La secessione di Slovenia e Croazia dalla Federazione jugoslava quale parte integrante della costruzione del Nuovo Ordine Mondiale, vista nella prospettiva della politica italiana del tempo

La crisi che durante il corso del 1991 portò alla separazione unilaterale delle repubbliche di Slovenia e Croazia dalla Jugoslavia dev'essere inquadrata nel progetto di costruzione del «Nuovo ordine mondiale»[1] basato sull'imperialismo Usa (Washington consensus) successivo al collasso dei governi socialisti dei Paesi dell'Est ed allo smantellamento dell'Unione Sovietica[2]. L'economista Michel Chossudovsky risale alle ragioni ti tipo economico-sociale che condussero alla catastrofe balcanica:

L'implosione della Jugoslavia era in parte dovuta alle macchinazioni statunitensi. Malgrado il non allineamento politico di Belgrado e le sue importanti relazioni con la Comunità europea e gli Usa, l'amministrazione Reagan aveva preso di mira l'economia jugoslava in un «ordine di decisione per la sicurezza nazionale» del 1984 […] intitolato «La politica degli Stati Uniti nei confronti della Jugoslavia», classificato come riservato e segreto. Una versione censurata di questo documento venne resa di dominio pubblico nel 1990; era in gran parte conforme a un precedente Ordine (NSDD 64), emesso nel 1982 e concernente l'Europa orientale. Quest'ultimo perorava «sforzi diffusi per favorire una “rivoluzione silenziosa” che rovesciasse i governi e i partiti comunisti» reintegrando nel frattempo i Paesi dell'Europa orientale nell'economia di mercato[3].

 

Gli Stati Uniti, attraverso l'azione del Fondo monetario internazionale, perseguirono l'obiettivo del fallimento strategico dell'economia jugoslava, così come, dal 1987, attraverso un'analoga manovra, avevano pesantemente condizionato l'andamento dell'economia della Polonia. Aggiunge Chossudovsky:

 

Fin dall'inizio, i programmi sponsorizzati dal Fmi, affrettarono la disintegrazione dell'industria jugoslava […]. Questo processo fu accompagnato dallo smantellamento, pezzo per pezzo, dello stato sociale jugoslavo, con tutte le prevedibili conseguenze sociali […]. Nell'autunno del 1989, proprio prima della caduta del Muro di Berlino, il premier federale Ante Markovic si recò a Washington per incontrare il presidente Bush. Fu promesso «un pacchetto di aiuti finanziari», in cambio di riforme economiche più radicali, fra cui una nuova moneta svalutata, un altro congelamento dei salari, grandi tagli alla spesa pubblica e l'abolizione delle aziende autogestite […]. «La terapia d'urto» iniziò nel gennaio 1990 […]. Il Fmi controllava anche effettivamente la Banca centrale jugoslava. La sua rigorosa politica monetaria menomò la capacità dello Stato di finanziare i programmi economici e di intervento sociale. Le entrate statali che avrebbero dovuto essere trasferite alle repubbliche erano invece usate per il servizio del debito di Belgrado con i Club di Parigi e Londra. Le repubbliche furono per lo più abbandonate a se stesse […]. Con un solo colpo i riformatori avevano preparato il crollo finale della struttura fiscale federale della Jugoslavia e ferito mortalmente le sue istituzioni politiche federali. Tagliando le arterie finanziarie tra Belgrado e le repubbliche, le riforme alimentarono tendenze secessioniste, basate sia su fattori economici[4] che su divisioni etniche, creando una situazione di «secessione de facto» delle repubbliche. La crisi del bilancio, introdotta dal Fmi, creò un fait-accompli economico, che spianò la strada alla formale secessione di Slovenia e Croazia nel giugno 1991[5]

 

Il programma «di austerità» del Fmi e di Markovic, che prevedeva lo smantellamento del sistema di autogestione aziendale, con la messa in liquidazione delle «aziende in perdita», il congelamento dei salari a fronte di un'inflazione in crescita e l'accettazione del principio della disoccupazione di massa fu rifiutato dal governo della repubblica serba[6], mentre, seppur tra varie contraddizioni, venne accettato dalle nuove leadership secessioniste installatesi alla testa dei governi di Slovenia e Croazia dopo le prime elezioni multipartitiche della primavera 1990. Nel 1991, dopo che Germania e Vaticano avevano espressamente manifestato la propria adesione alla separazione di Slovenia e Croazia dalla Federazione balcanica, gli Stati Uniti, inizialmente favorevoli ad una confederazione che prevedesse legami allentati tra le repubbliche jugoslave, approvarono una serie di leggi che di fatto tagliarono l'intera assistenza finanziaria alla Jugoslavia, vincolando la riconsiderazione di tale supporto economico alla condizione che «le repubbliche jugoslave (considerate di fatto entità politiche) “tenessero elezioni separate[7] e tornassero ad essere repubbliche separate” […]. La Cia fece casualmente riferimento alle previsioni di queste leggi come ad una “condanna a morte firmata” per la Jugoslavia»[8]. Nel gennaio 1992, l'ultimo presidente della Jugoslavia ancora formalmente unita, il dirigente nazionalista e separatista croato Stipe Mesic, membro del partito etnicista di destra Hdz (Comunità democratica croata), giunse ad affermare pubblicamente che gli Usa avrebbero dovuto agire nei confronti dell'«aggressione dei serbi e del regime di Milosevic»[9] contro la Croazia “indipendente”, allo stesso modo che per il Kuwait, ossia, «se necessario»[10], attraverso l'intervento armato a favore di quella che il giornalista “comunista” Sandro Curzi ebbe a definire la «guerra di liberazione croata». Secondo Mesic, che le diplomazie occidentali definivano un esponente politico «democratico»[11], la guerra non sarebbe finita fintantoché i serbi non fossero «spaventati»[12] dalla prospettiva di un intervento armato statunitense. 

 

Finora gli Stati Uniti non hanno fatto nulla, riconoscevano il Kuwait e non la Croazia. Ora la Croazia è stata riconosciuta e gli Usa dovrebbero comportarsi di conseguenza […]. Se necessario il nostro prossimo passo sarà la delegittimazione della Jugoslavia all'Onu e il riconoscimento della Croazia in quella sede. La Federazione non esiste più […]. Si sono dissolti tutti gli imperi: quello austroungarico, quello inglese e quello turco. Alla fine le spinte nazionali hanno sempre il sopravvento. E' crollata una dittatura comunista, la Croazia sarà invece un Paese democratico a pieno titolo […]. Il nostro sistema somiglierà a quello francese, o americano[13].

