Soleimani. Un assassinio dalle inquietanti conseguenze
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- Scritto da Angelo Travaglini
14 gennaio 2020
Premesse.
L’eliminazione fisica di Qassem Soleimani, comandante della branca esterna (Quds Force) del Corpo iraniano delle Guardie rivoluzionarie islamiche (IRGC) avvenuta con un attacco di droni USA partiti da Qatar all’aeroporto internazionale di Bagdad lo scorso 3 gennaio, ha suscitato preoccupazione e sgomento nell’intera regione medio-orientale, a livello sia delle Potenze regionali sia di Potenze a proiezione globale quali la Russia e la Cina, interessate ad una progressiva stabilizzazione di una regione sconvolta da guerre e distruzioni. La gravità di quanto avvenuto non è da dimostrare, trattandosi di un attacco perpetrato contro la Repubblica islamica, Stato sovrano, violando la sovranità di un altro Stato sovrano, l’Iraq, nella cui capitale Soleimani, di fatto numero due della gerarchia politica iraniana, ha visto tragicamente concludersi la sua esistenza.
A tal proposito significative sono apparse le reazioni di Mosca e di Pechino di fronte ad un evento gravido di conseguenze per gli equilibri di pace non solo dell’area dove ha avuto luogo ma anche al di là di essa. Mentre il Cremlino ha definito l’atto perpetrato come un’operazione “avventurista”, (un eufemismo per non definirlo propriamente per quello che è, un atto di pirateria), la Cina non ha esitato a considerarlo “una flagrante violazione delle regole basilari del diritto internazionale, realizzato senza una riflessione sulle conseguenze da esso scaturenti”. Né potrebbe essere qualificato altrimenti visto che la vittima predestinata di esso non era né un signore della guerra come il libico Khalifa Haftar né il capo di una forza mercenaria.
Qassem Soleimani era, come già segnalato, la seconda figura politica della Repubblica islamica, dopo il Leader Supremo l’Ayatollah Alì Khamenei, ed il responsabile e l’artefice della complessa architettura di sicurezza iraniana nell’area del Levante, basata sul concetto di “deterrenza avanzata” (forward deterrence) con tutte le sue ramificazioni o “tentacoli”, come sprezzantemente definite negli ambienti occidentali, in armonia con la consolidata prassi interpretativa dei due pesi e delle due misure.
Il suo contributo alla lotta contro il terrorismo dell’ISIS si è rivelato di fondamentale importanza, assurgendo al ruolo di punto di riferimento essenziale negli sforzi protesi per impedire il rovesciamento del regime di Baschar al Assad e l’ingresso a Damasco delle formazioni jihadiste sostenute da alcuni Paesi del Golfo. La pletora di milizie sciite sotto la sua guida provenienti dall’Iraq, Afghanistan e Pakistan e da altri Paesi, affiancanti le unità iraniane di al-Quds e quelle libanesi di Hezbollah, ha pagato un prezzo altissimo in termini umani e materiali per il conseguimento di tale obiettivo. Ricordiamo altresì come fu grazie alla missione effettuata nel luglio 2015 a Mosca da Soleimani che maturarono le condizioni per l’intervento russo nel teatro di guerra siriano, deciso da Putin nel settembre successivo e rivelatosi determinante per la salvaguardia del regime di Damasco, invertendo grazie alla potenza aerea russa le sorti di un conflitto che sembrava prevedere un futuro tenebroso per la Siria.
Gravità dell’evento.
