Yemen: dramma senza fine dai rilevanti risvolti

21 aprile 2020

 

Prima regola da seguire:

“Non infognarti nello Yemen,

Seconda regola da seguire:

Non infognarti nello Yemen”.

Anonimo “patriota” yemenita

 

Coronavirus Pandemic Forces a Cease-Fire in Yemen

 

Retroterra storico

 

a) Periodo monarchico

Il dramma dello Yemen continua ad essere assurdamente al di fuori delle attenzioni dei media internazionali, ora più che mai in presenza del disastrato quadro generale offerto dalla pandemia del COVID-19. A prima vista non si potrebbe giustificare un tale distacco alla luce di quella che è stata definita dalle Nazioni Unite “la più grande catastrofe umanitaria dalla fine del secondo conflitto mondiale”. A prima vista abbiamo detto, evitando di porre attenzione al particolare, che colpisce anche il più superficiale osservatore, che dietro questa immane tragedia si celano gravissime responsabilità occidentali che in verità continuano a manifestarsi in maniera non patente ma nondimeno impattante e devastante.

Il destino di quello che viene definito il più povero Paese del mondo arabo si è sempre caratterizzato per le continue guerre di aggressione subite da parte di Potenze esterne ed interne alla regione che, per quanto riguarda lo Yemen, è essenzialmente da identificarsi con la penisola arabica. In effetti dal momento della intronizzazione del primo sovrano yemenita Imam Yahya nel lontano 1918 quando assunse le redini del potere in quello che allora era il Nord Yemen[1], ereditandole dagli Ottomani, giunti alla fine della loro esperienza storica, fino ai drammatici giorni nostri, la storia di questo affascinante Paese è sempre stata contraddistinta da una ininterrotta lotta per tenere in scacco quelle forze esterne bramose di mettere le mani sulle sue ricchezze. Se c’è una realtà che meriterebbe di appartenere ad un fronte della Resistenza questa non potrebbe non essere lo Yemen che da un secolo si oppone con incrollabile determinazione ad un suo asservimento a Potenze straniere o, ricorrendo all’ingannevole perifrasi del sistema dominante neo-liberale, alla sua integrazione nel mercato globale.

Rimanendo in questo contesto, Imam Yahya viene ricordato come colui che, in esito ad una guerra di frontiera con il Regno saudita, riuscì ad arginare la pressione del potente ed ostile vicino appoggiato da Londra, pervenendo alla stipulazione nel 1934 del Trattato di Taif, città saudita, con il quale si stabilì quello che è attualmente il confine territoriale tra Arabia saudita e Yemen. Imam Yahya viene altresì ricordato per la profonda diffidenza, che sfociava molto spesso in malcelata ostilità, nei confronti degli anglosassoni dei quali esecrava il razzismo ostentato verso l’entità yemenita abitata a parer loro da “tribù primitive”.  Al contrario il sovrano avvertiva un senso di amicizia verso gli italiani dei quali apprezzava “operosità e spirito di collaborazione”, qualità che lo spingevano a nutrire verso i nostri connazionali un senso di non celata fiducia[2].

La fine di Imam Yahya, figura storica seppur poco conosciuta del mondo arabo, fu cruenta, assassinato nel 1948 vittima di un complotto ordito dai servizi britannici con l’appoggio delle quinte colonne locali attirate dai miraggi di un orizzonte “liberista e modernista” ben rappresentato dalla narrativa anglosassone e dai loro tradizionali alleati nella regione impersonati dalla dinastia Saud. In quella occasione l’infame complotto ebbe a fallire di fronte alla ribellione delle tribù del Nord Yemen, pronte a scatenare una violenta reazione contro le detestate macchinazioni esterne. Primo esempio di una resistenza fondata sull’indomita volontà di un popolo fiero della propria identità e del proprio spirito di indipendenza.

Imam Ahmad, figlio e successore del defunto primo re, assunse il potere portando avanti, seppur in maniera autoritaria e turbolenta, una leadership ancorata ai tradizionali valori culturali e religiosi dell’entità yemenita, in contrasto con quanto emanava dal wahabismo saudita, visto dal monarca come strumento di asservimento delle entità della regione e di ostacolo alla reale emancipazione del mondo arabo. La ferma opposizione al potente vicino, screditato allora come ora per le sue connivenze con l’odiata Potenza britannica, resta uno dei tratti salienti della sua monarchia così come l’apertura verso altri Paesi lontani dalla regione, in primis quelli appartenenti all’allora area socialista, ai quali si rivolgeva per contrastare la soffocante pressione coloniale di Londra e la concorrente penetrazione americana, in rivalità con i cugini di Sua Maestà.

Imam Ahmad, a dispetto di un temperamento non facile e di una inclinazione verso l’autoritarismo, era molto popolare presso i suoi sudditi, in particolare presso gli strati storicamente peculiari dell’entità yemenita fondata su un assetto tribale. La sua fine, avvenuta nel 1962, non fu cruenta come quella subita dal padre ma fu dovuta alle conseguenze derivanti da un attentato subito poco tempo prima della sua dipartita. Gli autori di quell’attentato non furono questa volta i detestati britannici ma i sostenitori di colui che passava per essere uno dei campioni del nazionalismo arabo, l’egiziano Gamal Abdel Nasser, verso il quale Imam Ahmad provava diffidenza a causa delle sue visioni profondamente conservatrici, ostili dunque nei confronti di coloro che volessero attentare ad un ordine basato sui valori di un passato atavico.  Il Rais egiziano per converso nutriva altre mire: rinverdire la sua immagine e credibilità politica all’indomani di eventi a lui sfavorevoli. A questo punto apriamo una piccola parentesi per illustrare meglio le dinamiche messe in moto in quel momento storico, ritenendo che possano suscitare l’interesse dei nostri lettori.

In effetti le attenzioni di Nasser verso il Nord Yemen[3] avevano cominciato a manifestarsi all’indomani del fallimento del progetto, cui così fervidamente egli teneva, di dar vita e concretezza ad una “Repubblica Araba Unita” inclusiva di Egitto e Siria. Tale ambizioso traguardo si rivelò inattuabile a partire dal 1961, evento che inflisse un duro colpo alla credibilità ed all’immagine di un leader, fautore di un nazionalismo arabo tinto di socialismo, laicismo e fervore panarabo, anti-coloniale ed anti-occidentale.

A quel momento il Nord Yemen, denominato, dopo la fine della monarchia conseguente alla scomparsa di Imam Ahmad, Repubblica araba yemenita, appariva agli occhi del Rais come l’occasione per riparare ad una perdita di prestigio che aveva ferito il suo orgoglio. Perché lo Yemen? La ragione risiedeva nel clima perennemente turbolento che anche allora caratterizzava il contesto politico di quell’agitato Paese, scosso da tensioni caratterizzate da spasmi anti-monarchici e nazionalistici da una parte e dall’altra dalla soffocante pressione esercitata sull’entità yemenita dall’ingombrante vicino saudita appoggiato dai colonialisti britannici. Un cocktail insomma invitante per un leader in cerca di una riabilitazione politica. Ma non solo di questo si trattava, come risulterà più chiaramente gettando lo sguardo sullo scenario regionale.

Pochi anni prima (1958) si era assistito al cruento crollo della monarchia irachena impersonata dalla dinastia Faysal appoggiata da Londra e all’instaurazione a Baghdad di una repubblica guidata da militari con conseguenze tutt’altro che favorevoli per gli interessi britannici nella regione[4] . Ciò aveva creato un clima propiziante per nuove iniziative in una area irrequieta come quella yemenita. Vi era inoltre da considerare che il disegno espansionistico di Nasser teneva in debito conto altri due non secondari aspetti: il primo che da esso sarebbe scaturito il controllo pressoché totale della rotta del Mar Rosso, dal canale di Suez allo Stretto di Bab-al-Mandeb, separante lo Yemen dal Corno d’Africa, il secondo che, intervenendo militarmente nel conflitto civile a Sanaa, il Rais avrebbe avuto l’occasione di prendersi l’agognata rivincita sulla detestata monarchia saudita, colpevole ai suoi occhi di aver operato in modo malevolo per compromettere l’ambizioso progetto della abortita Repubblica Araba Unita.

La parentesi si chiude qui, permettendoci di ritornare al tema centrale dell’esposizione ovverossia al momento in cui il monarca Imam Ahmad, figlio del primo re del Nord Yemen, Imam Yahya, muore proprio alla vigilia dell’inizio di una guerra civile nel Paese alimentata da un intervento militare egiziano destinato, come vedremo, ad un esito infausto. Forse qualcuno degli attuali reggitori sauditi avrebbe fatto bene a tenere in debito conto tale significativo precedente storico.

