Yemen: mutamenti in prospettiva ed una incombente catastrofe

17 settembre 2020

 

Yemen: Riad, petroliera Safer minaccia la regione - ExPartibus

 

Il quadro generale in Yemen non mostra alcun segno di miglioramento nonostante le recenti determinazioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con le quali si giudicava la presente tragica situazione “assolutamente inaccettabile” e si invitavano le parti in conflitto a far ripartire con “urgenza” un processo negoziale più volte avviato e più volte abusivamente disatteso.

A tutt’oggi l’appello dell’ONU è rimasto inascoltato, anzi al contrario ha provocato una reazione uguale e contraria se così si può dire. Le ostilità hanno registrato nelle ultime settimane un visibile inasprimento caratterizzato dalla ripresa dei bombardamenti sauditi e dalle micidiali incursioni all’interno del Regno di missili e droni lanciati dagli Houthi. Si è dunque in presenza di una vera e propria escalation accompagnata dall’intensificazione dei combattimenti terrestri tra le forze della coalizione diretta dai sauditi e le unità filo-iraniane nella nevralgica e ricca regione di Marib dove secondo quanto appreso gli Houthi avrebbero preso possesso di larga parte dell’importante area. Tale sviluppo potrebbe incidere molto sull’esito della devastante guerra civile.

Gli Emirati per converso portano avanti la loro penetrazione nel sud ovest del Paese e nell’isola di Socotra, sull’onda del cosiddetto Accordo di normalizzazione con Israele, stipulato lo scorso 13 agosto. Come si ricorderà Socotra, punto di osservazione di strategica rilevanza per la sua collocazione geografica, è stata conquistata “manu militari” utilizzando i velleitari separatisti del Southern Transitional Council. Vi è altresì da rilevare la presenza in quell’isola di tecnici e personale specializzato israeliano, colà operante, secondo fonti arabe, per l’istallazione di strutture di sorveglianza e controllo sulle nevralgiche rotte marittime del Mar Arabico e del Golfo di Aden attraverso le quali si ha accesso allo stretto di Bab al Mandeb, porta d’ingresso del Mar Rosso.

Come già segnalato in passato da chi scrive queste note, l’attivismo degli Emirati ha dato vita ad un’altra ragione di conflitto, non meno profonda ed inconciliabile di quella sopra tracciata a proposito dello scontro tra i sauditi e gli Houthi. Intendiamo riferirci alla implacabile opposizione frapposta dalla componente islamista yemenita di al Islah, facente parte della coalizione governativa diretta dallo screditato Mansur Hadi, alle mire espansionistiche di Abu Dhabi, a sua volta nemico irriducibile di ogni formazione richiamantesi nel proprio programma politico ai precetti del Corano. Vi è da notare in proposito che al Islah, come ogni altro affine schieramento islamista in altre realtà arabe, fruisce a sua volta del fattivo supporto di Qatar e della Turchia.

Sinistramente impattante appare il peso delle ingerenze straniere nel tragico cocktail yemenita. Ingerenze non solo di potenze appartenenti alla Penisola arabica ma anche al di fuori di essa come per l’appunto la Turchia ed anche l’Egitto, quest’ultimo a fianco degli Emirati nell’opera di contrasto allo schieramento islamista.

Ma come passare in sott’ordine le altrettante lesive forme di condizionamento dispiegate dalle due sponde dell’Atlantico sulle quali ricadono le principali responsabilità di una guerra di aggressione contro un Paese sovrano, nel solco di una vergognosa tradizione spettante a Paesi che per decenni si sono eretti a difensori dei valori di libertà e democrazia, così apertamente vilipesi in quelle aree del mondo dove hanno sostenuto e sostengono sistemi di dominio e di oppressione?

Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna in primis, ma anche altri governi europei, quali la Francia, la Germania ed anche l’Italia hanno alimentato un conflitto iniziato nel marzo 2015 e che dopo quasi sei anni ha portato alla distruzione di un Paese ricco di storia ed al massacro di più di 100.000 civili, uomini, donne e bambini, rivelatisi i principali obiettivi della coalizione di aggressori. Un conflitto che ha inferto colpi durissimi all’immagine ed alla credibilità della monarchia wahabita che, oltre ad essere esposta ad un fallimento sul piano militare e su quello della sicurezza alle sue frontiere meridionali, vede oggi la sua leadership del mondo islamico, in particolare della maggioritaria comunità sunnita, messa in discussione da un fronte islamista che comincia a delinearsi composto dalla Turchia, Qatar, Malesia, Iran e verosimilmente anche il Pakistan, deciso a contrapporsi ad uno schieramento reazionario e pervicacemente destabilizzante che suscita un’ondata crescente di risentimento in una comunità islamica che fino a pochi anni fa vedeva nell’Arabia saudita un Paese indubbiamente conservatore ma anche un’entità in grado di mediare e di creare aree di intesa nell’universo dei credenti del Profeta.

Tutto questo oggi è svanito con il risultato che la comunità sunnita è ora profondamente divisa, alla ricerca di nuovi punti di riferimento. I recenti accordi conclusi dagli Emirati e da Bahrein con Israele, calpestando ed ignorando i basilari interessi dei Palestinesi, hanno segnato per così dire la soglia di non ritorno di una frattura che sarà impossibile rimarginare.

Ebbene questo scenario poco incoraggiante che lascia prevedere una nuova spirale di violenza nelle terre d’Islam a dispetto delle fallaci esternazioni trionfalistiche emananti da coloro, in primis il Presidente Trump, il corrotto leader israeliano Netanyahu nonché certa stampa occidentale, osannanti o per malafede o per incomprensione di quelle realtà un avvenire di pace e di prosperità, si sta riflettendo nel povero Yemen dove, come sopra accennato, la guerra ha ripreso in pieno i suoi martellanti ritmi di sangue.

L’entità yemenita si sta rivelando come il luogo dove una contrapposizione violenta si sta sviluppando su due fronti contro i principali protagonisti e promotori della deriva reazionaria che ormai coinvolge in misura differenziata lo spazio medio-orientale e nord-africano. Il primo riguarda la battaglia portata avanti dagli Houthi contro l’aggressione saudita. Esso riveste una importanza indiscutibile nella misura in cui ha impedito dopo più di cinque anni di guerra che i disegni di sottomissione ai desideri di dominio del potente vicino potessero realizzarsi.  Il secondo fronte concerne la resistenza che comincia a manifestarsi da parte della componente islamista di al-Islah (la Riforma), facente parte dello schieramento governativo, contro la penetrazione nel sud ovest del Paese e nell’isola di Socotra degli Emirati, sostenuti in maniera defilata ma nondimeno incisiva dall’alleato israeliano.

Ebbene questo duplice scontro ha tutta l’aria di continuare in un contesto regionale segnato dall’allargamento delle aree di conflitto e dall’esplosiva reazione contro disegni che mirano attraverso i processi di difesa di interessi dinastici ad impedire lo sviluppo ed una autentica emancipazione politica della regione. Uno scontro sul piano militare che gli Houthi hanno ingaggiato con successo mostrando di essere in grado di arginare la spinta espansiva di una potenza saudita in possesso di un high-tech militare immensamente superiore, uno scontro fonte di malessere e di insicurezza all’interno del Regno la cui capitale Riyadh, a poco meno di 1000 km dalla frontiera yemenita, è stata ripetutamente colpita dai droni e dai missili lanciati da una tribù araba determinata a preservare l’indipendenza del Paese nel solco di una tradizione millenaria. La resistenza degli Houthi si accompagna ora con quella di al-Islah che in alcune aree del sud ovest dello Yemen ha dato vita a formazioni di “Resistenza Popolare” la cui finalità è di ostacolare quanto possibile l’occupazione abusiva di spazi del territorio yemenita da parte di forze separatiste scarsamente rappresentative ed al completo servizio degli interessi di Abu Dhabi. Ed il fatto che la loro azione sia a sua volta appoggiata da Paesi come la Turchia e Qatar dove il verbo islamista rappresenta il tratto fondamentale della loro proiezione esterna costituisce uno sviluppo assolutamente da non sottovalutare. Esso è la conferma del consolidarsi di riallineamenti in corso nell’area medio-orientale che trarranno indubbiamente maggior forza e consistenza come conseguenza dei due Accordi di normalizzazione destinati a provocare mutamenti significativi nell’assetto geopolitico della regione.