 

In questo contesto, l'iniziale cautela del ministro degli Esteri italiano, il socialista Gianni De Michelis, nell'affrontare la questione del riconoscimento dell'indipendenza di Slovenia e Croazia a seguito della proclamazione unilaterale di queste due repubbliche della secessione[14] ed il relativo intervento in Slovenia dell'Armata popolare jugoslava, volto a ristabilire le prerogative federali sui posti di frontiera, fu aspramente criticato dai politici italiani di orientamento liberaldemocratico e radicale, maggiormente orientati alla logica dell'«interventismo democratico» e persuasi che quella della Slovenia fosse una guerra «di liberazione». Inoltre, la campagna mediatica condotta da giornali e tv a favore della «causa democratica» ed al «diritto di autodeterminazione» dei popoli sloveno e croato, indussero De Michelis, che pure era in linea di principio favorevole alla secessione di Slovenia e Croazia[15], a ricollocarsi allora su di un approccio vincolato al riconoscimento delle due repubbliche in caso di attacco serbo[16]. Ciò significava che l'Italia avrebbe comunque riconosciuto Slovenia e Croazia, in quanto l'intervento dell'Armata popolare era reso inevitabile dal precipitare degli eventi. Inoltre, come già abbiamo accennato, i governi sloveno e croato potevano contare sul determinante appoggio di influenti uomini politici democristiani e socialisti a capo della giunta regionale del Friuli-Venezia Giulia, impegnati a condurre una vera e propria «politica estera parallela a favore delle repubbliche secessionistiche»[17]. Il sostegno alla politica nazionalista dei governi di Lubiana e Zagabria era elaborato in seno alla cosiddetta «Comunità di lavoro delle regioni delle Alpi orientali Alpe Adria»:

 

Risaliva al 20 novembre 1978 la costituzione a Venezia della Comunità Alpe Adria, una originale iniziativa italiana che riuniva tre Lander austriaci (Carinzia, Stiria e Austria Superiore), due regioni italiane (Veneto e Friuli-Venezia Giulia) e due repubbliche socialiste, Slovenia e Croazia. Il libero Stato della Baviera e il Land di Salisburgo partecipavano ai lavori come osservatori. Successivamente, avrebbero aderito anche Trentino-Alto Adige e Lombardia, alcune contee ungheresi e nel 1988 anche la Baviera. Fra i compiti della Comunità, ampi ma volutamente vaghi, quelli […] di «trattare in comune», a livello informativo e tecnico, coordinare problemi che sono nell'interesse dei suoi membri nel settore delle comunicazioni, produzione e trasporto di energia, agricoltura, turismo e dia dicendo […]. Alpe Adria, sosteneva il presidente del Veneto, Cremonese, aveva rafforzato la determinazione di sloveni e croati a stringere un legame sempre più forte con l'Occidente[18].

 

Nei mesi cruciali della crisi jugoslava, i dirigenti del Psi friulano giocarono un ruolo chiave nella ridefinizione, in chiave filo-slovena e filo-croata, dei leader nazionali del partito:

 

Il Psi friulano era in rotta di collisione con la Farnesina e per Ferruccio Saro, influente assessore regionale, la politica jugoslava di De Michelis era condizionata dai suoi rapporti personali con Milosevic e l'insieme della dirigenza serba. De Michelis, d'altro canto, ricambiava inserendo Saro tra i capifila della lobby filocroata e filoslovena[19].

 

La cosiddetta «guerra dei dieci giorni», ossia l'operazione di polizia effettuata dall'Armata popolare jugoslava in Slovenia allo scopo di ripristinare i posti di confine caduti in mano alle milizie della Difesa territoriale del governo di Lubiana[20], fu presentata all'opinione pubblica europea come una riedizione dell'invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia nel 1968. Il paragone era effettivamente antistorico e «non reggeva, ma l'allucinante spettacolo dei carri armati con la stella rossa che entrano a Lubiana era un argomento troppo efficace per sottilizzare: anche senza carri armati, Lubiana comunque “ricordava” Praga»[21]. Non mancarono, d'altro canto, i rimandi alla repressione di Piazza Tienanmen del 4 giugno 1989; le colonne di blindati jugoslavi  che si immaginavano in marcia verso Lubiana riportarono alla mente gli eventi della cosiddetta «primavera di Pechino»[22] di due anni prima, al punto che i media di impostazione liberaldemocratica e moderata assunsero un atteggiamento decisamente favorevole (e talvolta acriticamente favorevole) alla secessione slovena. La dirigenza del Psi (e della Dc), strumentalizzava questo paragone in chiave “anticomunista”, ma il Pds si era, pur con qualche distinguo sul metodo più che nel merito stesso della vicenda relativa alla distruzione della Federazione balcanica[23], schierato a favore del «diritto all'autodeterminazione» di Slovenia e Croazia[24](non senza scivolare, tradendo anche un certo qual populismo, sul terreno dell'«interventismo democratico»)[25], ed anche l'ala maggioritaria di Rifondazione comunista, come dimostravano de dichiarazioni a proposito del senatore (sloveno) Stojan Spetic[26], aveva assunto una linea di condotta pro-repubbliche secessioniste, scorgendo, in un'ottica di interpretazione della realtà storica e politica completamente distorta e subalterna alla vulgata liberale corrente, nella rivolta slovena e croata contro Belgrado una sorta di «guerra di liberazione» contro quello che i leader movimentisti di Rifondazione comunista cominciavano a denominare «il fascismo serbo».  La tendenza degli sloveni alla drammatizzazione del conflitto, era evidente. Scrive a riguardo Nicole Janigro:

 

Dopo la proclamazione dell'indipendenza slovena, il 25 giugno 1991[27], non solo la Difesa territoriale ma anche l'opinione pubblica è pronta a resistere. Il premier Ante Markovic chiede che vengano “ristabiliti i controlli doganali federali”, ma l'Esercito agisce in modo ben più minaccioso[28]. E' qui che avviene il “fatto nuovo”: gli sloveni reagiscono, sparano, a volte attaccano. Sarà [...] Janez Jansa, ministro della Difesa, lo stratega della Difesa territoriale slovena: durante la “breve guerra” appare sempre in tuta mimetica, diffonde notizie di falsi morti[29], l'anno successivo scrive un libro che rivela la sua passione per l'intrigo spionistico[30]. Non si deve sottovalutare però il ruolo dei servizi segreti nel far circolare le versioni più disparate di ogni avvenimento, in una tipica atmosfera da Rashomon. Per l'Armata popolare jugoslava è un' umiliazione […], per i soldati è uno shock. Tutti giovani, molti di leva (le reclute slovene non ci sono più, molti invece i soldati albanesi)[31] non riescono a capire come possano essere considerati un esercito “occupante”. La tattica dell' “assedio alle caserme” - poi ripresa, in una situazione molto più drammatica, dal governo croato – priva di acqua e di luce, isolandoli, gli impianti militari, rende ostaggi sul territorio le famiglie […]. La reazione violenta da parte della Difesa territoriale slovena sconcerta anche gli alti gradi dell'Armata[32] […]. All'inizio di luglio [1991], la presidenza federale, allargata al premier Ante Markovic e al ministro della Difesa Veljko Kadijevic, accetta i punti proposti dalla mediazione Cee. Con gli accordi di Brioni[33], la Slovenia e la Croazia acconsentono al “congelamento” della secessione, l'Esercito inizia a ritirarsi: l'Armata popolare jugoslava lascerà definitivamente la Slovenia il 26 ottobre 1991[34].