 

b)  Nascita della Repubblica yemenita

L’avventura di Nasser in Yemen, iniziata nel 1962, si risolve in un disastro. A partire da quell’anno fino al termine di quella logorante guerra nel 1970 lo Yemen vive un’epoca di distruzione e di morte dai tratti sinistramente simili a quanto costatiamo oggi in esito all’aggressione saudita iniziata nel 2015. Anche allora l’occupazione militare egiziana provocò stragi di migliaia di persone inermi, anche allora quel disumano modus operandi cosparse l’insanguinato suolo yemenita dei semi da cui doveva scaturire il fallimento di quell’operazione voluta dal Rais e che, a parere di alcuni analisti militari, fu altresì una delle cause di un’altra disfatta subita dal Cairo nella tristemente nota guerra dei Sei Giorni ingaggiata con Israele nel 1967; quella guerra che doveva avviare il processo di sistematica occupazione da parte dei sionisti degli spazi territoriali palestinesi e creare le condizioni per il graduale affossamento del progetto di uno Stato palestinese indipendente.

L’impantanamento nei “killing fields” yemeniti contribuì quindi ad un’altra sconfitta, negativamente epocale, che rappresentò la definitiva eclissi dei disegni espansionistici di un leader che mal aveva valutato l’importanza di fattori quali la Storia ed il contesto reale delle crisi. Errori che vengono purtroppo ripetuti nelle terre d’Islam con gli stessi inesorabili risultati. La Repubblica araba dello Yemen in quel frangente storico ebbe dunque a svolgere un ruolo di indubbio rilievo nel quadro dell’intera regione, includendovi il non contiguo Levante.

Come sopra accennato quella terribile guerra prese fine al termine del 1970 e si concluse con la definitiva vittoria della fazione repubblicana e la rinuncia da parte dell’Arabia saudita di restaurare una monarchia a sua immagine e somiglianza nel finitimo Paese. La casa reale yemenita fuggì in esilio nel Regno mentre rappresentanti dell’ala monarchica ebbero tuttavia la possibilità di entrare a far parte del nuovo assetto repubblicano. Da quel momento e fino all’ingresso nel 1978 nello scenario politico yemenita di un tenebroso personaggio quale Ali Abdullah Saleh, lo Yemen conobbe anni di relativa pace e stabilità che dovevano purtroppo concludersi nel luglio 1978 con l’assassinio in circostanze mai chiarite dell’allora Presidente al-Ghashmi, fatto a pezzi da una borsa esplosiva recapitatagli da un emissario proveniente da Aden, all’epoca capitale della Repubblica popolare democratica. Questa era divenuta entità indipendente nel 1967 dopo la cacciata dal Sud Yemen dei britannici, prodottasi in seguito ad anni di rivolte popolari ed anti-coloniali che avevano reso impossibile la permanenza del regime coloniale di Londra in quegli spazi remoti della Penisola arabica.

 

c) La Repubblica diventa dittatura

Non possiamo terminare il nostro percorso storico senza spendere qualche riflessione sulla figura di Abdullah Saleh, indubbiamente uno dei grandi protagonisti della storia recente dello Yemen, scomparso in maniera tragica nel dicembre 2017 nel momento in cui si accingeva a consumare l’ennesimo tradimento, in quella occasione a danno degli Houthis, con i quali aveva stretto, una volta spodestato da uno scanno occupato per più di 30 anni, una sorta di alleanza contro-natura[5], in chiave anti-saudita contro il governo diretto dal suo ex-fedele collaboratore, Abd Mansour Hadi.

Il più importante risultato, se così lo possiamo definire, del defunto leader è stato indubbiamente quello di aver unificato un Paese, profondamente percorso da differenze non solo tribali ma anche culturali alimentate da esperienze storiche difformi. Ma quando nel 1990 le due parti del Paese confluirono in una medesima entità, tali differenze non risultarono tali da impedire la realizzazione di un processo così caro all’uomo forte del momento, Ali Abdullah Saleh.

In realtà tale risultato era il punto d’arrivo di una politica che rompeva in maniera netta con quelle che erano state le priorità irrinunciabili della defunta monarchia yemenita ovverossia la difesa ad oltranza dei valori di identità ed il perseguimento di politiche volte a contrastare con ogni mezzo le pressioni prevaricatrici di potenze esterne, principalmente del Regno Unito e successivamente degli Stati Uniti, attraverso il loro storico alleato regionale, l’Arabia saudita. Tutto questo venne a cessare con l’ascesa al potere di Saleh, desideroso al contrario di facilitare l’integrazione dello Yemen nel mercato globale, implacabilmente osteggiata dai due sovrani Imam Yahya e suo figlio Imam Ahmad, eliminati per aver inflessibilmente creduto in quelle politiche di contrasto.

I tratti caratteristici dell’autoritarismo dispotico dell’uomo forte yemenita si rivelarono essere infatti i contatti con i conglomerati finanziari ed industriali dell’arsenale angloamericano attraverso i quali sfruttare senza alcun ritegno le ricchezze energetiche del Paese, concentrate per l’appunto in aree, come le province di Marib e di Shabwa, appartenenti al centro ed al sud dello Yemen. In effetti gli anni che precedettero l’unificazione si contraddistinsero per l’esplosione di un mercantilismo sfrenato cui fece da conseguente corollario il dilagare della corruzione e del malaffare.

 

 

L’unificazione dell’entità yemenita, avvenuta nel 1990, rappresentò il punto di arrivo di tale artificiale processo. Si trattava di creare il giusto quadro politico-istituzionale perché investimenti cospicui potessero avere profittevolmente luogo, particolarmente nelle due succitate province. Unire il nord ed il sud del Paese era il tramite per la profittevole valorizzazione delle ricchezze nazionali a prevalente beneficio degli interessi esterni e delle cricche dominanti all’interno, garantendo in tal modo “l’integrazione dell’economia yemenita nel mercato mondiale” nel senso riscontrabile nella narrativa dei globalisti liberali di allora e di ora.

Tale torbido clima non tardò a generare disillusione e malcontento, risentimento e aperta ostilità. Dopo quattro anni scoppiò nel maggio 1994 la rivolta delle forze sudiste, riunite attorno al movimento indipendentista Hirak (Movimento popolare in arabo), professante un’ideologia socialista, che scatenò una ribellione armata conclusasi dopo tre mesi con una repressione feroce ordinata dall’ autocratico Saleh, sostenuto in quella occasione dalla potente affiliazione islamista di al-Islah (“Riforma” in arabo).[6] Le differenze cui sopra si accennava avevano trovato il modo di riprendere il sopravvento, a partire da quel momento in maniera irreversibile.

I cruenti eventi di quell’anno rivestono una rilevante importanza politica. Essi costituiscono infatti il lievito dal quale prende forma e sostanza lo schieramento separatista che da forza clandestina sotto la dittatura di Saleh assurge gradualmente con l’irrompere della Primavera araba nel 2011 e con l’aggressione della coalizione a guida saudita nel 2015 a formazione politica e militare in grado di conferire concretezza alle aspirazioni di indipendenza del Sud Yemen, beneficiando, come vedremo, di appoggi esterni.

Ma i deleteri tratti di una forma di governo che letteralmente “castrava” il Paese, sopprimendo qualsiasi istanza contrastante con l’autocratico metro di condotta del dittatore produssero ulteriori conseguenze che dettero forma e sostanza al sostrato dal quale hanno preso vita gli eventi cui oggi assistiamo.

Essi non solo fornirono il terreno propizio perché anche in Yemen la Primavera araba fosse vista dalla massa degli sfruttati e degli oppressi come una luce di speranza per un avvenire a dimensione umana ma, per ciò che riguarda peculiarmente lo Yemen, permisero agli Houthi, tribù araba del Nord del Paese, di inserirsi nel mainstream della protesta di massa, facendo valere il fondamento politico delle loro rivendicazioni generate da trent’anni di discriminazioni, emarginazione ed abusi di ogni genere inflitti alla minoranza di fede Zaydi (branca dell’Islam sciita) da un Presidente paradossalmente professante il loro stesso credo religioso. Un Presidente disposto a svendere il suo Paese agli interessi economici di Potenze straniere, assecondando di fatto quelli di natura più propriamente dinastica della casa Saud.

Elementi di indubbio rilievo politico dato che attraverso di essi la tribù filo-iraniana entrava a pieno titolo nel tourbillon di un movimento contestatore del tutto avulso da matrici settarie, determinato a battersi per obiettivi squisitamente laici mirati a contrastare un ordine segnato da sfruttamento ed oppressione. Un ordine che a parere di Joe Gill, apprezzato giornalista inglese, aveva fatto dello Yemen il “bordello” del Medio Oriente dove corruzione, malaffare e violazione di ogni regola costellavano la quotidianità sociale. Un “bordello” che offendeva e calpestava i valori atavici di quelle popolazioni, secondo parametri purtroppo ricorrenti in altre realtà dell’universo arabo-islamico.

 

Ritorno all’attualità

 

a) Il ruolo degli Houthi

La forza del movimento contestatore laico e democratico si rivelò insopprimibile al punto che gli appoggi esterni di cui il dittatore si avvaleva si rivelarono incapaci di sostenere il suo potere. Nel febbraio del 2012 Saleh si dimise, rimettendo la carica di Presidente nelle mani di Mansour Hadi, suo fedele vice, nativo del sud del Paese ma, come vedremo, scarsamente incline a tener conto di questo elemento.