Per comprendere la gravità e la temuta incidenza dell’efferato assassinio basti pensare che occorre risalire alla Seconda guerra mondiale per trovare un caso analogo a quello in trattazione. In effetti fu nell’aprile 1943 che gli Stati Uniti assassinarono l’ammiraglio giapponese Isoroku Yamamoto mentre era in volo nei cieli della Papua Nuova Guinea. Da allora nel corso dei decenni di violenza e di sangue caratterizzanti la proiezione esterna americana nel mondo nulla di simile a quel che è accaduto pochi giorni fa all’aeroporto di Bagdad si era prodotto. Un evento che riporta il clima prevalente in Medio Oriente a quello che si respirava nelle prime settimane del 2003 alla vigilia dell’aggressione allo Stato sovrano dell’Iraq, dalla quale sviluppi calamitosi sono derivati quali in primis la nascita della formazione terrorista dell’ISIS, vera e propria procreazione di quella demenziale aggressione. In effetti il Daesh, per usare un acronimo arabo, prende le sue mosse dal mare di sangue conseguente all’occupazione USA manu militari dello spazio iracheno e dalla successiva deleteria politica perseguita dalla potenza occupante fondata su criteri etnico-settari. Senza contare il non secondario particolare che da quell’insano attacco implicazioni negative sono scaturite per gli stessi interessi statunitensi nel senso che esso ha consentito all’Iran di tornare ad esercitare quell’influenza e quel peso nel Paese finitimo che per storia, religione e cultura spettano alla Repubblica islamica in Iraq. In effetti se l’Iran è dal punto di vista politico nell’universo islamico la principale entità dell’areopago sciita, l’Iraq per converso è il Paese punto di riferimento sul piano religioso per la comunità sciita se è vero che esso è sede di ben quattro luoghi sacri in quattro distinte città a differenza dell’Iran che ne vanta soltanto uno.
Questa piccola digressione può aiutare a comprendere quali potrebbero essere le conseguenze di una guerra tra gli Stati Uniti e l’Iran, vista peraltro con fondato timore da tutti i Paesi arabi della regione, compresi quelli più pervicacemente ostili a Teheran, quali primo tra tutti l’Arabia Saudita, acerrimo nemico della Repubblica degli ayatollah, ma anche gli Emirati arabi uniti e l’Egitto del generale al-Sisi. Tutti ben consapevoli di quel che potrebbe seguire da un conflitto che al momento neanche Israele predilige.
Un processo interrotto.
In tale contesto riterrei utile attirare l’attenzione sul fatto che da qualche tempo l’Iraq, unitamente al Pakistan, portava avanti una mediazione politica volta ad attenuare le tensioni tra Riyadh e Teheran facilitata dalla serie di fallimenti registrati dal regno wahabita sotto il pugno di ferro del giovane ed autocratico erede al trono Mohammed bin Salman, l’uomo forte del Paese ed il vero indiscusso detentore del potere. Sembrerebbe addirittura, in base a quanto appreso da fonti attendibili, che forse la principale ragione del viaggio di Soleimani, Iniziato a Damasco, proseguito a Beirut e tragicamente terminato a Bagdad, fosse la consegna da parte sua ai mediatori iracheni di una missiva del Leader Supremo Khamenei indirizzata alla controparte saudita trasmessa per l’appunto nel quadro del suaccennato processo di mediazione. Una delle ragioni dell’efferato assassinio? Tale interrogativo potrebbe dare la stura ad una serie di considerazioni sul tema che ci porterebbero però lontano dall’argomento trattato in queste riflessioni.
Una cosa comunque è bene reiterare ovverossia che la mediazione era in corso e ad essa sia Riyadh che Abu Dhabi erano e sono chiaramente interessati. Una ulteriore motivazione a base di tale interesse va anche ricercata nel fatto che l’Arabia Saudita ospiterà nel novembre di quest’anno il vertice del G20 mentre sempre quest’anno Dubai sarà la sede dell’Expo 2020; due eventi che non hanno bisogno di presentazione in termini di importanza sotto il profilo politico ed economico-commerciale, in particolare per un Paese come il regno saudita alla ricerca di una credibilità fortemente compromessa in conseguenza del fallimento della sua aggressione allo Yemen, il più povero Paese del mondo arabo, dell’efferato assassinio del povero giornalista saudita Jamal Khashoggi, avvenuta il 3 ottobre 2018 nella sede del suo Consolato ad Istanbul, del vistoso mancato successo del mal concepito blocco aereo, terrestre e navale imposto al minuscolo ma ricchissimo Emirato di Qatar, uscito paradossalmente rafforzato in termini di credibilità ed immagine da quanto abusivamente deciso a Riyadh ed Abu Dhabi nonché dell’umiliazione subita dall’attacco, attribuito alle milizie irachene pro-iraniane, alle due più importanti istallazioni petrolifere dell’ARAMCO (Arabian American Company), l’ENI saudita, nell’est del Paese.