A tal proposito segnali tutt’altro che secondari si stanno manifestando. Strutture ed istituzioni come la Lega araba e l’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC), viste e considerate fino ad un recente passato come luoghi di tutela e di salvaguardia degli interessi dell’universo islamico, pur essendo condizionate dalla potenza regionale saudita, ora vacillano a causa di dinamiche dirompenti che le mettono apertamente in discussione.  Tutto ciò riveste un grande rilievo nel momento in cui siamo e merita di essere ben compreso nella sua complessa articolazione, indice di mutamenti qualitativi nelle contrapposizioni che si stanno prefigurando.

 

Nel titolo di questo scritto si fa altresì menzione ad una incombente catastrofe in un quadro yemenita segnato da distruzione e morte. Il riferimento è alla tragica odissea della petroliera Safer, divenuta successivamente una piattaforma galleggiante adibita a deposito di greggio proveniente dalle aree centrali del Paese nonché tramite per l’export del prezioso bene nei mercati mondiali.

La Safer, costruita dalla giapponese Hitachi nel lontano 1976 per il trasporto di petrolio, successivamente venduta allo Yemen, era stata trasformata dalle autorità yemenite nel 1987 in piattaforma per gli scopi sopra descritti e ormeggiata dal 1988 a circa sette chilometri dalla costa yemenita a nord del porto di Hodeida. Fino allo scoppio delle ostilità provocate dall’inizio dell’aggressione saudita nel marzo 2015 essa ha adempiuto profittevolmente agli scopi prefissati consentendo lo “storage” della materia prima e l’esportazione del greggio proveniente in larga parte dalla ricca centrale provincia di Marib, una fonte preziosa di valuta per la derelitta economia yemenita.

Ma tutto questo ha cominciato a cambiare all’indomani dell’attacco saudita con l’occupazione da parte degli Houthi dello spazio marino prospiciente il porto di Hodeyda, Il che ha fatto sì che anche la Safer venisse a cadere sotto la giurisdizione della formazione filo-iraniana con tutti i problemi che da tale sviluppo dovevano conseguire.

Da quel momento è iniziato il calvario di quella piattaforma galleggiante trasformatasi in un incubo permanente che incombe tuttora sulla tragica situazione yemenita. Da quel momento ha preso inizio un estenuante sfibrante ed indecoroso braccio di ferro tra il governo filo-saudita diretto da Hadi, passato responsabile della nave, ed il governo di fatto degli Houthi sotto la cui giurisdizione il naviglio è passato all’indomani dell’aggressione saudita.

Quale l’oggetto del contendere? Esso è determinato dal fatto che la Safer, in costante avaria da qualche anno, contenga nella sua stiva più di un milione e centomila barili di petrolio per un valore aggirantesi intorno ai $60 milioni. Una posta tutt’altro che irrilevante nel contesto yemenita, non c’è che dire. A dispetto delle discordanti versioni formulate per spiegare il criminale stallo e nonostante le assicurazioni fornite dagli Houthi in merito alle autorizzazioni concesse per l’invio di un team di esperti dell’ONU per le indispensabili riparazioni, la ragione principale risiede a nostro avviso nel condiviso intento delle due parti in conflitto di non consentire che dalla soluzione della tragica impasse la parte avversa metta le mani su un bottino di tutta rilevanza ai fini dell’andamento di operazioni di guerra giunte ad una soglia decisiva.