Vi è da rilevare che la formazione di Ansar Allah[7] ha combattuto ben sei guerre contro Saleh, una implacabile instancabile rivolta iniziata negli anni ‘90  volta a porre fine ad uno stato di subordinazione inaccettabile per una tribù araba che vive nelle aree montagnose del Nord Yemen da più di un millennio. Inoltre il loro inserimento nel movimento popolare di contestazione era stato ben accolto dalle altre componenti dello schieramento democratico.

Quel che avvenne all’indomani della rivincita delle forze reazionarie, guidate dalla monarchia saudita e dai loro alleati degli Emirati arabi uniti, in grado di schiacciare le istanze di rinnovamento in tutti quei Paesi nei quali esse si erano manifestate, fatta verosimilmente eccezione per la Tunisia, ha costituito conferma delle argomentazioni sopra riportate.

In effetti in presenza di tale involuzione è solo nello Yemen che una forza di opposizione, gli Houthi, si è rivelata e continua a rivelarsi capace di portare avanti una decisa battaglia contro un’aggressione, perpetrata da una Santa Alleanza reazionaria, che, iniziata ben cinque anni fa (marzo 2015), oltre a produrre la più grave catastrofe umanitaria, è risultata fallimentare sul piano militare, in particolare per la potenza saudita.[8]

Tutto ciò ci induce a comprendere come fallace e fuorviante si riveli la narrativa dominante secondo la quale lo scontro non è altro che una “proxy war” tra Arabia saudita ed Iran e quel che viene rivendicato dalle forze di Ansar Allah non è altro che una cortina fumogena dietro la quale si annidano i disegni espansionistici della Repubblica islamica. Visioni che appaiono in patente contrasto con una lettura attenta della realtà, smentite da quanto accaduto in questi cinque anni di dolore e di sofferenze del popolo yemenita.

 

 b) Crescenti difficoltà saudite

Cinque anni dopo aver scatenato una guerra di aggressione vista come un’operazione di breve durata alla luce dell’enorme divario in termini di hardware militare, il Regno saudita si trova in un vero pantano, alla ricerca di una “face-saving exit” difficile da conseguire in presenza di negativi sviluppi per la velleitaria ed irriflessiva politica di Mohammed bin Salman, il tirannico erede al trono saudita, che hanno indebolito il ruolo e la posizione di Riyadh. Anche l’ultima tregua decisa unilateralmente dal Regno per via dei pericoli legati ad una esplosione del Covid-19 nel devastato Yemen non ha sortito reazioni favorevoli da parte degli Houthi inclini a vedere in quella decisione null’altro che una mossa a beneficio dell’opinione pubblica internazionale “priva di una volontà concreta finalizzata ad una soluzione del conflitto”.[9]

Tre a mio avviso si configurano come elementi, manifestatisi nel corso dell’aggressione, marcatamente lesivi della policy saudita, che hanno visibilmente contribuito al suo indebolimento. Due di essi sono di natura politica mentre uno è di natura militare. Partiamo da quest’ultimo che a nostro avviso rappresenta uno sviluppo che ha alterato radicalmente i termini dello scontro. Intendiamo riferirci all’accresciuto spessore militare degli Houthi in grado non solo di contrastare efficacemente l’avversario nel territorio yemenita, riuscendo a mantenere il controllo della maggior parte degli agglomerati urbani ma anche di colpire in maniera letale obiettivi strategici in Arabia saudita, come avvenuto a metà settembre dello scorso anno quando due raffinerie dell’Aramco nell’est del Paese furono colpite da droni e missili di crociera. provocando il dimezzamento della produzione saudita di petrolio equivalente al 5% della produzione su scala globale.[10]

Meno devastante ma altamente significativo si è rivelato anche, in occasione del quinto anniversario dell’aggressione saudita, l’attacco perpetrato prima della fine dello scorso mese con missili e droni contro la capitale del regno Riyadh e contro un importante agglomerato vicino alla frontiera yemenita. La difesa antimissile saudita è riuscita questa volta ad intercettare i letali velivoli ma l’effetto panico provato dalla popolazione, vistasi minacciata nel cuore del Paese, è stato rilevante; una ulteriore conferma della capacità degli Houthi di colpire il nemico in qualsiasi luogo ed in qualsiasi momento[11].

Già quanto sopra descritto sarebbe sufficiente per comprendere il fallimento di un’impresa militare che, oltre a mostrare la scarsa credibilità della macchina bellica saudita, ha ottenuto come risultato di rendere molto più insicura la frontiera meridionale del Regno, consentendo in the process un temibile rafforzamento della deterrenza militare degli Ansar Allah, ora ad una soglia nettamente superiore a quella costatabile cinque anni fa all’inizio dell’aggressione.

Parlavamo sopra degli altri due fattori, di natura politica, che hanno in gran parte compromesso gli obiettivi perseguiti dalla coalizione che ha aggredito lo Yemen nel marzo 2015. Il primo dei due dal quale, come vedremo, discende il secondo, è la subitanea decisione assunta nel luglio 2019 da Abu Dhabi di ridurre considerevolmente il proprio apporto militare nella sanguinosa guerra di aggressione. Varie ipotesi sono state formulate per spiegare il cambiamento di strategia degli Emirati.

A nostro parere la ragione principale va ricercata nella acquisita presa di coscienza della sterilità degli sforzi mirati a risolvere militarmente l’impasse yemenita. Teniamo altresì presente che tale mutamento è intervenuto all’indomani di una esplosiva tensione nelle acque del Golfo con ripetuti attacchi al naviglio mercantile solcante quello spazio marino; attacchi attribuiti dall’Occidente all’Iran, da Teheran veementemente smentiti, ma che in ogni caso testimoniavano una situazione suscettibile di portare ad una conflagrazione dagli effetti devastanti per Abu Dhabi. A nostro parere questa è stata inter alia la ragione che ha spinto gli Emirati a prendere le distanze da un conflitto – ripetiamo – orbo di risultati sul piano militare.

Nel mio precedente scritto sul tema dello scorso ottobre avevo attirato l’attenzione su un tipo di intervento da parte di Abu Dhabi ben diverso e ben mirato, basato sull’acquisizione di alleanze sul piano locale e regionale lato sensu, attraverso le quali gli Emirati vedono garantiti i propri interessi finanziari e commerciali in una vasta area[12]. E qui arriviamo al terzo dei tre fattori costituito da una policy di Abu Dhabi che non solo ha trovato la maniera di districarsi da una guerra senza sbocchi ma ha altresì ottenuto risultati probanti in termini di allargamento della propria sfera d’influenza che ora, oltre a comprendere il sud-ovest della penisola arabica, includono anche aree africane sull’altro versante del Mar Rosso, il Corno d’Africa, quali in particolare l’Eritrea, l’autoproclamatasi Repubblica del Somaliland e la regione autonoma del Puntland. Gli obiettivi del coinvolgimento di Abu Dhabi in Yemen si sono rivelati questi e non la sconfitta degli Houthi ai quali, anche recentemente, dopo cinque anni di guerra, è andato il riconoscimento del Ministro degli Esteri degli Emirati Anwar Gargash.[13] Da qui la necessità di avviare un negoziato non solo con Ansar Allah ma anche con i loro lontani protettori, l’Iran, con il quale Mohammed bin Zayed non rifiuta affatto l’idea di una proficua trattativa. Ciò fa capire la distanza che separa i sauditi dal loro alleato cui fino ad ora gli eccellenti rapporti personali tra Mohammed bin Salman (MBS) e Mohammed bin Zayed (MBZ) hanno tuttavia posto un prezioso rimedio.

In questo non propiziante contesto lo scorso novembre la parte saudita, alla disperata ricerca di un ricompattamento della coalizione fatto a pezzi dalla pragmatica politica di divisione portata avanti dagli Emirati, ha promosso un incontro tra l’alleato yemenita, il cosiddetto “governo internazionalmente riconosciuto” diretto da Mansour Hadi, e la formazione separatista del Southern Transitional Council (STC), appoggiata da Abu Dhabi. L’esito di tale meeting, oltre a sancire il riconoscimento internazionale dell’STC, ha portato alla stipulazione di un accordo, denominato “Riyadh Agreement”, al quale le due parti tuttora aderiscono ma che in realtà non sembra a tutt’oggi aver contribuito efficacemente ad un allentamento delle tensioni. Né potrebbe essere altrimenti tenendo a mente le diverse interpretazioni dell’accordo da parte dei due firmatari. Mentre infatti l’STC vede l’intesa come il primo passo verso l’autodeterminazione e. ove la volontà popolare lo volesse, una vera e propria indipendenza, la controparte governativa sarebbe disposta a consentire al massimo un assetto decentrato che non attentasse all’integrità territoriale dell’entità yemenita.