 

L'atteggiamento del Psi, e del suo leader in particolare, dinnanzi agli eventi jugoslavi, non lasciava spazio a dubbi di sorta:

 

Il 3 luglio [1991] Craxi esprimeva la sua simpatia per le istanze di autodeterminazione delle repubbliche secessioniste, ricordando lo stretto legame della Slovenia con il Friuli-Venezia Giulia […]. Dopo un incontro con l'onorevole Renzulli, friulano, [Craxi] dichiarava che se la situazione fosse precipitata, il Psi sarebbe stato a favore dell'autodeterminazione dei popoli e contro i carri armati […]. Il giorno dopo il Psi, primo partito della maggioranza, si schierava nettamente a fianco di Lubiana e Zagabria, pur senza parlare ancora (ufficialmente) di indipendenza[35].

 

Dinnanzi alla ferma presa di posizione del segretario socialista, il ministro degli Esteri De Michelis, pur tra qualche imbarazzo, cambiò strategia politica, allineandosi al verdetto pronunciato in merito dal Capo[36]. Nonostante le invettive mosse dal debole governo di Lubiana[37] contro le presunte reticenze del ministro degli Esteri italiano ad appoggiare la causa separatista slovena[38], il nostro Paese non esitò a riconoscere, il 15 gennaio 1992, come del resto previsto dagli accordi internazionali, la secessione di Slovenia e Croazia dalla Federazione jugoslava[39], non senza le consuete esternazioni al limite della legalità costituzionale del presidente Cossiga[40]. Pochi giorni prima del Natale 1991, Gianni De Michelis si recò, calorosamente accolto dal suo “omologo” sloveno Dimitri Rupel, in visita a Lubiana[41], esplicando, nell'occasione, il pensiero politico suo e del Psi riguardo il nodo politico del riconoscimento italiano della secessione slovena. Disse il ministro socialista:

 

Il 15 gennaio la Cee riconoscerà la Slovenia […]. Anche per [la Croazia] il riconoscimento è vicino[42]. Basta che rispetti le regole fissate dalla Comunità europea […]. L'Italia non ha dubbi che la Slovenia abbia già pienamente rispettato i principi stabiliti dalla Cee a Bruxelles. Il 15 gennaio dunque, entrerà a pieno titolo nella grande famiglia europea […]. Saremo perciò pronti un attimo dopo il 15 gennaio ad intensificare le relazioni tra i nostri due Paesi, che sono così vicini, così amici[43].

 

Per quel che concerneva, più in generale, la questione nazionale jugoslava, De Michelis dichiarò infine:

 

Ci sono nove milioni di serbi che nessuno può pensare di cancellare tranquillamente. Mi auguro che la dirigenza serba non conduca il popolo serbo in un vicolo cieco. L'iniziativa comunitaria non lascia spazio alla Serbia, se non quella tracciata a Bruxelles: rinunciare cioè alla strada impossibile dell'uso della forza. Belgrado deve capire che non ci sono più margini per continuare come prima: nessuno in Europa, anche fra chi aveva simpatia per la Serbia, può più ammettere che si segua la logica delle armi. [Il riconoscimento della Slovenia e della Croazia comunque non sarà sufficiente a risolvere la crisi jugoslava]. Lo dimostra il caso della Bosnia Erzegovina […]. Io vorrei che a chiedere il riconoscimento non siano quindi soltanto la Slovenia e la Croazia, ma tutte le repubbliche jugoslave, a cominciare dalla Macedonia, con la quale ho un particolare rapporto di amicizia. Spero che la Bosnia[44] e il Montenegro[45] non perdano questa occasione[46].

 

La successiva questione jugoslava approfondirà ulteriormente questa tematica, con un declinante Partito socialista al governo impegnato in un'azione di politica estera mediaticamente propagandata come «realista», a fronte di un Pds all'opposizione (ma sempre più intento ad accreditarsi presso i circoli politico-militari atlantici come futura «responsabile» ed «affidabile» forza «riformista»[47] di governo) decisamente instradato sulla via dell'idealismo «interventista umanitario»[48] e liberal[49].  Di fonte alla secessione, unilaterale ed illegale, delle repubbliche federate di Slovenia e Croazia dalla Jugoslavia, il ministro degli Esteri italiano, il socialista Gianni De Michelis, tenne inizialmente un atteggiamento improntato alla malcelata “equidistanza” tra le parti in causa[50], giungendo addirittura a muovere critiche alla politica estera vaticana[51], decisamente improntata al sostegno al separatismo croato connaturato da un fondamentalismo clerico-fascista di ustascia memoria[52]. In realtà il sostegno dei socialisti italiani alla secessione di Slovenia e Croazia, così come nel caso delle tre repubbliche baltiche separatesi dall'Urss all'inizio di settembre del 1991[53], non fu mai in discussione e, come abbiamo avuto  modo di osservare, i dirigenti locali del Psi friulano lavorarono alacremente in tale direzione.

 

Paolo Borgognone, CIVG, 19 aprile 2013.



[1]   Cfr. O. Hillard, Histoire du «Nouvel ordre mondial», in «Réseau Voltaire», 21 febbraio 2010. 

[2]   In particolare, sulle cause del processo di smembramento della Jugoslavia, vedasi: D. Johnstone, Breaking Yugoslavia, in «New Left Project», 3 marzo 2010; P. Iskenderov, The disintegration of Yugoslavia, in «Global Research», 14 novembre 2009; J. D. Oja, The origins of the war in the Balkans, in «Global research», 19 marzo 2006.  

[3]   M. Chossudovsky, Globalizzazione della povertà e Nuovo ordine mondiale, EGA, Torino, 2003, p. 318. La tesi di Chossudovsky sulle responsabilità dell'amministrazione Reagan nello scatenamento delle insurrezioni non-violente che rovesciarono i governi comunisti dei Paesi dell'Europa orientale è confermata da autori quali Samuel P. Huntington (La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del secolo XX, Il Mulino, Bologna, 1991) laddove afferma che i simboli della trasformazione politica dei regimi dell'Est potrebbero essere sintetizzati in un logo raffigurante l'icona di un dollaro statunitense sovrapposto ad una croce cristiana, e Costantine Pleshakov, che scrive: «Il presidente Ronald Reagan è il capo di Stato occidentale cui giustamente va riconosciuto il merito di aver ispirato la rivolta in Europa orientale». C. Pleshakov, Berlino 1989: la caduta del Muro, Corbaccio, Milano, 2009, p. 297.

