dell’Islam fosse formalmente una questione privata, la politica religiosa era pur sempre dettata (anche) da ragioni di carattere internazionale. In altre parole, perseguitare la religione islamica avrebbe potuto compromettere le relazioni esterne. Così la politica ufficiale prese la forma di una serie di azioni e contro-azioni, “pugni e carezze”, adeguamento alle reazioni locali, creazione di organizzazioni mirate a tranquillizzare e monitorare, con l’obiettivo di eliminare quelle forze “reazionarie” che influenzavano le masse di fedeli musulmani. La tattica fu di partecipare alle attività dei fedeli per condizionare positivamente, dall’interno, il consenso delle masse islamiche. Alla linea dei “pugni e carezze” è da ascrivere, nel dicembre 1953, l’intervento del primo ministro Zhou Enlai, che, durante il ricevimento di una delegazione indiana, sostenne i Cinque Princìpi di coesistenza pacifica: rispetto reciproco della sovranità e dell’integrità territoriale, non aggressione, non ingerenza negli affari interni, uguaglianza, vantaggio reciproco e coesistenza pacifica. Durante la campagna dei Cento Fiori (1956-57), a dimostrazione della necessità di integrare l’Islam, si inscenarono sessioni pubbliche di “critica” in cui le accuse contro le autorità comuniste vennero mosse proprio da musulmani.

Per tutto il periodo della Rivoluzione culturale (1966-1976) la politica ufficiale ebbe una stretta, come indicato nei manifesti dell’autunno 1966 a Pechino “Chiudere tutte le moschee, sciogliere tutte le associazioni religiose, rimuovere lo studio del Corano, abolire i matrimoni tra correligionari, abolire la circoncisione, internare il clero islamico in campi di lavoro forzato, controllare i riti funebri, sopprimere la celebrazione di feste e festività islamiche”.

La Cina cambierà orientamento in modo radicale con Deng Xiaoping e l’apertura degli anni Ottanta.

 

Maria Morigi è membro del Comitato Scientifico del CIVG e collabora con l’Osservatorio Italiano sulla Nuova Via della Seta. È autrice di numerosi articoli e saggi di storia delle religioni e geopolitica, fra cui “La Perla del Drago – Stato e religioni in Cina” e “Xinjiang ‘Nuova Frontiera’ – Fra antiche e nuove Vie della Seta” (Anteo Edizioni).