Tale terzo mal augurante fattore per Riyadh si è andato progressivamente consolidando con notizie di scontri tra le forze firmatarie della suddetta intesa ed il contestuale rafforzamento del ruolo dell’STC, ora ben impiantato nell’area intorno ad Aden.[14] Tutto questo avviene mentre Abu Dhabi rafforza la propria presenza nella strategica isola di Socotra, al largo della costa yemenita. In questa isola situata nelle rotte navali interessanti il Mar Rosso, Il golfo di Aden ed il Mar Arabico, gli Emirati portano avanti da qualche tempo interventi quanto mai incisivi sotto il profilo sia umanitario attraverso cospicui aiuti a favore di una comunità derelitta sia militare. Socotra è in procinto di divenire una piazzaforte di Abu Dhabi, incurante delle continue proteste del governo “legittimo” yemenita, alleato del Regno saudita, che vede progressivamente venir meno, anche in quell’isola, la sua sovranità.

 

 

Map of Yemen, and the location of Socotra island. | Download ...

Area di penetrazione degli Emirati arabi uniti

 

c) Il Quisling yemenita 

Indubbiamente chi ha inferto un duro colpo alla credibilità di questa infame guerra è stato Abd Rabbu Mansur Hadi, Presidente del governo riconosciuto dalla comunità internazionale.  Una squallida figura, priva di un qualsiasi spessore politico, chiamata a replicare in un contesto profondamente mutato la politica di asservimento agli interessi stranieri perseguita con cinismo dal suo defunto superiore Ali Abdullah Saleh.

Hadi dal momento dell’inizio dell’aggressione saudita ha progressivamente perduto un suo indipendente ruolo politico, incapace di far sentire una sua voce, incapace di assumere una sua posizione che non fosse in linea con i diktat del suo nuovo boss, il reggitore di fatto dell’entità saudita, Mohammed bin Salman (MBS). Se il movimento separatista ha progressivamente acquisito forza e seguito nel sud del Paese, questo lo si deve non solo al manifestarsi di interessi degli Emirati in linea con il risorto irredentismo di quella area yemenita ma anche alla perdita di ogni credibilità da parte di un Capo di Governo nativo del sud, resosi colpevole di aver assecondato la repressione feroce di Abdullah Saleh nel 1994 a danno dei suoi corregionali e di aver sostenuto “la politica di tradimento”, alleandosi con il movimento al-Islah ai quali l’STC rimprovera di aver appoggiato ogni forma di repressione nei confronti dei separatisti, annodando dei rapporti perfino con gli Houthi.[15]

In effetti la scelta, da parte dei sauditi e dei loro sponsor occidentali, di un personaggio moralmente squallido e politicamente inconsistente come Hadi, a capo di un governo dai livelli di corruzione con i quali per troppi anni lo Yemen ha dovuto fare i conti durante il tenebroso trentennio del defunto Saleh, si è rivelato un errore di macroscopica dimensione per cinismo e cecità politica. Il suo completo distacco dalla realtà yemenita, il suo ostentato silenzio di fronte alle atrocità commesse dalla coalizione di aggressori ai danni di un Paese ridotto ad un cumulo di macerie dove più di 100.000 civili sono stati massacrati o uccisi per fame e privazioni[16], si sono rivelati fattori dai quali gli Houthi hanno tratto un considerevole vantaggio, facendo pendere le sorti della guerra in loro favore. Oscurando in tal modo le gravi violazioni dei diritti umani delle quali anche Ansar Allah si è reso responsabile nel corso di un conflitto dove il principale perdente è sicuramente stata la popolazione civile, che ha pagato lo scotto più grave a fronte di una ferocia senza limiti.

Questo è l’esecrabile risultato di una impresa mal concepita e sostenuta con biasimevole cinismo da Washington e Londra, che ci riporta alla mente le già esposte recriminazioni del primo re dello Yemen. Imam Yahya, per il quale non si poteva trattare con interlocutori quali i britannici e gli americani, “sempre pronti a identificare lo Yemen come un luogo abitato da tribù primitive da sottomettere”. Lo stesso Imam Yahya, come ho avuto modo già di segnalare, che esaltava “l’umanità e l’affidabilità degli italiani”, i suoi partner preferiti, presenti allora a Massawa, nella vicina Eritrea.

Hadi dal 2017 risiede a Riyadh sotto la diretta supervisione delle autorità saudite che, secondo quanto riferito dall’autorevole emittente qatariota al-Jazeera, non hanno esitato a porlo agli arresti domiciliari “per ragioni attinenti alla sua sicurezza”. Particolare che ha ulteriormente svilito una figura la cui impopolarità è un dato imprescindibile della tragedia yemenita al punto che l’esigenza che Mansour Hadi debba uscire dallo spettro politico yemenita costituisce forse l’unico punto sul quale si può verosimilmente registrare l’accordo degli schieramenti che attualmente fanno parte della complessa e composita realtà politica yemenita.

 

d) Exit strategy di arduo conseguimento

La comunità internazionale ha atteso lungo tempo prima di ritenere opportuno di esercitare le dovute pressioni sull’Arabia saudita perché perlomeno si sforzasse di limitare il massacro della popolazione civile provocato dalla serie ininterrotta di bombardamenti che per più di quattro anni hanno imperversato sul più povero Paese del mondo arabo.

A tal proposito occorre segnalare che l’80% dei venticinque milioni di yemeniti vive negli spazi territoriali controllati dagli Houthi. Questo fa capire le terribili conseguenze sul piano umanitario delle incursioni aeree saudite e la loro sterilità sotto il profilo militare e ancor più politico. Attualmente quell’80% dipende per la sua sopravvivenza dall’aiuto umanitario.

Il progressivo ritiro dalle operazioni militari degli Emirati arabi uniti senza però aver prima creato le condizioni per garantire al meglio la tutela dei loro interessi nell’ampio spazio sopra delineato, ha gravemente complicato la posizione dei sauditi, rimasti soli a far fronte ad un nemico rafforzatosi militarmente e contestualmente a vedere la loro immagine erodersi in misura crescente. Al momento l’Arabia saudita dà l’immagine di un “gigante d’argilla” le cui azioni hanno provocato una immane catastrofe umanitaria senza aver lucrato un effettivo “ritorno”, una ricca monarchia in possesso di hardware militare ultrasofisticato, acquistato a suon di miliardi, ma incapace di sottomettere una tribù araba, per converso in grado di dar loro scacco.

Di ciò i sauditi sono ben consapevoli, da qui la disponibilità mostrata sia a facilitare un ricompattamento del fronte anti-Houthi attraverso il già menzionato accordo di novembre, il cosiddetto Riyadh Agreement, sia ad accedere alle offerte del Sultanato di Oman di aprire un tavolo negoziale con gli Houthi sia per ultimo il buon viso mostrato nei confronti dell’accorato appello del Segretario generale dell’ONU Gutierres di procedere ad un cessate il fuoco in presenza di una pandemia suscettibile di seminare morte e disastri non solo in Yemen ma anche nel finitimo regno saudita.

La tracotanza di Mohammed bin Salman sembra essere diminuita a causa non solo di una guerra che non riesce a vincere e che, secondo i calcoli del Woodrow Wilson Center di Washington, uno dei più affidabili think-tank al mondo, gli costerebbe qualcosa come $200 milioni al giorno, ma anche in presenza di variabili di ordine generale di segno tutt’altro che positivo. Nuove mal auguranti variabili che comunque non hanno finora indotto un ammorbidimento della linea dura di Riyadh verso l’Iran e verso coloro che professano una fede sciita. Prova di ciò si è avuta sia sul piano internazionale sia sul fronte domestico. E’ appena un mese fa che i sauditi non hanno esitato a bloccare una mozione del Movimento dei non Allineati con la quale si esprimeva condanna delle sanzioni USA contro la Repubblica islamica alle prese con i deleteri effetti del Covid-19; impedendo in tal modo che si potessero attivare canali di aiuto a destinazione dell’Iran. E’ appena poco più di un mese fa che MBS ha ritenuto di fare della Eastern Province del regno, abitata in larga maggioranza da arabi sciiti, un’area di inibito accesso per il solo fatto che, essendo un certo numero di pellegrini sciiti rientrati dall’Iran, potevano ipso facto rivelarsi portatori del virus; cogliendo l’occasione per un violento attacco verbale contro Teheran, accusata di “comportamenti irresponsabili”.  Ulteriore prova di come una forma di masochistico e distruttivo settarismo continui ad essere il tratto ineliminabile ed ineludibile della policy saudita.

Tornando alle mal auspicanti, per i sauditi, variabili di ordine generale, In primis occorre menzionare gli effetti devastanti sulla domanda globale provocati dal Covid-19 con un conseguente crollo del prezzo del greggio giunto ad una soglia inimmaginabile prima dello scoppio dell’epidemia. Chi avrebbe immaginato che tale soglia sarebbe scesa al di sotto dei $30 al barile? Nessuno o quasi ma è quel che per converso si è prodotto. Tale sviluppo ha prodotto per il gigante del Golfo una ulteriore complicazione costituita dal braccio di ferro ingaggiato con la Russia nel campo energetico.