[4]   Il rappresentante croato alla presidenza collegiale jugoslava nel 1990, poi ultimo presidente della Jugoslavia per un breve periodo (a seguito degli Accordi di Brioni) nel 1991 e, dal 2000 al 2010 Capo di Stato della Croazia, Stipe Mesic, ebbe a tal proposito a dichiarare: «La Federazione [jugoslava] è finita […]. Le colonie inglesi davano a Londra il 4% dei loro averi. Noi pagavamo a Belgrado l'8%, cioè più di qualsiasi colonia». T. Fontana, «Bush intervenga come in Kuwait». Mesic alza il tiro: «Bisogna spaventare Belgrado», intervista a Stipe Mesic, in «l'Unità», 17 gennaio 1992. 

[5]   M. Chossudovsky, Globalizzazione della povertà e Nuovo ordine mondiale, cit., p. 319-320.

[6]   Gli Usa non perdoneranno mai alla Serbia la mancata accettazione del pacchetto di aggiustamenti economici previsti dal Fmi nel 1990 e imporranno a questa repubblica, a seguito della brutale aggressione del marzo-giugno 1999, un'analoga serie di misure volte a sradicare e smantellare lo stato sociale serbo in nome dei principi della «democrazia liberale» e del «libero mercato». Cfr. G. Elich, Devastating “free market” reforms imposed on Serbia, in «Global research», 28 ottobre 2009.

[7]   Le elezioni politiche “separate” tenutesi nelle varie repubbliche jugoslave confermarono la tendenza emersa nei mesi precedenti; Slovenia e Croazia si ritrovarono con alla testa governi di destra (nel caso croato di destra estrema, fascista), espressioni di maggioranze parlamentari controllate da partiti o coalizioni di partiti che godevano dell'appoggio di finanziamenti stranieri. Il Partito popolare austriaco (Oevp, ovvero la Democrazia cristiana locale), favorevole alla secessione, finanziò la campagna elettorale del cartello di centrodestra sloveno Demos (Opposizione democratica slovena, composta da partiti di varia tendenza, ma dominata dal più grande di essi, la cattolico-conservatrice Unione democratica slovena), che vinse le prime elezioni competitive tenutesi sul territorio repubblicano nella primavera del 1990 con il 54% dei voti.

[8]   M. Chossudovsky, Globalizzazione della povertà e Nuovo ordine mondiale, cit., p. 329.

[9]   T. Fontana, «Bush intervenga come in Kuwait». Mesic alza il tiro: «Bisogna spaventare Belgrado», intervista a Stipe Mesic, cit.

[10] Ivi.

[11] Mesic diceva nel 1992 riguardo al proprio orientamento politico: «Sono stato comunista per diciassette anni. I miei famigliari erano partigiani, gli ustascia hanno ucciso undici di loro. Ho abbandonato i comunisti nel 1971, volevo la democrazia e la libera iniziativa […]. Il comunismo è un'illusione, una malattia contagiosa. Quando si guarisce se ne diventa immuni. [Oggi mi definirei] un centrista. L'Hdz ha forti somiglianze con la […] Democrazia cristiana, è un partito di centro che raccoglie spinte di destra e di sinistra». Ivi. Esibendo credenziali ideologiche di questo tipo, non v'era da stupirsi che, nell'Occidente capitalista, l'anticomunismo sciovinista e separatista di Mesic potesse essere immediatamente accolto e salutato quale espressione di un «auspicato approdo alla democrazia liberale» da parte della dirigenza ex-comunista croata.

[12] Ivi.

[13] Ivi.

[14] Scrive a riguardo Piero Craveri: «[...] La diplomazia italiana, guidata dal ministro Gianni De Michelis, tergiversò a lungo in difesa del principio di conservazione di un'unità federale tra le diverse nazionalità jugoslave […]. L'Italia non si schierava né da un lato, né dall'altro. Vedeva inevitabilmente riaprirsi con Slovenia e Croazia il problema della tutela della propria minoranza etnica, ritenuto definitivamente chiuso con il trattato di Osimo. Peraltro non era in grado di tendere la mano ai serbi, essendoci su questo un'implicita, anche se inespressa, pregiudiziale cattolica. [L'Italia] finì per accodarsi alla tesi del riconoscimento separato di Slovenia e Croazia quando la Repubblica federale tedesca prese quella decisione (gennaio 1992), lasciando dietro a sé, con questa condotta ondivaga, una scia di rinfocolate diffidenze». P. Craveri, La destabilizzazione del sistema politico, in P. Craveri, a cura di, Italia. Storia contemporanea, vol. 7, Gli anni Ottanta, la crisi del sistema politico, l'Italia contemporanea, Istituto geografico De Agostini, Novara, 2007, p. 41. Negli anni a seguire, queste «diffidenze» da parte degli Stati dell'Alleanza atlantica, Usa e Germania in particolare, nei riguardi della politica balcanica dell'Italia saranno spazzate via dalla convinta adesione del governo di centrosinistra guidato da D'Alema alla brutale aggressione della Nato contro la Federazione jugoslava per la federazione del Kosovo nel marzo 1999. Per un'analisi dei fattori ivi-descritti e, soprattutto, del ruolo degli intellettuali, vedasi: A. d'Orsi, Al supermercato della storia: propaganda di guerra per il Kosovo, in I chierici alla guerra. La seduzione bellica sugli intellettuali da Adua a Baghdad, Bollati Boringhieri, Torino, 2005, p. 181-214.

[15] L'ondivago ed interessatamente ambiguo atteggiamento della diplomazia e della politica italiana nei confronti della questione slovena è ben descritta da Barbara Gruden: «[...] attraverso il ministro degli Esteri, Gianni De Michelis, l'Italia fa mostra di un approccio rigorosamente negativo alla prospettiva della secessione slovena. In realtà, gli ambienti cattolici e democristiani del vecchio continente (con, in prima fila, la Cdu tedesca) incoraggiano Slovenia e Croazia. E il primo ambasciatore sloveno in Italia, Marko Kosin, descriverà così le sensazioni alla fine della visita a Roma, nei giorni immediatamente precedenti la dichiarazione di indipendenza: “La politica ufficiale italiana si opponeva ai nostri progetti, ma molte personalità avevano tacitamente accettato la nostra decisione: il fronte politico italiano, insomma, non avrebbe contrastato in modo unitario i nostri sforzi”». B. Gruden, Slovenia. Una morte annunciata, in A. Marzo Magno, a cura di, La guerra dei dieci anni, Il Saggiatore, Milano, 2001, p. 60. 