In tale medesimo contesto anche Israele osserva con inquietudine il corso degli eventi a dispetto della retorica elettoralistica e bellicista del suo screditato leader Benjamin Netanyahu, l’unico secondo alcune fonti ad essere al corrente dei criminali intendimenti del Presidente USA. Al riguardo appare eloquente quanto recentemente dichiarato dal capo di Stato maggiore israeliano Aviv Kochavi secondo il quale non solo una guerra con l’Iran apparirebbe ora “poco meno che inevitabile” ma essa si rivelerà “lunga ed estenuante” e comporterà un prezzo alto per Israele in termini di risorse umane e materiali. Kochavi, a differenza del pluri-indiziato e poco credibile Netanyahu, è un personaggio abituato a chiamare le cose con il loro nome e le sue esternazioni hanno lasciato il segno, evidenzianti come esse appaiono lo stato di precarietà che si vive attualmente nello Stato ebraico dove inter alia un’interminabile crisi politica interna porterà il prossimo marzo il Paese nello spazio di un anno alla terza consultazione elettorale.
Gli sforzi di mediazione volti ad attenuare le tensioni subiscono quindi ora una brutale battuta d’arresto mentre venti di guerra soffiano di nuovo nella regione, alimentati inoltre dalle ricorrenti incursioni aeree israeliane nei cieli siriani ed iracheni mirate a colpire le attività delle milizie pro-iraniane operanti in quei due Paesi. Molto si è superficialmente affermato sulle rappresaglie iraniane a quanto accaduto lo scorso 3 gennaio in considerazione della differenza in termini di hardware militare esistente tra gli USA e l’Iran.
Conseguenze
In proposito trovo che non si dà peso ed importanza ad una prima impattante rappresaglia posta in essere dall’Iran concernente l’accordo nucleare voluto da Obama e formalizzato nel 2015 tra Teheran ed i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU + la Germania e l’UE. Un accordo dal quale Trump è uscito unilateralmente ed illegalmente nel 2018 senza consultarsi, come avrebbe dovuto, con gli altri firmatari dell’Atto. Ebbene la prima reazione iraniana all’assassinio è stata quella di informare che da quel momento l’Iran si considerava affrancato da ogni obbligo inerente all’accordo, peraltro senza abiurarlo e mantenendo aperta la collaborazione con l’Agenzia internazionale dell’Energia atomica (IAEA), e che conseguentemente avrebbe ripreso in pieno il programma di arricchimento dell’uranio interrotto, nel pieno rispetto dell’intesa, dal 2015. Uno sviluppo considerato devastante in Israele e che avrà il “merito” di accrescere ulteriormente la tensione anche su questo versante.
Certamente le rappresaglie iraniane non si fermeranno qui. Attacchi di Teheran ad obiettivi americani nella regione hanno già avuto luogo, suscitando lo spavento dei Paesi del Golfo notoriamente ostili all’Iran, ed essi si aggiungono a quelli che le formazioni arabe pro-iraniane, particolarmente irachene ma anche altre in diverse aree geografiche (West Africa, Asia sud-orientale ecc.) hanno già iniziato ad effettuare per vendicare l’altra vittima del colpo di mano yankee: Abu Mahdi al-Muhandis, il vice-capo delle Forze di Mobilitazione Popolare ( Hashd al Shaabi in arabo) raggruppante le varie milizie sciite operanti in Iraq che da tempo reclamano il ritiro dal Paese delle unità militari USA (più di 5000 uomini e donne), colà presenti per sconfiggere l’ISIS ma in realtà finalizzate ad arginare l’influenza iraniana nel finitimo Paese arabo. Espellere gli USA dall’area medio-orientale ed in particolare dall’Iraq rimarrà comunque l’obiettivo strategico primario della Repubblica islamica, anche se il sentiero che si snoda in tale prospettiva appare lungo e cosparso di ostacoli che ora sembrerebbero insormontabili, anche perché il regime deve fare i conti con altre priorità dalle quali non può assolutamente prescindere. Quali?