La prova di forza con Mosca ha preso origine col rifiuto russo di ridurre la produzione di petrolio come richiesto da Riyadh ed altri membri dell’OPEC al fine di sostenere il livello dei prezzi del greggio messo a dura prova dal clima di depressione economica causato dal Covid-19 [17]. La Russia ha giustificato tale rifiuto adducendo che, ove si fosse proceduto nel senso richiestole, si sarebbe fatto un favore ai produttori USA di petrolio scisti (“shale oil”) che probabilmente avrebbero colto l’occasione per sottrarre quote di mercato non solo ai russi ma anche ai sauditi ed ai loro alleati produttori del Golfo (Emirati e Kuwait principalmente).

In ogni caso tutto ciò ha inferto un ulteriore colpo ai disegni di MBS di finanziare la strategia volta a modernizzare il Paese, denominata “Vision 2030”, allentando progressivamente la dipendenza dal petrolio, diversificando il sistema economico attraverso massicci investimenti di capitale ed un altrettanto consistente ricorso all’imprenditoria privata. Questo traguardo appare di problematica realizzazione se si considera che, secondo calcoli fatti da analisti economici, l’Arabia saudita necessiterebbe per portare avanti profittevolmente il suaccennato processo almeno di un prezzo del greggio non inferiore a $90 al barile[18], ben lontano, come abbiamo visto, da quello attualmente riscontrabile né prevedibile nel prossimo futuro. Prospettive non rassicuranti dunque  per un giovane principe confrontato a sfide forse più grandi di lui [19].

Tornando allo Yemen si può quindi comprendere l’interesse saudita di uscire dal pantano yemenita, imitando quanto posto in essere dall’alleato di Abu Dhabi. Purtroppo per Riyadh le condizioni per poter far questo si rivelano diverse da quelle che hanno consentito all’astuto Mohammed bin Zayed (MBZ) di tirarsi fuori dal ginepraio in un Paese dove egli stesso ha dovuto apertamente riconoscere di essere di fronte ad una guerra che non finirà mai (“a war forever”).

Non potrebbe essere altrimenti ove si consideri quanto già esposto in proposito. In effetti i tentativi finora esperiti di risolvere la faida al sud tra separatisti e governativi, sfociati nel Riyadh Agreement, hanno sortito a tutt’oggi effetti alquanto deludenti, in considerazione dei divergenti punti di partenza, mentre i contatti “segreti” con gli Houthi in Oman non hanno riservato sbocchi incoraggianti visto il riaccendersi delle ostilità, tuttora in corso. Ed anche la decisione saudita del 9 aprile scorso di una tregua di due settimane in previsione di una terrificante esplosione del Covid-19 in aree già devastate da epidemie di colera in essere da quattro anni e dove più della metà delle strutture sanitarie sono state distrutte dall’aviazione saudita, esponendo la popolazione a condizioni di estrema vulnerabilità sul piano sanitario, non sembra aver prodotto finora riscontri incoraggianti, alla luce delle reazioni della formazione filo-iraniana, che ha  manifestato scetticismo sulla accettabilità di un cessate il fuoco in ordine al quale i sauditi continuano imperterriti a bombardare aree del Paese nel bel mezzo della tregua.[20] 

Né si può tralasciare il fatto che al-Qaeda è sempre presente in Yemen, principalmente negli sterminati spazi all’interno dell’Hadramaut, considerando il particolare che la formazione jihadista vanta una passata esperienza di controllo di non secondari agglomerati di quel Paese, quali l’importante porto di al- Mukalla, durata circa un anno (2015-2016), che, secondo testimonianze raccolte in loco da giornalisti arabi, visionate da chi scrive ma di cui purtroppo a distanza di tre anni ho perso traccia, non ha lasciato in verità ricordi del tutto negativi[21]. A differenza dell’ISIS incapace di radicare e consolidare una sua presenza sul territorio nel perseguimento di una strategia di delirante palingenesi, al-Qaeda è riuscita ad impiantarsi in maniera concreta negli spazi yemeniti, sfruttando al meglio le divisioni ed il caos esistenti, in grado di allacciare rapporti con la formazione islamista di al-Islah, alleata del governo diretto da Mansour  Hadi [22].

In definitiva la forza jihadista si rivela come una componente ben visibile del frastagliato e tormentato scenario politico yemenita e non si vede come essa possa uscire di scena, perlomeno in un futuro prevedibile. Né si può trascurare il non secondario dettaglio che al-Qaeda in Yemen (AQAP) è sempre stata considerata come la forza più temibile e meglio organizzata della vasta galassia delle milizie ad essa aderenti.

Come si può notare i margini di manovra della parte saudita paiono essersi notevolmente ridotti ai fini di una “face-saving exit”. Gli intenti, ben comprensibili alla luce del quadro reale, di porre termine alla insensata avventura alla frontiera meridionale del regno trovano serie asperità nel sentiero da percorrere, determinando frustrazione e sterili reazioni, il cui effetto contribuisce a ledere all’immagine di un Paese, lontano ricordo di quel che era e rappresentava fino ad un tempo recente.

Ma ora la frustrazione e le sterili reazioni hanno lasciato il posto ad iniziative unilaterali di tregua, peraltro non rispettate, che esplicitano una volontà di porre termine ad un coinvolgimento militare che si rivela sempre più insostenibile contro un nemico in posizione di forza, sull’onda dei recenti successi militari il cui scopo è ora di farli fruttare quando il momento verrà di sedersi attorno ad un tavolo in un negoziato che deciderà le sorti del Paese.  Ed è anche per questo che i combattimenti continuano, particolarmente nella strategica area di Marib, porta d’ingresso alle ricchezze del Paese.

 

e) Una crisi dall’estrema complessità

L’esigenza però rimane di trovare una soluzione alla presente impasse. Come abbiamo già visto I costi dell’avventura militare si rivelano proibitivi per l’economia saudita. Miliardi di dollari continuano ad uscire dalle casse saudite per finanziare uno sforzo di guerra esoso e dissanguante cui ora si aggiunge l’incubo della maledetta pandemia che, incurante delle frontiere stabilite dai decisori politici, colpisce anche gli spazi sauditi, aggravando in misura esponenziale il clima di profondo malessere covante nel Paese; generato da una crisi economica da non sottovalutare e dalla bieca repressione scatenata da MBS contro tutti, violentando modi di operare e prassi condivise fin dalla fondazione del Regno poco meno di un secolo fa. Il che ha creato un bacino di odio e risentimento, in seno alla casa reale, che ha tutta l’aria di rivelarsi esplosivo. [23]

Non solo ma vi è altresì in prospettiva il gravoso impegno assunto da Riyadh di ospitare il prossimo novembre il vertice del G20, un evento di capitale importanza per la discreditata monarchia saudita, un meeting dal quale il tirannico principe conterebbe di lucrare un miglioramento d’immagine che serva perlomeno a far impallidire l’eco dei fatti aberranti di cui egli si è reso principale responsabile. Il successo scaturente da quell’evento costituirebbe un appagante viatico ai fini della non lontana assunzione delle funzioni regali[24].

E’ chiaro come il perdurare di quel conflitto renderebbe alquanto ardua la materializzazione di tali obiettivi ovverossia ridare fiato alle finanze del Paese, affrontare in modo adeguato gli effetti calamitosi del Covid-19 e rientrare con una migliorata immagine nel consesso dei potenti del mondo. Al momento comunque si stenta a vedere come la leadership del regno riuscirà a far quadrare quello che sembra un problematico cerchio in assenza di un passo indietro che finora MBS appare riluttante a porre in atto. Un passo indietro imposto da un contesto dove i sauditi danno chiaramente l’impressione di non saper più arginare la pressione militare degli Houthi alla frontiera nord mentre al sud o, meglio al sud ovest del Paese,[25] mostrano crescenti difficoltà a gestire  gli effetti di un’altra guerra civile, sovrappostasi alla guerra in atto da cinque anni, che ha spezzato l’unità del fronte anti-Houthi,  generata dalla ormai aperta divergenza degli obiettivi perseguiti da Riyadh ed Abu Dhabi.[26]

Al momento si resta in attesa di quel che seguirà alla tregua unilaterale di due settimane mentre prosegue la martellante azione espletata dall’inviato dell’ONU Martin Griffith per una sospensione delle ostilità suscettibile di far ripartire il dialogo politico in presenza dell’incubo incombente del coronavirus.[27] Quel dialogo interrottosi col fallimento della mediazione ONU, formalizzatasi con gli accordi di Stoccolma della fine del 2018 vertenti principalmente sulla esigenza di pervenire ad una tregua sostenibile intorno al porto di Hodeida sul Mar Rosso per consentire l’inoltro degli aiuti a favore dei 24 milioni di yemeniti esposti a privazioni di ogni genere, in primis la mancanza di cibo e medicinali. Nulla è seguito a quelle intese. Intorno a quel vitale porto la tregua viene molto spesso violata e le condizioni di vita di quella povera gente hanno continuato a peggiorare coll’agghiacciante stillicidio di donne e bambini.