[16] Cfr. L. Fabiani, L'Italia cambia linea. «Sì» all'indipendenza se c'è l'attacco, in «la Repubblica», 4 luglio 1991; G. Barendson, «Riconoscimento se c'è l'attacco», in «la Repubblica», 7 luglio 1991. Le principali forze politiche italiane erano favorevoli alla secessione di Slovenia e Croazia. Il democristiano Flaminio Piccoli disse: «L'obiettivo è l'indipendenza di Slovenia e Croazia, al di là di questa soluzione non ci sarà pace in Jugoslavia». Antonio Rubbi, del Pds, chiese al governo maggior risolutezza nell'affermare l'appoggio italiano alle repubbliche secessioniste. I radicali chiesero addirittura le dimissioni di De Michelis per la sua politica improntata al «realismo» e giudicata dai pannelliani «fallimentare», ed anche i missini sostennero la causa nazionalista di Slovenia e Croazia. Su quest'ultimo punto, vedasi: F. Fubini, Quando Fini sognava Istria e Dalmazia, in I nuovi muri, «Limes», n. 1, 1996, p. 289-303.

[17] A. Sema, Estate 1991: gli amici italiani di Lubiana, in La Russia e noi, «Limes», n. 1, 1994, p. 215. Dello stesso autore, sull'argomento: Il triangolo strategico Trieste-Fiume-Capodistria, in La guerra in Europa, cit., p. 183-195.

[18] A. Sema, Estate 1991: gli amici italiani di Lubiana, cit., p. 216.

[19] Ivi, p. 218. Il sostegno dei partiti italiani di governo, in particolar modo Dc e Psi, alla secessione slovena è confermato dalla storica Marina Cattaruzza. Cfr. M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 354.

[20] Scrive B. Gruden: «[...] tra il 26 e il 27 giugno […] il governo federale [jugoslavo] (a causa del vacuum della presidenza federale) approva un decreto con cui affida ai ministri della Difesa e degli Interni l'incarico di dispiegare unità dell'Esercito sulle frontiere per salvaguardare l'unità territoriale jugoslava. A firmare il provvedimento […] è il premier federale [Ante] Markovic […]. Un'operazione di polizia in cui vengano impiegati solo tre o quattromila uomini dei trentamila di stanza in Slovenia: questo è ciò che chiede Markovic e che l'Armata mette inizialmente in atto». B. Gruden, Slovenia. Una morte annunciata, in A. Marzo Magno, a cura di, La guerra dei dieci anni, op. cit., p. 61. Lo stesso ministro della Difesa jugoslavo, generale Veljko Kadijevic, in contrasto con il suo vice, generale Blagoje Adzic, si dichiarò contrario ad un'operazione militare su larga scala, volta a rovesciare il governo di destra sloveno e sostituirlo con un comitato di salute pubblica, insistendo per un approccio meno radicale, focalizzato sulla necessità di una dimostrazione di forza, tesa a riportare alla ragione i governanti sloveni ed indurli così a ritornare sui propri passi, rinunciando alla secessione.

[21] A. Sema, Estate 1991: gli amici italiani di Lubiana, cit., p. 220.

[22] Cfr. Voce Primavera di Pechino, in S. Pons, R. Service, a cura di, Dizionario del comunismo nel XX secolo, vol. II, op. cit., p. 286-287.

[23] Cfr. S. Bianchini, Puzzle jugoslavo, in «l'Unità», 26 giugno 1991; P. Fassino, Un nuovo patto per evitare il peggio, in «l'Unità», 29 giugno 1991. In questo editoriale Fassino, dopo aver individuato nella morte di Tito il fattore determinante che diede il via alla disgregazione della Jugoslavia (analisi banale, quantomeno semplicistica, perché trascura le citate ingerenze dei circoli finanziari internazionali favorevoli al collasso economico del Paese), scrive: «Sarebbe […] del tutto velleitario e illusorio pensare oggi di ripristinare semplicemente quella Federazione jugoslava che abbiamo conosciuto per mezzo secolo e che oggi non c'è più perché sono venute meno le condizioni del tutto particolari che ne avevano permesso l'esistenza (il riferimento è alla guerra di liberazione condotta unitariamente dai partigiani nel 1941-1944 ed alla figura carismatica del Maresciallo Tito quale “padre della patria”, nda). Ma al tempo stesso appare evidente che la semplice dissoluzione della Federazione può comportare il rischio di un'atomizzazione nazionalistica – la balcanizzazione appunto – priva di prospettive e densa di rischi […]. Per questo è necessario lavorare per una soluzione fondata contemporaneamente sul riconoscimento della sovranità delle repubbliche e sulla stipulazione tra di esse di un nuovo patto istituzionale che consenta alla Jugoslavia di esistere in forme nuove come soggetto di diritto internazionale». Fassino non specifica quali debbano essere queste «nuove forme» di esistenza della Jugoslavia nel quadro di una frantumazione nazionale de facto, ma esplicita senza dubbio il suo favore alla secessione di Slovenia e Croazia: «In Slovenia e Croazia ci sono stati referendum popolari sulla sovranità con esiti plebiscitari».       

[24] «La crisi dello Stato jugoslavo mette in diretto conflitto principi e valori che sono tutti concretamente meritevoli di tutela. Il principio dell'autodeterminazione dei popoli costituisce uno dei fondamenti dell'ordine internazionale, almeno a partire dalla Conferenza di Versailles. Pertanto gli atti di secessione della Slovenia e della Croazia possono essere criticati sul piano politico […] ma non è possibile minimizzare o rimuovere la ragioni di fatto e di diritto che ne costituiscono il fondamento». G. G. Migone, La Jugoslavia e noi, in «l'Unità», 27 giugno 1991. La proposta del Pds era quella di affidare la gestione della crisi ad un'entità sovranazionale, la Cee e l'Onu in primis, privando così, nei fatti, la Federazione jugoslava della effettiva sovranità nazionale e nella possibilità di gestire secondo la propria Costituzione l'emergenza in cui era stata ad arte precipitata.

[25] Cfr. R. Foa, Bisogna intervenire subito, in «l'Unità», 28 giugno 1991.