A tal proposito la primaria esigenza rimane quella di garantire la tenuta e sostenibilità del regime, attualmente alle prese con gravi problemi di ordine interno evidenziatisi con i moti popolari recentemente scatenatisi a causa dell’aumento del prezzo del carburante. Le tensioni sociali che affliggono l’Iran sono il risultato di una crisi economica molto grave causata dalle terribili sanzioni imposte dall’amministrazione Trump all’indomani della denuncia dell’accordo nucleare del 2015. Abbiamo assistito ad una contrazione della base economica iraniana di quasi il 10% e ad una massiccia riduzione del valore della moneta, il rial, che hanno determinato un innalzamento dell’inflazione ed un abbassamento rilevante del potere d’acquisto delle masse. A quel punto il regime ha temuto di perdere la sua rappresentatività, la sua ragion d’essere venendo a trovarsi in contrasto con gli stessi dettami del messaggio coranico cui esso si ispira basati sulla solidarietà sociale e l’aiuto assicurato agli strati sociali più bisognosi di assistenza. Ergo la sopravvivenza del sistema resta la priorità assoluta ed imprescindibile, trascendente ogni altra considerazione. Il Leader Supremo Alì Khamenei impersona tale esigenza.
Cosa discende dall’assunto sopra delineato? L’esigenza che qualsiasi risposta ai colpi che il “Grande Satana” continuerà ad infliggere al Paese dovrà essere ben misurata, rivestire un apprezzabile impatto che non deluda l’esplosiva collera collettiva di un popolo umiliato di fronte agli abusi subiti e che mandi un messaggio impattante ai Paesi ostili nella regione, ma che al contempo non superi quella soglia oltre la quale l’irreparabile potrebbe prodursi. In poche parole evitare che l’Iran vada incontro all’infausto destino dell’Iraq di Saddam Hussein, che ha pagato a caro prezzo l’incauta decisione di ingaggiare apertamente la potenza militare americana alla quale hanno fatto seguito le tristi sconvolgenti conseguenze cui ora assistiamo. [1]
La prova di quanto sopra esposto è d’altronde rilevabile dalla misurata reazione della Repubblica islamica all’assassinio di Soleimani. In primis il fatto che, nell’annunciare l’intendimento di andare avanti nel processo di arricchimento dell’uranio, violando in tal modo il dettato dell’accordo del 2015, Teheran si è ben guardata dal denunciare quell’accordo del quale l’Iran continua dunque a far parte. Non solo ma vi è anche da ricordare, particolare non secondario, che la Repubblica islamica continuerà egualmente a far parte del Trattato di non-Proliferazione Nucleare (NPT) al quale sinistramente Israele non ha mai aderito ed al quale Teheran ha aderito fin dal 1970. Aspetti che devono essere tenuti presenti se si vuole avere un quadro esplicativo sufficientemente affidabile, non tralasciando il carattere volutamente limitato degli attacchi missilistici di rappresaglia lanciati contro basi USA in Iraq che hanno provocato danni materiali notevoli ma apparentemente non comportanti perdite umane. Come già sopra accennato la misurata risposta iraniana non ha mancato peraltro di far comprendere, in primis al nemico esistenziale saudita, il grado di vulnerabilità dei Paesi arabi dell’area di fronte all’apparato militare del potente vicino non-arabo.
Ciò non vuol dire ovviamente che dal crimine commesso contro una figura politica di assoluto rilievo come Soleimani, perpetrato su dati di intelligence rivelatisi inesistenti, non possa scaturire alcuna minaccia per la pace nella regione. La tensione è pericolosamente salita ed il rischio di una “miscalculation”, di un qualcosa di imprevisto sussiste sempre alla luce di una relazione tra gli USA e l’Iran segnata dal livore incontenibile di un Paese cui si pretende di negare il diritto ad un corso indipendente del proprio divenire in armonia con i valori fondanti di una comunità orgogliosa del proprio millenario passato storico e di una grande diffusa cultura.