La mediazione ONU allora fallì ma ciò non significa che non si possa provare qualche speranza per questo ennesimo sforzo delle Nazioni Unite che, sviluppo importante, ha recentemente beneficiato dell’unanime sostegno del Consiglio di Sicurezza la cui risoluzione ha appoggiato un riavvio del problematico negoziato reso più arduo dal manifestarsi di una pletora di confliggenti interessi e dal rifiuto saudita fino ad ora di porre fine al blocco terrestre, navale ed aereo imposto da Riyadh le cui conseguenze pesano tremendamente sulle condizioni di vita degli yemeniti.

Dalla fine del 2018 ad oggi il quadro politico in Yemen si è ulteriormente complicato con l’insorgere di divisioni e contrasti che come metastasi si sono allargate fino a coinvolgere i diversi attori, regionali e locali, della coalizione anti-Houthi sì da rendere ancor più complessa l’equazione politica in quel martoriato Paese.  E’ quel che succede quando una guerra civile scoppiata per cause endogene e che esclusivamente in tale ambito dovrebbe trovare una sostenibile via d’uscita viene ad essere infestata da pesanti interferenze esterne che ne alterano i tratti, misconoscendone le cause profonde, riaccendendo in the process vecchie e mai sopite ferite. Il quadro politico dello Yemen deve fare i conti con questi destabilizzanti negativi aspetti.

In effetti il peso dei condizionamenti esterni ha germinato altre occasioni di contrasto, creando nel contempo inattese convergenze. Secondo quanto affermato da Ayad Qassem, apprezzato giornalista yemenita, le divisioni e le inattese convergenze si manifesterebbero ora chiaramente al livello della compagine governativa presieduta dallo screditato Mansour Hadi. Dal suo punto di osservazione contrasti sarebbero emersi tra un’ala intransigente il cui obiettivo sarebbe di schiacciare senza alcuna soluzione di compromesso i separatisti con l’obiettivo di pervenire ad un controllo totale del Sud dello Yemen ed un contrapposto schieramento per il quale occorrerebbe in ogni caso mantenere aperti canali negoziali con l’STC.[28]

In verità le affermazioni di Ayad Qassem trovano un interessante e qualificato riscontro nelle conclusioni cui è giunta Fatima Alasrar, analista, anche lei yemenita, operante presso il Middle East Institute di Washington, a parere della quale i tentativi di mediazione tra il governo Hadi ed i secessionisti dell’STC, come contemplato dallo scricchiolante Riyadh Agreement, devono fare i conti con gli intenti di una componente dello schieramento governativo, i Fratelli Mussulmani di al-Islah, ferocemente ostili a che si possa attentare all’unità territoriale dello Yemen. Sempre secondo l’analista araba al-Islah non disdegnerebbe di far fronte comune perfino con gli Houthi, nemici acerrimi di Mansour Hadi, se da questa assonanza, apparentemente contro natura, l’integrità del Paese ne uscisse garantita. Ed allora troveremmo la spiegazione del sostegno fornito da Qatar a quell’ala oltranzista per la quale la divisione dello Yemen è “off the table”. Una ulteriore conferma dell’insanabile scontro di interessi tra i due minuscoli e ricchi Paesi del Golfo: Qatar e gli Emirati arabi uniti.

Ciò dà dunque un’idea della enorme complessità dell’equazione yemenita e dell’immane compito che attende le Nazioni Unite nel tentativo di ridare pace ad un Paese martoriato.

 

Conclusioni

 

Comunque quel che si può dire è che il dossier yemenita riserverà sviluppi nel prossimo futuro tali che non solo comporterebbero probabilmente un mutamento della carta politica dello Yemen,  conseguenza pressoché scontata secondo l’International Crisis Group[29], ma avrà delle incidenze sugli equilibri della regione, in primis su quelli dell’ingombrante vicino saudita, “la maledizione dell’entità yemenita”.[30]

Il Riyadh Agreement dello scorso novembre è stato più che altro imposto dalla potenza saudita, lasciata sola a gestire una realtà ingestibile da un alleato ormai proteso in una proiezione diplomatica dal Mar Rosso all’Iran che tiene in scarsa considerazione gli obiettivi perseguiti dal megalomane saudita. Il suddetto accordo affonda su basi fragili minato da una spinta secessionista apertamente sostenuta da Abu Dhabi e dalle divisioni serpeggianti all’interno dello stesso governo Hadi, anch’esse destinatarie di appoggi esterni. A parere della maggioranza degli analisti la suddetta intesa non avrà vita lunga.

Valutiamo ora l’impatto di eventi che sconvolgono il mondo e che inevitabilmente finiranno per pesare anche sull’evoluzione della crisi yemenita. Intendiamo riferirci alla pandemia col suo seguito mortifero ed alle conseguenze che da essa sono scaturite: una recessione globale ed un mercato energetico in ordine al quale le soluzioni trovate dai competenti organismi internazionali sono apparse poco più che palliativi, assolutamente insufficienti a ridare un equilibrio ad un mercato anemico, refrattario a dare un positivo riscontro alle decisioni recentemente assunte in sede OPEC+ sotto le pressioni USA. Il contrario sta avvenendo.

A fronte di queste tremende sfide appare difficile immaginare una rottura dell’alleanza tra Riyadh e Abu Dhabi, basata su aspetti essenzialmente “securitari” e di “intelligence-sharing”.[31] A tal proposito occorre tener presente che si tratta di due dinastie autocratiche unite dal comune desiderio di tutelare sistemi di potere assoluti, impermeabili a qualsiasi vento riformatore in chiave politica. Tali superiori assonanze vanno al di là delle divergenze e di finalità non collimanti. Ergo a nostro parere nessuna delle due capitali potrebbe avere interesse a che scoppi una “proxy war” nel povero Yemen con dei risvolti imprevedibili. Nell’attesa di conoscere gli sviluppi che interverranno al termine delle due settimane di tregua decise unilateralmente dai sauditi, legittimo appare porsi due domande.

La prima riguarda la capacità delle due Potenze regionali di evitare che lo scoppio degli antagonismi, particolarmente nel sud ovest del Paese, assuma degli sviluppi incontrollati. Quel che lascia ben sperare per loro in questo senso è la costatazione che gli Houthi nella loro avanzata verso le aree ricche dello Yemen centrale e meridionale costituirebbero una minaccia sia per il debole governo Hadi sia per il movimento separatista del quale la formazione filoiraniana non approva le pulsioni secessioniste, sebbene in misura meno inflessibile dei locali Fratelli mussulmani.

Occorre altresì tener presente la condivisa rilevanza strategica degli obiettivi perseguiti dai due governi autocratici mirati ad assicurarsi vie di accesso in direzione del Golfo di Aden per il loro export petrolifero. A tal proposito mi ricollego a quanto già anticipato nel corso dell’esposizione quando avevo operato un distinguo tra il sud ovest ed il sud est dello Yemen. In effetti mentre per il primo si configura una penetrazione economica degli Emirati, sfruttando il risorto irredentismo secessionista, per il secondo è in atto per converso una penetrazione saudita, ignorata dai media internazionali ed invisa alle locali comunità, mirata a trovare terminali per l’export petrolifero del Regno. Lo spessore del parallelismo strategico esistente tra Abu Dhabi e Riyadh e la correlata esigenza di un proficuo coordinamento in tale campo risultano evidenti. Essi dovrebbero contribuire a garantire non solo la saldezza del loro rapporto ma anche la loro capacità di esercitare le opportune pressioni sui loro protetti yemeniti, in presenza di una mediazione ONU destinataria del sostegno internazionale. A nostro avviso l’alleanza tra i due regimi assoluti continuerà ad esercitare il suo ragguardevole peso sugli eventi che si produrranno nello spazio yemenita.[32]

La seconda domanda coinvolge più direttamente gli Emirati ed indirettamente gli Houthi, appoggiati da un Iran con il quale Abu Dhabi intrattiene cospicue relazioni. Come già segnalato Abu Dhabi porta avanti da un anno una politica, dai critici definita “avventurista”, da altri vista come “innovativa”, che non ha cessato di creare difficoltà all’alleato saudita. Un aspetto di una policy, volta a perseguire in maniera cinica ed inflessibile il massimo ritorno da una guerra con finalità ben distinte da quelle saudite, ha riguardato il rapporto con l’Iran, nemico esistenziale per la monarchia saudita ma non per l’uomo forte di Abu Dhabi.[33]

Eloquenti a tal proposito appaiono tre atti concludenti e significativi posti in atto dagli Emirati verso la Repubblica islamica a partire dal luglio 2019, nel momento in cui Mohammed bin Zayed (MBZ) decide di ritirare il grosso del suo contingente militare dallo Yemen. La sequenza dei tre qualificanti atti inizia con l’avvio di un negoziato, concretamente sviluppatosi, con l’Iran mirato ad un accordo sulla sicurezza nello spazio marino separante i due Paesi. Nell’ottobre successivo Abu Dhabi prende un’altra impattante decisione: sblocca $700 milioni appartenenti all’Iran, fino a quel momento congelati in seguito alle sanzioni USA imposte da Trump dopo il suo ritiro dall’accordo nucleare del 2015. Il terzo atto si svolge lo scorso marzo quando MBZ decide di inviare tonnellate di aiuti a Teheran al fine di arginare il diffondersi della calamitosa pandemia. Tutto questo avveniva mentre, come già segnalato, il suo alleato saudita ghettizzava l’area sciita del regno con argomentazioni dettate dal livore settario e nel contempo bloccava una mozione del Movimento dei non Allineati di condanna delle sanzioni USA contro la Repubblica islamica.