[26] Il senatore dell'allora Mrc (Movimento per la Rifondazione comunista) Stojan Spetic, sloveno, ebbe a dire a riguardo: «L'insistenza sulla formula della “Jugoslavia unita e democratica” può suonare come un sostegno alle tesi centralistiche […]. Noi possiamo auspicarlo [il mantenimento della Federazione jugoslava] ma a volerlo devono essere i popoli della Jugoslavia dopo la dissoluzione della federazione. E' in questo senso che andavano valutate le decisioni delle repubbliche croata e slovena, sancite quest'inverno con referendum popolari. Già sei mesi fa la Slovenia aveva deciso: non la secessione unilaterale, ma la dissoluzione da una federazione che ormai le andava stretta, per offrire […] l'avvio di trattative sulla creazione di una comunità di stati sovrani […]. L'intervento brutale delle armate federali ha scavato un baratro laddove era stato invece tracciato un percorso democratico. Questa è la ragione profonda della crisi jugoslava […]. Con l'aggressione ad uno dei popoli jugoslavi [l'Armata popolare] ha cessato di essere – ma da un decennio non lo era più – la forza coesiva del Paese ed un soggetto politico da rispettare. E' chiaro ormai che un patto di associazione tra stati sovrani non potrà prescindere dallo smantellamento di questa struttura e la creazione di forze armate nazionali, collegate da comandi paritetici e da possibili alleanze difensive». S. Spetic, Sovrani e federati, in «il manifesto», 6 luglio 1991. Le dichiarazioni di Spetic furono appropriatamente contestate dalla corrente “cossuttiana di sinistra” del partito; vedasi a riguardo il pertinente articolo: C. Moffa e altri, Nazionalismi, un conflitto Nord-Sud, in «il manifesto», 10 luglio 1991.

[27] Cfr. G. Muslin, Slovenia e Croazia, nascono due Stati, in «l'Unità», 26 giugno 1991; a titolo indicativo, si veda anche: S. Trevisani, Milovan Gilas: «Sono maledetti nazionalisti. Li fermerebbe solo un esercito superpartes», intervista a Milovan Gilas, in «l'Unità», 26 giugno 1991.

[28] Il comando dell'Armata popolare jugoslava cercò di ottenere dalle autorità governative federali l'autorizzazione, di fronte all'inaspettata reazione della Difesa territoriale ed al conseguente fallimento dell'operazione di polizia tramite l'esclusivo l'utilizzo di armi leggere inizialmente concordata con il governo Markovic, di intraprendere una campagna militare di vasto raggio, tesa ad esautorare il governo sloveno e riprendere il controllo non solo dei posti di frontiera, ma anche militare e politico della repubblica secessionista. Il piano, che incontrava il favore del viceministro della Difesa Adzic (il quale accusò i dirigenti di Belgrado di tentennare alla ricerca di un negoziato mentre gli sloveni attaccavano continuamente e con ogni mezzo le truppe federali) venne respinto dalla presidenza collegiale jugoslava.

[29] Cfr. G. Muslin, Slovenia nel caos, si combatte ovunque. Il ministro della Difesa: «Centinaia di morti», in «l'Unità», 28 giugno 1991. Già il primo giorno di guerra, 27 giugno 1991, «le autorità di Lubiana dimostrano di conoscere bene i meccanismi della propaganda. In serata, il ministro dell'Informazione Kacin, con la pistola alla cintola, e quello della Difesa Jansa, che veste ormai solo la divisa militare, comunicano ai mezzi d'informazione che il conflitto ha creato ormai “un centinaio tra morti e feriti”. L'orario è ormai proibitivo per i giornalisti che non possono più verificare la notizia […]. Ma il giorno dopo, sulle prime pagine dei quotidiani quell'informazione verrà semplificata in “più di cento morti”. […]. Nelle sue  memorie, Jansa non avrà alcuna difficoltà a scrivere che si trattava quasi esclusivamente di feriti, “per fortuna in modo lieve”. Alla fine del primo giorno di guerra, insomma, Lubiana ha già posto le basi per un totale successo mediatico […], anche se gli scontri sono appena cominciati». B. Gruden, Slovenia. Una morte annunciata, in A. Marzo Magno, a cura di, La guerra dei dieci anni, op. cit., p. 64-65. Secondo Sema, che afferma ciò non senza una certa qual ironia di fondo, per il governo sloveno «non era facilissimo gestire propagandisticamente un conflitto con 35 morti e 2.013 prigionieri da parte federale contro i 5 caduti sloveni». A. Sema, Estate 1991: gli amici italiani di Lubiana, cit., p. 224.

[30] Jansa ed i suoi seguaci perseguivano una linea politico-militare improntata a determinare il fallimento di ogni ipotesi di tregua negoziata, interpretata come un ostacolo al raggiungimento del loro obiettivo dichiarato, la secessione della Slovenia dalla Jugoslavia: «[Il 29 giugno 1991] Jansa e i “falchi” di Lubiana avevano deciso di far fallire la tregua [negoziata dalla troika della Cee, comprendente anche il ministro degli Esteri italiano De Michelis]. Nella notte i deputati sloveni sarebbero stati convocati in seduta segreta. Poi, con le sparatorie che che si sentivano davanti alla sede del parlamento, si sarebbe resa inevitabile la necessità di rifugiarsi nei sotterranei. Così, all'alba, la popolazione di Lubiana avrebbe appreso che aerei ed elicotteri federali erano in procinto di attaccare la Slovenia. Secondo alcuni si viveva nello stesso “clima surreale della rivoluzione rumena, con centinaia di giornalisti a brancolare in una cortina fumogena di iper-informazione”. In quel clima artificiosamente surriscaldato, i deputati avrebbero sancito l'operato del governo e riconfermato l'indipendenza». Ivi, p. 220. Di fronte alla messa in discussione del cessate il fuoco da parte slovena, Belgrado avrebbe reagito con un monito al governo di Lubiana, strumentalizzato da quest'ultimo come una sorta di ultimatum di fronte al quale la troika europea non poteva non intervenire, a favore naturalmente del “Davide” sloveno minacciato dal “Golia” serbo. 

[31] Dei soldati del V Distretto militare dell'Armata popolare jugoslava che nel 1990-'91 si trovava di stanza in Slovenia al comando del generale Andrija Raseta, il 30% erano albanesi, il 20% croati, dal 15 al 20% serbi e montenegrini, il 10% musulmani-bosniaci, l'8% sloveni. L'estrema frammentazione etnica delle truppe federali impegnate nell'operazione ebbe a rivelarsi uno svantaggio morale nei confronti della Difesa territoriale slovena, etnicamente compatta e composta di elementi integralmente fedeli al governo di Lubiana. Molti soldati dell'Armata popolare jugoslava inizialmente non si accorsero di aver preso parte ad un attacco reale piuttosto che ad una esercitazione ma ciò che più conta era il fatto che, a differenza dei loro comandanti, generalmente favorevoli al mantenimento dell'unità federale jugoslava, le giovani reclute provenienti dalle repubbliche e dalle regioni autonome dove già serpeggiava il virus del secessionismo nazionalista, come Croazia e Kosovo, non trovavano motivazione nel combattere contro gli sloveni.