Quali le incidenze derivanti da quel muro di incomunicabilità e diffidenza che fino ad ora ha impedito ogni possibile intesa suscettibile di evitare una vera catastrofe provocata o dall’esplosione del materiale o dalla dispersione del liquido contenuto nei barili nelle acque circostanti dove vive e prospera una biodiversità tra le più ricche al mondo? Secondo il parere più volte espresso da esperti delle Nazioni Unite le conseguenze sarebbero terribili sotto il profilo ambientale, umano ed economico. Ambientale perché porterebbero alla distruzione di un ecosistema apprezzato ed ammirato dagli ambientalisti e da tutti coloro cui sta a cuore la preservazione degli equilibri naturali del mondo. Umano perché l’esplosione o la dispersione del liquido comporterebbe ingenti perdite di vite umane lungo le zone costiere bagnate dal Mar Rosso. Economico perché ove ciò accadesse, che si tratti di esplosione o di avvelenamento di tutto uno spazio marino, l’intero parco di pesca fonte di vita per tutta la comunità yemenita residente lungo la costa bagnata dal Mar Rosso verrebbe ad essere completamente distrutto. Centinaia di migliaia di famiglie non avrebbero più di che vivere, sprofondando nella più disumana indigenza in un contesto già segnato da una feroce guerra e dal diffondersi di epidemie fuori controllo. A parere degli esperti ci troveremmo in presenza di una vera apocalisse dalla quale, come vedremo, altre distruttive conseguenze seguirebbero.

In effetti il danno non si fermerebbe qua. Il disastro comporterebbe altresì problemi gravissimi per la sicurezza della nevralgica rotta navale che dallo stretto di Bab el Mandeb, separante la Penisola arabica dal Corno d’Africa, porta al Canale di Suez ovverossia lo sbocco nel Mediterraneo, una delle arterie di strategica rilevanza per il rifornimento energetico dell’Europa. Di conseguenza Paesi bagnati dal Mar Rosso quali Gibuti, Eritrea, Sudan senza escludere l’Arabia saudita ed ovviamente l’Egitto sarebbero colpiti dall’interruzione dei traffici le cui incidenze finirebbero per interessare anche gli stessi Paesi europei.

Seppur espresso con poche parole quanto esposto fa capire la dimensione della incombente catastrofe. Ma fa capire anche quanto siano gravi l’impotenza ed i limiti dell’azione delle Nazioni Unite incapaci di far pesare la loro influenza sulle becere parti in conflitto perché una via d’uscita venga trovata. Ma ancor più gravi e gravide di conseguenze per i loro stessi interessi appaiono l’insipienza e l’irresponsabilità di coloro che da altre lontane latitudini continuano ad alimentare questo conflitto avendo principalmente cura di ricavarne i massimi vantaggi sul piano politico e finanziario.

Altro non si può dire se si pensa a quello che i governi di quei Paesi non fanno e che invece dovrebbero fare: riservare attenzione ai danni collaterali di questo infame conflitto, come quelli sopra delineati, esercitando le loro condizionanti pressioni sui loro protetti in nome dei superiori interessi della comunità internazionale. Al contrario si guardano bene dal farlo, in maniera criminale ed irresponsabile, ossessionati come sono dalla sola logica di dominio e di sopraffazione che vede nell’asservimento di coloro che osano sfidare quella deleteria logica l’unico sbocco di precipua preminente rilevanza.

Ed intanto la bomba ad orologeria di quella piattaforma galleggiante continua a terrorizzare inermi popolazioni vittime incolpevoli della nefanda visione del mondo di élites politiche ed economiche indegne di essere definite tali.

Appelli continuano ad essere lanciati dalle Nazioni unite, impotenti a sormontare il muro degli interessi contrastanti, e dalle Organizzazioni umanitarie perché si intervenga prima che l’irreparabile si produca, a tutt’oggi purtroppo senza alcun risultato. A questi accorati appelli noi ci uniamo nella speranza che quel che temiamo non avvenga.

 

Angelo Travaglini diplomatico in pensione, membro del Comitato Scientifico del CIVG