Mi è sembrato utile menzionare questi fatti per illustrare non solo il carattere di una diplomazia dei sette Emirati estremamente concreta e pragmatica, ma anche, per quel che più direttamente ci riguarda, per le implicazioni che tali sviluppi potrebbero avere nella guerra civile yemenita. Nel senso che Abu Dhabi avrebbe a questo punto la possibilità di intervenire sugli Houthi, con i quali peraltro lo scorso autunno ha portato avanti colloqui “segreti” nel Nord Yemen, senza che ciò possa suscitare reazioni negative di Teheran. Sebbene l’appoggio di Teheran ai ribelli yemeniti si riveli diverso da quello certamente più condizionante esercitato dagli Emirati e dai sauditi sui loro protetti yemeniti, è pur sempre vero che l’Iran non ha mai celato il proprio aperto sostegno a quella che a Teheran definiscono una lotta di liberazione contro un regime filo-saudita “oppressivo e corrotto”. Né Ansar Allah potrebbe ignorare gli orientamenti e gli auspici di Teheran che in base a quel che sappiamo vanno nella direzione di un sostegno agli sforzi di pace portati avanti dalle Nazioni Unite. Posizione che non potrebbe essere diversa alla luce delle difficoltà cui la Repubblica islamica deve far fronte tra gli effetti della pandemia, le assurde punitive sanzioni USA ed un quadro economico-sociale tutt’altro che rassicurante.

Giunti a questo punto e volendo tracciare delle previsioni su quel che potrà seguire alla succitata tregua, citerei in proposito quanto formulato dall’analista araba e yemenita Fatima Alasrar a parere della quale il trend espansionistico degli Houthi non accennerà comunque a diminuire, anzi tenderà ad “intensificarsi”. Inoltre la Alasrar torna ad evidenziare il rilievo politico e religioso di al-Islah, appoggiato da Qatar e dalla Turchia.[34]  In effetti la formazione islamista è una variabile storicamente importante della realtà yemenita, ed il ruolo che rivendica trova corrispondenza nel contesto sociale del Paese. E lo Yemen non è nell’universo arabo l’unico esempio al riguardo.

Poco indurrebbe all’ottimismo su quel che seguirà sul quale peserà altresì la posizione di oggettiva debolezza della monarchia saudita confrontata a sfide esterne, regionali e globali, cui si aggiungono le inquietudini per gli equilibri interni del Regno scossi da variabili al di fuori del controllo da parte saudita e dalla velleitaria e incompetente governance di Mohammed bin Salman.[35] E non è detto che questo non possa rivelarsi in prospettiva un ulteriore ostacolo su un sentiero di pace cosparso di incognite.

A questo punto ciò che attenua il senso di istintivo pessimismo è il condiviso desiderio della comunità internazionale, recentemente manifestatosi in sede di Consiglio di Sicurezza dell’ONU, di portare avanti lo sforzo negoziale, ponendo termine ad una guerra infame e senza via d’uscita. Questo rappresenta a nostro avviso l’unico non illusorio elemento di speranza in uno scenario devastato come lo Yemen, anche se la distanza tra le rispettive posizioni delle parti in conflitto rimane poco meno che incolmabile. 

Prima di concludere appare interessante a mio avviso attirare l’attenzione sull’analisi di Stacey Phibrick Yadav, apprezzata politologa di lingua inglese, secondo la quale i secessionisti dell’STC rappresenterebbero la principale minaccia all’attuale assetto territoriale dello Yemen. Ciò sarebbe dovuto essenzialmente a due fattori di impattante rilievo: il primo sarebbe costituito dalla guerra e dall’occupazione manu militari del sud ovest del Paese da parte degli Houthi intervenute successivamente alla loro presa del potere a Sanaa nel 2015. Il secondo sviluppo, un vero e proprio “game-changer”, sarebbe costituito, a parere dell’analista, dal dichiarato sostegno politico e militare accordato ai secessionisti dagli Emirati arabi uniti.[36] Una sequela di eventi che sembrano aver reso irrefrenabile il cammino dell’STC verso il conseguimento di traguardi importanti. In definitiva il cambiamento della mappa politica dello Yemen potrebbe partire proprio dal sud, la regione del Paese da dove non è partita in effetti la devastante guerra civile.

Più sopra abbiamo parlato di situazioni consolidate e quella appena esposta soddisfa ampiamente tale definizione. Ma essa non è l’unica. Ve ne è un’altra, forse meno potenzialmente dirompente della prima nel senso che verosimilmente non comporterebbe un mutamento dell’assetto territoriale, ma che sarebbe nondimeno portatrice di conseguenze rilevanti sul piano politico. Intendiamo riferirci agli altri importanti attori della tragica crisi, gli Houthi, che governano da più di cinque anni il Nord del Paese, la parte più povera ma più densa di popolazione dello Yemen.

Come sottolineato dalla ricercatrice anglosassone tale costatazione non può non comportare una rilevante conseguenza per gli equilibri politici yemeniti; ossia che qualsiasi accordo di ripartizione del potere (power-sharing agreement) non potrebbe assolutamente prescindere dall’accettazione del fatto che gli Ansar Allah si sentano ormai legittimati a veder riconosciuta la governance esercitata per così lungo tempo sul loro territorio. Diversamente, come puntualizzato da Stacey Philbrick, da quanto fu dato di rilevare nell’analoga intesa stipulata nel 2012 quando la tribù araba filoiraniana era rimasta esclusa dall’”arrangement”, creando le condizioni per la loro rivolta.

Appare dunque evidente come gli sviluppi che seguiranno alla auspicata fine del conflitto rivestiranno caratteri di primordiale rilievo perché molto probabilmente ci offriranno uno scenario politico e territoriale di quel martoriato Paese diverso da quello esistente prima dello scoppio delle ostilità.

Interessante è il rilevare come le conclusioni cui giunge Stacey Philbrick Yadav si avvicinino concettualmente alle già citate previsioni formulate dall’autorevole “International Crisis Group” di Bruxelles secondo il quale sarebbe inimmaginabile che mutamenti all’assetto territoriale e istituzionale dello Yemen non si producano a seguito di una guerra sconvolgente e destabilizzante, in corso da cinque anni.

Se così fosse sarebbe la prima volta dall’inizio degli anni settanta, quando tre entità della regione, Emirati arabi uniti, Qatar e Bahrein, divennero Stati indipendenti, affrancandosi dalla tutela britannica, che nella penisola arabica avrebbero luogo irreversibili cambiamenti suscettibili di cambiare la Storia della regione. 

 

Angelo Travaglini diplomatico in pensione, membro del Comitato Scientifico del CIVG

 



[1] Si parla di Nord Yemen dato che il sud del Paese ed il suo centro più importante Aden erano all’epoca sotto tutela britannica.

[2] Isa Blumi, Destroying Yemen, University of California Press

[3] Parliamo sempre di Nord Yemen, dato che, come già segnalato, Aden ed il sud del Paese erano all’epoca sotto tutela britannica.

[4] Il seguito del sanguinoso rovesciamento di regime in Iraq fu il venir meno del cosiddetto “Baghdad Pact”, alleanza conservatrice in chiave anti-sovietica con sede a Baghdad. A partire da quel momento essa cambiò nome dando vita al Central Treaty Organisation (CENTO) con sede ad Ankara.

[5] Ali Abdullah Saleh viene nominato Presidente del Nord Yemen nel 1978. Rimase in questa carica fino al 1990 quando in esito all’unificazione del Paese, egli diventa Primo Presidente dello Yemen unificato, funzioni che mantenne fino al 2012 quando la spinta popolare lo spodestò brutalmente da quello scanno.

[6] Isa Blumi, Destroying Yemen, University of California Press.

[7] Ansar Allah (“seguaci di Allah”) è un’altra denominazione degli Houthi.

[8] Quel che è avvenuto in Yemen non si è prodotto in un’altra entità araba, Bahrein, dove la rivolta della maggioranza sciita e del movimento democratico e popolare contro la dinastia Khalifa fu soffocata nel marzo 2011 dalla stessa alleanza reazionaria che ha insanguinato il suolo yemenita, intervenuta anche allora militarmente nel minuscolo Paese del Golfo con risultati diversi da quelli finora costatati in Yemen.

[9] Mohammed al Bukhaiti, portavoce Houthi, ha altresì aggiunto che “la guerra continuerà finché perdurerà il blocco aereo, navale e terrestre imposto dalla coalizione guidata dall’Arabia saudita e dagli Emirati”.

[10] Controversa appare l’origine di quell’attacco che secondo taluni avrebbe visto come autori di esso milizie sciite irachene filo-iraniane. Gli Houthi per converso continuano a rivendicarne la paternità. In ogni caso quell’attacco ha rivestito un indubbio rilievo in termini politici e di deterrenza militare.