I rischi dunque che la situazione sfugga di controllo e che l’intera regione precipiti nel baratro di una generale conflagrazione, perché di questo si tratterebbe, viste le ramificazioni degli interessi iraniani in tutto il Medio Oriente, dal Libano allo Yemen, dalla Siria a Bahrein, dal Pakistan alla stessa Arabia saudita, sussistono alla luce di una ferita inflitta che sarà impossibile rimarginare, checché ne pensi l’uomo forte della Casa Bianca. Gli auspici espressi dall’imprevedibile ed inaffidabile Presidente USA a che si creino le condizioni per una ripresa del dialogo tra Washington e Teheran in vista del conseguimento di un nuovo accordo, una sorta di “Trump deal” che prenda il posto dell’intesa voluta dal detestato Obama nel 2015, appaiono del tutto “off the table” (irrealizzabili), come sottolineato dall’apprezzato giornalista britannico David Hearst.
Quel che comunque si può affermare fin da ora è che una nuova fase del tormentato rapporto tra l’Iran e gli Stati Uniti si è aperta in conseguenza di quanto accaduto lo scorso 3 settembre. Un capitolo probabilmente caratterizzato da una serie ininterrotta di attacchi e di rappresaglie, una sorta di guerra asimmetrica e non convenzionale i cui effetti produrranno inevitabilmente nella regione un’atmosfera di incertezza e di timore, un senso di precarietà dei quali è difficile al momento pronosticare gli sbocchi in un’area dove riuscirà più problematico trovare la maniera di contenere le esplosive tensioni; dove i principali attori, regionali e non, cercheranno di orientare il vascello nel mare tempestoso in direzioni al momento imprevedibili.
Nulla è da escludere beninteso se non la costatazione che, ove tutto ciò dovesse sfociare in una guerra, tale sbocco non arrecherebbe beneficio a nessuno, men che mai a coloro su entrambi i versanti dell’Atlantico che portano la responsabilità primaria del disastro che da più di un secolo sconvolge il Medio Oriente. Questo lo si può affermare con assoluta certezza.
A tal proposito appare tuttora alquanto assurdo che da parte del lessico politico occidentale si continui ad utilizzare un linguaggio che riflette una visione del mondo basata su due pesi e due misure. Per quale motivo parlando del ruolo dell’Iran in una regione di sua appartenenza si ritiene appropriato ricorrere a termini come “tentacoli” e “forze mercenarie” (proxy forces) quando per converso, trattando degli Stati Uniti, in merito alla presenza nell’area di un Paese situato in un’altra parte del mondo, si ritenga opportuno parlare di ”Paesi alleati” e “sistemi di sicurezza”? Un “sistema di sicurezza” che, come appare evidente dalla mappa sotto riportata, vede la Repubblica islamica circondata dal suddetto “sistema” da est, sud ed ovest da Paesi dove gli Stati Uniti sono presenti con munitissime basi militari in un’impressionante spiegamento di forze terrestri, navali e aeree? [2]
Senza contare che spesso si tralascia il particolare che le milizie sciite pro-iraniane operanti in Iraq sono milizie irachene formatesi sotto la feroce repressione del dittatore sunnita Saddam Hussein, per diverso tempo alleato dell’Occidente, e successivamente tempratesi nel corso della sanguinosa lotta condotta contro le forze di occupazione USA all’indomani dell’aggressione del 2003. Questi non secondari dettagli vengono sistematicamente trascurati dalla grande stampa di informazione, anche se essi potrebbero aiutare ad avere una visione più equanime dei fatti.
Conclusioni
A parere di analisti gli effetti scaturiti dall’assassinio di una figura politicamente rilevante come Qassem Soleimani hanno mostrato come il crimine commesso abbia verosimilmente superato la soglia del non-ritorno circa la possibilità che in un futuro prevedibile si possano creare le condizioni per un riavviato dialogo tra gli Stati Uniti e la Repubblica islamica.
La partecipazione di folle oceaniche alle esequie di Soleimani sia in Iraq che in Iran ha fatto rivivere i momenti successivi alla morte del fondatore della Repubblica islamica Ruhollah Khomeyni morto nel giugno del 1989. Solo allora si era visto qualcosa di simile a quel che si è osservato pochi giorni fa in Iraq nelle piazze di Najaf e Karbala, due delle città sante dell’Islam sciita, nonché successivamente in Iran a Ahvaz, capoluogo della turbolenta provincia iraniana a maggioranza araba, a Maschad, l’unica città santa dello sciismo in Iran, per poi assistere alle analoghe imponenti manifestazioni di dolore e di collera collettivi a Qom, capitale religiosa del Paese, a Teheran ed infine a Kerman, luogo di nascita e di sepoltura di Qassem Soleimani.