[32] Il “ministro della Difesa” sloveno Jansa ordinò attacchi violenti ed operazioni di guerriglia contro l'Armata popolare «anche in situazioni in cui le intenzioni offensive dell'Armata sono perlomeno dubbie». B. Gruden, Slovenia. Una morte annunciata, in A. Marzo Magno, a cura di, La guerra dei dieci anni, op. cit., p. 63.

[33] Gli Accordi di Brioni, dal nome dell'isola della Repubblica di Croazia dove venne stipulato il trattato, firmati il 7 luglio 1991 dai rappresentanti dei governi di Slovenia e Croazia e dalle autorità federali jugoslave (presidenza collegiale, primo ministro, ministro degli Esteri, ministro degli Interni, ministro della Difesa e primo-viceministro della Difesa) sotto l'egida della Cee (la cosiddetta troika, composta nell'occasione dai ministri degli Esteri di Paesi Bassi, Lussemburgo e Portogallo) posero fine alla breve guerra slovena; l'Armata popolare jugoslava si impegnò solennemente a ritirare i propri contingenti dalla Slovenia, il cui governo, in cambio, sospendeva per una durata di tre mesi il processo di secessione. L'8 ottobre 1991, scaduti i tre mesi concordati, pur essendo ancora sul territorio sloveno l'Armata popolare, Lubiana ribadì la propria volontà di abbandonare la Federazione e, insieme alla Croazia, venne riconosciuta da Cee, Stati Uniti, Vaticano e Onu il 15 gennaio 1992. 

[34] N. Janigro, L'esplosione delle nazioni. Le guerre balcaniche di fine secolo, Feltrinelli, Milano, 1999, p. 21-22. Secondo le fonti slovene, il conflitto costò all'Armata popolare jugoslava 44 morti e 146 feriti, a fronte di 18 morti e 182 feriti tra gli sloveni. Rimasero altresì uccisi 12 cittadini stranieri, tra giornalisti e camionisti bulgari rimasti imprigionati nel mezzo delle linee di fuoco.

[35] A. Sema, Estate 1991: gli amici italiani di Lubiana, cit., p. 224 e 221.

[36]   Cfr. L. Fabiani, L'Italia cambia linea. «Sì» all'indipendenza se c'è l'attacco, in «la Repubblica», 4 luglio 1991. De Michelis affermò nell'occasione, semplificando alquanto, che se la scelta era tra i carri armati dell'Esercito jugoslavo e la “resistenza” del popolo sloveno, avrebbe optato senza dubbio per sostenere quest'ultima.

[37] Cfr. G. Muslin, A 7 mesi dallo strappo governo sloveno in crisi, in «l'Unità», 18 gennaio 1992.

[38] Cfr. A. Longo, Lubiana accusa: l'Italia non ci aiuta, in «la Repubblica», 10 ottobre 1991.

[39] Cfr. F. Galvano, Slovenia riconosciuta a pieni voti, ma a Zagabria la Cee chiede garanzie sulle minoranze, in «La Stampa», 16 gennaio 1992;  S. Trevisani, Cee: «Sì a Slovenia e Croazia», in «l'Unità», 16 gennaio 1992. 

[40] Cfr. T. Fontana, Cossiga riconosce Tudjman e Kucan. «L'Italia è pronta a dare assistenza militare alla Slovenia», in   «l'Unità», 18 gennaio 1992. Cossiga fu poi costretto a smentire le proprie dichiarazioni circa un possibile intervento militare italiano a fianco di Slovenia e Croazia nell'ambito della crisi jugoslava. Per l'esattezza, Cossiga aveva detto durante la sua visita in Istria il 17 gennaio '92: «L'Italia è disponibile a fornire assistenza militare alla Slovenia per risolvere i suoi problemi di sicurezza e di difesa». Cit. in: G. Muslin, Cossiga corregge Cossiga. «In Slovenia e Croazia assistenza e non armi», in «l'Unità», 19 gennaio 1992.   

[41] Il ministro degli Esteri Rupel disse a proposito dell'incontro con De Michelis: «La sua visita riveste un significato particolare, perché sostiene il processo democratico della Slovenia di cui il nostro partito sarà un pilastro». Cit. in L. Coen, De Michelis conquista Lubiana: «Slovenia, sei tornata in Europa», in «la Repubblica», 22 dicembre 1991. La presenza di De Michelis a Lubiana infatti, non essendo la Slovenia, almeno formalmente, un Paese riconosciuto a livello internazionale, non si configurò come una visita in qualità di capo della diplomazia italiana bensì, almeno dal punto di vista del mero protocollo, come un'ospitata al congresso di fondazione del Partito democratico (Ds, Demokratka stranka), di ispirazione social-liberale e dunque teoricamente vicino, dal punto di vista ideologico, al Psi. Il Partito democratico era nato da una scissione della coalizione Demos, egemonizzata dai conservatori dell'Unione democratica slovena e dai democristiani e si proponeva di costruire un'alternativa di sinistra liberaldemocratica per la guida del governo. Capitanato da nomi altisonanti della politica slovena dell'epoca, come il citato “ministro degli Esteri” Rupel, il ministro dell'Interno Igor Bavcar ed il ministro dell'Informazione Jelko Kacin, il Ds ottenne alle elezioni parlamentari del 1992 appena il 5% dei voti (e 6 seggi). Questo insuccesso determinò la successiva crisi ed infine lo sfaldamento del partito, che da allora non ha più ottenuto rappresentanti all'Assemblea legislativa.

[42] Cfr. L. Fabiani, Compromesso sulla Croazia, in «la Repubblica», 17 dicembre 1991.

[43] L. Coen, De Michelis conquista Lubiana: «Slovenia, sei tornata in Europa», cit.

[44] Sulla questione bosniaca, vedasi: N. Malcom, La guerra di Bosnia: una tragedia annunciata. Attori nazionali e spettatori internazionali del conflitto nella ex-Jugoslavia, Franco Angeli, Milano, 1994.

[45] Cfr. Non firmato, Montenegro: «Indipendenza anche per noi», in «La Stampa», 16 gennaio 1992. 

[46] L. Coen, De Michelis conquista Lubiana: «Slovenia, sei tornata in Europa», cit.