[11] La capacità di Ansar Allah di elevare il proprio grado di deterrenza militare è stato interpretato da alcuni analisti come la prova dell’intento di svolgere un accresciuto ruolo nella regione analogo a quello svolto dagli Hitzbollah libanesi e dalle milizie sciite irachene, creando in tal modo le condizioni per entrare a far parte a pieno titolo del cosiddetto Asse della Resistenza di ispirazione iraniana. Recenti esternazioni del portavoce militare degli Houthi non smentirebbero simili illazioni.

[12] V’è da tener presente che gli Emirati arabi uniti vantano un sistema economico il più diversificato tra i sei membri del Gulf Cooperation Council. Essi costituiscono agli occhi dei sauditi l’approdo agognato attraverso il quale allentare la dipendenza dal petrolio con un ruolo rilevante assegnato al capitale ed alla imprenditoria privati. Approdo tuttora molto lontano per il Regno wahabita.

[13]  “Gli Houthi sono una parte della società yemenita ed avranno un ruolo nel futuro”.

[14] Vi è peraltro da rilevare come il peso e la forza dell’STC non si espandono in altri spazi del sud yemenita. In effetti nella sterminata area dell’Hadramaut e della provincia di Mahra confinante con l’Oman, le parole d’ordine dello schieramento separatista suscitano echi tutt’altro che favorevoli.

[15] In effetti una defilata sinergia tra gli schieramenti di al-Islah e Ansar Allah non appare del tutto inverosimile ove si pensi che entrambe le formazioni mostrano, seppur a gradazioni diverse, ostilità ad una spaccatura dell’integrità territoriale dello Yemen.

[16] Secondo quanto riferito dall’Organizzazione umanitaria Save the Children 85.000 bambini al di sotto dell’età di 5 anni sarebbero stati fatti morire di fame nel periodo 2015-2018, i tre anni in cui i bombardamenti sauditi hanno registrato il picco dei massacri di civili e di distruzione delle infrastrutture del Paese.

[17] Da rilevare che la Russia non fa parte dell’OPEC ma, in esito ad un accordo intervenuto alla fine del 2016 tra sauditi e russi che ha dato vita al cosiddetto OPEC+ comprensivo dunque anche di Paesi al di fuori dell’OPEC, si sono create le condizioni perché altri Paesi produttori di petrolio all’esterno di quest’ultimo potessero interagire con quelli che ne sono membri al fine di una gestione più soddisfacente e più sostenibile del mercato del greggio. La contrapposizione creatasi tra Riyadh e Mosca ha messo in difficoltà un sistema fino a poco tempo fa abbastanza funzionante.

[18] Cfr. Fitch rating agency

[19] Al contrario vi è da rilevare che lo scriteriato modus operandi saudita volto ad inondare il mercato petrolifero pompando fino al limite delle capacità del regno (oltre i 12 mln bpd) ha suscitato profonda irritazione presso quegli ambienti repubblicani al Congresso americano che fino ad ora avevano avallato i veti di Trump all’approvazione di risoluzioni con le quali si intendeva ritirare il sostegno USA alla guerra in Yemen. Alla fin fine MBS ha fatto marcia indietro, subendo un duro colpo in termini di affidabilità presso i suddetti ambienti che lo rendono colpevole di aver fatto perdere, con le sue “insensate” decisioni, posti di lavoro in un anno elettorale.  Un passo indietro che non risolve affatto i problemi di sviluppo sauditi per una diversificazione del sistema economico e che lascia il regno in balia di un mercato dove le quotazioni del greggio continuano ad essere molto basse né si prevede un’inversione di tendenza.

[20] Da notare che la decisione di Riyadh di procedere ad un cessate il fuoco è intervenuta appena due settimane dopo che i sauditi avevano invitato gli Houthi nella capitale del Regno per avviare un negoziato diretto. Invito cui Ansar Allah ha preferito non dare risposta. Inoltre secondo quanto riportato dal quotidiano britannico The Independent nella prima settimana della tregua unilaterale hanno avuto luogo ben 26 raid aerei sauditi in varie località del Paese.

[21] La formazione jihadista durante il periodo nel quale ha esercitato il controllo del porto di al-Mukalla, capoluogo dell’Hadramaut, non solo avrebbe gestito profittevolmente i traffici inerenti alle attività portuali ma, secondo quanto informalmente appreso, avrebbe altresì promosso iniziative a valenza sociale a favore della comunità locale.

[22]  “Il confine tra jihadismo e salafismo è piuttosto opaco”: Stacey Philbrick Yadav .

[23] Secondo quanto riferito da Reprieve, associazione britannica impegnata contro la pena di morte, il numero di esecuzioni capitali in Arabia saudita nei cinque anni dall’ascesa al trono di Salman bin Abdulaziz, è di 800, ben superiore a quanto registrato durante il regno del suo predecessore Abdullah bin Abdulaziz.

[24]  Secondo alcune fonti arabe l’intento di MBS sarebbe di salire al trono prima dell’impegno del G20. In tal modo l’incoronazione avverrebbe prudentemente prima della scomparsa dell’anziano e malato genitore.

[25]  Spiegheremo meglio più avanti il perché di questa precisazione.

[26]  Nadwa al-Dawsari, Middle East Institute.

[27] Martin Griffith: Secondo la testimonianza dell’inviato dell’ONU la trattativa in essere tra gli Houthi e il governo presieduto da Hadi procederebbe “favorevolmente”. Dichiarazioni che purtroppo non sembrano suffragate dalle ostilità tuttora in corso in alcune aree del Paese.

[28] A parere del giornalista yemenita parrebbe che dietro la fazione intransigente vi sia la longa manus di Qatar mentre la fazione possibilista sarebbe finanziata e sostenuta dall’Arabia saudita. Un altro campo di scontro tra Riyadh e Doha, divenuti ormai nemici inconciliabili.

[29] L’International Crisis Group è un’organizzazione non-governativa, no-profit impegnata a contrastare i pericoli di guerra ed a promuovere condizioni per una pace duratura. La sua sede è a Bruxelles.

[30] Isa Blumi, Destroying Yemen, University of California Press.

[31] In proposito vi è da rilevare che Abu Dhabi prosegue la sua densa collaborazione in questi campi anche con gli Stati Uniti. Di ciò si è avuta ulteriore conferma nell’isola di Socotra dove, in base in quanto appreso, la penetrazione degli Emirati avrebbe comportato altresì lo stazionamento di militari USA nell’isola.

[32] L’Arabia saudita è massicciamente presente nel sud est del Paese (v.mappa pag.8), La cosa non è gradita alle locali comunità in stato di agitazione contro quel che considerano una violazione dei loro spazi e di una autonomia che non ha nulla a che vedere con l’irredentismo dell’STC. La provincia dell’Hadramaut, ha una rilevanza strategica, essendo ricca di petrolio, con l’importante porto di al-Mukalla, sul quale da tempo i sauditi hanno puntato lo sguardo. Da notare comunque che negli immensi spazi desertici dell’interno dell’Hadramaut sono presenti agguerrite formazioni di al-Qaeda che nessuno a tutt'oggi è riuscito a sloggiare da lì e che continuano a rendere la vita molto dura sia ai sauditi sia alle forze governative.

[33] Interessante rilevare come l’apertura di MBZ verso Teheran si dispiega in parallelo con l’espandersi degli interessi mercantili di Abu Dhabi verso i due versanti, arabo ed africano, bagnati dal Mar Rosso nell’intento di dar vita ad una sorta di convergenti allineamenti sotto la sponsorship degli Emirati. L’assonanza tra UAE ed Iran è il classico esempio di un avvicinamento basato sul reciproco vantaggio.

[34] “Al-Islah costituisce una variabile imprescindibile della realtà yemenita”: Fatima Alasrar, Middle East Institute. A tal proposito occorre segnalare la rilevante azione dispiegata in Yemen dalle “charities” turche la cui proiezione nel campo umanitario, culturale e religioso suscita da qualche tempo le apprensioni dell’Egitto portato a considerare questa presenza di Ankara come un’insidia per il traffico marittimo dallo stretto di Bab al Mandeb al Canale di Suez.

[35] Interessante appaiono in proposito i giudizi su MBS che spesso è dato di rilevare nei media israeliani dove, in esito alla serie di fallimenti cui MBS è andato incontro dal momento in cui nel 1917 ha spodestato in un putsch di palazzo il Crown Prince legittimo Mohammed bin Nayef, l’erede al trono saudita è considerato nulla di più di un “serial bungler” (incapace seriale) o di un leader non all’altezza dei suoi compiti o di una figura della quale gli Stati Uniti (ed Israele) farebbero bene a non fidarsi. Riesce arduo dissentire da tali non lusinghieri apprezzamenti alla luce dei fatti. L’allineamento tra Riyadh e Tel Aviv presenta delle incognite.

[36] Stacey Philbrick Yadav, “ Non-state actors and approaches to the Yemeni state”, Hobart and William Smith Colleges.