[47] Cfr. G. Napolitano, Chi ha paura del riformismo, in «la Repubblica», 11 gennaio 1989. Scrive a riguardo Domenico Losurdo: «A coloro che avessero dimenticato la lezione del primo conflitto mondiale, che vede i partiti della Seconda Internazionale sostenere in larga parte le ragioni delle armi, la guerra del Golfo dovrebbe aver provveduto a rinfrescare la memoria. In Italia la spedizione anti-irakena ha coinciso con la fondazione del Partito democratico della sinistra e l'emergere nel suo seno di un'agguerrita ala “riformista” che si è subito distinta per la netta presa di distanza da un'agitazione pacifista subito bollata come demagogica e priva di senso di responsabilità nei confronti della nazione e dei suoi impegni di politica internazionale. Napolitano e i suoi ideologi sono venuti così a collocarsi nel solco di una tradizione che ha conosciuto il suo momento culminante nel corso del primo conflitto mondiale». D. Losurdo, Marx e il bilancio storico del Novecento, La scuola di Pitagora editrice, Napoli, 2009, p. 139-140.

[48] Cfr. D. Losurdo, Strani questi cavalieri dell'Ideale scesi in campo contro Saddam, in «l'Unità», 11 agosto 1990 e D. Losurdo, Quelle strane parole d'ordine della sinistra che si schiera con “l'interventismo democratico”, in «l'Unità», 19 gennaio 1991. 

[49] Cfr. M. L. Salvadori, La risposta sbagliata al terrorismo, in «l'Unità», 28 giugno 1993; all'articolo del professor Salvadori, vero e proprio manifesto dell' «'interventismo democratico» della sinistra liberal e neo-clintoniana di Occhetto e Veltroni,  rispose il filosofo Domenico Losurdo, riprendendo con la dovuta sensatezza, lontano dagli stereotipi craxiani e pidiessini, il tema della «unità della sinistra»; scrive infatti Losurdo: «Torniamo […] al problema dell'unità della sinistra. Tale parola d'ordine risponde ad un'esigenza largamente sentita. E, tuttavia, essa risulterebbe mistificatoria se prescindesse dalla lotta contro il processo in atto di ricolonizzazione del Terzo Mondo.  Un'autentica unità della sinistra implica non solo la condanna preliminare e senza equivoci del “democratico” Clinton e del “socialista” Mitterand, ma anche una netta linea di demarcazione rispetto a coloro che si rivelano subalterni e persino complici nei confronti della politica di banditismo imperialista che le grandi potenze dell'Occidente applicano ormai senza alcun pudore». D. Losurdo, La sinistra del neo-colonialismo, in «Liberazione», 9 luglio 1993. Una prospettiva di «unità a sinistra» ideologicamente antitetica a quella proposta da Losurdo è in: U. Ranieri, L'unità socialista è troppo poco. Pds e Psi devono costruire una grande alleanza riformatrice, in «l'Unità», 25 giugno 1991. L'autore dell'editoriale, il dirigente pidiessino Umberto Ranieri, era politicamente collocato tra i “miglioristi” vicini a Giorgio Napolitano.

[50] Questo atteggiamento improntato alla “neutralità” da parte della diplomazia italiana riguardo al caso jugoslavo è sottolineata dallo storico sloveno Joze Pirjevec, anticomunista ed aperto sostenitore della causa «nazionale» del suo Paese: «Nei circoli governativi internazionali era infatti assai diffusa la convinzione che la Jugoslavia fosse alla fin fine una Grande Serbia da preservare nella sua integrità, a costo di lasciarla in balìa di Slobodan Milosevic e dell'Armata popolare, capeggiata da un gruppo di generali vetero-comunisti. Gianni De Michelis, il ministro degli Esteri italiano, diceva nella primavera 1991 ai suoi interlocutori sloveni: “Signori miei, in Europa non c'è più posto per nuovi Stati, e voi sicuramente non volete trasferirvi in un altro continente”». J. Pirjevec, Le guerre jugoslave 1991-1999, Einaudi, Torino, 2002, p. 35. Preoccupazione per il precipitare degli avvenimenti nella Federazione balcanica fu espressa anche dal Pds, che pure si schierava, all'epoca, per il mantenimento di una Jugoslavia liberaldemocratica e federalista, sgombra dal “cancro” del «nazionalismo serbo» di Slobodan Milosevic. Cfr. S. Bianchini, Puzzle jugoslavo, in «l'Unità», 26 giugno 1991; S. Trevisani, Milovan Gilas: «Sono maledetti nazionalisti. Li fermerebbe solo un esercito super partes», intervista a Milovan Gilas, in «l'Unità», 26 giugno 1991, dove si rileva la tendenza, sostenuta dall'ex-delfino di Tito approdato alle soglie del dissenso socialista democratico e libertario e condivisa dalla leadership del Pds, di equiparare tutti i nazionalismi in campo nella contesa balcanica, senza distinzione di sorta tra il separatismo fascista messo in atto dalla dirigenza croata di Franjo Tudjman e dell'Hdz ed il patriottismo socialdemocratico ed unitario espressione del governo di Belgrado; G. Migone, La Jugoslavia e noi, in «l'Unità», 27 giugno 1991; M. Ajello, La responsabilità degli intellettuali «Competitivi e monomaniaci», intervista ad Angelo Tamborra, in «l'Unità», 29 giugno 1991; questi ultimi due articoli, in particolare, in perfetta consonanza con la linea ufficiale del Pds, riconoscono la fondatezza delle aspirazioni al principio di «autodeterminazione nazionale» in chiave liberale di Slovenia e Croazia ed addebitano al «nazionalismo serbo» l'emersione della crisi jugoslava. 

[51] L. Fabiani, E De Michelis attacca il Papa “filo croato”, in «la Repubblica», 25 settembre 1991.

[52] Cfr. L. Canfora, Repubblica antisemita di Croazia, in «Corriere della Sera», 15 aprile 1993; per una disamina dell'ideologia politica, improntata al più impudente revisionismo, del leader secessionista e nazionalista croato Franjo Tudjman: F. Tudjman, Deriva della verità storica, in La guerra in Europa, «Limes», n. 1-2, 1993, p. 247-257. Eric Hobsbawm dal canto suo include Franjo Tudjman nella categoria politica dei «frantumatori di nazioni». E. J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi dal 1780. Programma, mito, realtà, Einaudi, Torino, edizione 2002, p. 194. Sulle radici fasciste della destra croata vedasi anche: G. Caldiron, Croazia, il paradigma declinato, in Gli squadristi del 2000, manifestolibri, Roma, 1993, p. 87-91 e G. Caldiron, Croazia, in La destra plurale, manifestolibri, Roma, 2001, p. 308-310.

[53] Nell'occasione, «De Michelis dà per “politicamente scontato” il riconoscimento delle tre repubbliche. "Per l' Italia non si tratta di una ripresa delle relazioni diplomatiche ex novo, le quali sono di fatto congelate, visto che l' Italia non ha mai riconosciuto l' annessione all' Urss fatta da Stalin nel 1940"». Cit. in P. Veronese, Il Baltico è già libero, in «la Repubblica», 27 agosto 1991.