L’effetto del proditorio atto di aggressione subito ha fatto dimenticare le laceranti divisioni provocate dalle manifestazioni popolari di protesta che prima in Iran e poi, in maniera ancor più impattante in Iraq, hanno scosso la pace sociale dei due Paesi[3]. Le folle strabocchevoli riversatesi nelle strade e nelle piazze dei due Paesi finitimi hanno ricreato quel senso di unità e solidarietà tra Teheran e Baghdad sfociato nella risoluzione approvata dal Parlamento iracheno con la quale si è richiesto al Governo di avviare le procedure per il ritiro delle forze USA nel Paese (più di 5000 uomini), colà tuttora presenti anche dopo che Donald Trump aveva dichiarato “la definitiva vittoria” conseguita contro l’ISIS. Seppur di portata simbolica, la suddetta non-vincolante risoluzione parlamentare riveste tuttavia una indiscussa rilevanza politica.
Ma anche all’interno della galassia sciita irachena, divisa tra la componente nazionalista e quella vicina all’Iran, l’assassinio di Soleimani ha sortito il medesimo effetto, portando ad una unità di intenti contro un comune nemico, l’occupante USA. Una figura come Moqtada al Sadr, ispirato alle visioni nazionaliste dell’ayatollah iracheno Ali al Sistani, ha ritenuto opportuno, in base a quanto appreso, ridar vita all’Esercito del Mahdi (Mahdi Army) che, all’indomani dell’aggressione americana del 2003, aveva fatto pagare un alto tributo di sangue alle forze di occupazione statunitensi.
La “red line” è stata superata ed i due Paesi hanno tratto da un evento segnato da dolore, rabbia e profonda umiliazione il lievito necessario per rinsaldare un legame messo a dura prova dalle difficoltà generate da un contesto internazionale iniquo e sfavorevole e da sistemi di governance giustamente contestati da masse di giovani reclamanti meno corruzione ed un modo di governare più equo ed inclusivo, come è tuttora dato di vedere nel momento di redigere queste note in presenza di manifestazioni con le quali si chiede ai governanti iraniani una maggiore trasparenza ed “accountability” nel rapporto tra le istituzioni ed una società civile, percorsa da tendenze e linee di pensiero molto frastagliate e composite. E’ utile notare come esse hanno modo in Iran di estrinsecarsi liberamente in maniera impensabile in altre realtà della regione. E di questo al sistema politico vigente in quel Paese occorre, riterrei, dare atto.
Ciò detto difficilmente si può passare sotto silenzio l’unità simbolicamente suggellata tra Iran e Iraq da un episodio che ha colpito più di un osservatore: ovverossia che il Leader Supremo iraniano Alì Khamenei si sia trovato a pregare attorniato dalla nomenclatura religiosa e civile del suo Paese di fronte alle bare, una accanto all’altra, di Soleimani e di Ali Mahdi Muhandis, il vice-capo delle milizie sciite irachene, coperte dalle bandiere dei due Paesi. In quel momento il ricordo di un conflitto tra l’Iran e l’Iraq durato ben otto anni (1980-1988), la più lunga guerra convenzionale dello scorso secolo, è stato simbolicamente cancellato in maniera visibile ed impattante.
In conclusione non si può non condividere l’opinione espressa pochi giorni orsono dal Senatore democratico USA Chris Murphy quando si è sentito in dovere di dichiarare che l’assassinio di Soleimani nel suolo iracheno ha reso “più deboli” gli Stati Uniti, generando come risultato un riavvicinamento sensibile della larga maggioranza degli iraniani ai loro leader ed un contestuale riavvicinamento tra i due Paesi fratelli dell’Iran e dell’Iraq, uniti da più di un millennio di storia, cultura e condiviso credo religioso. Se poi aggiungiamo a quanto affermato dal senatore statunitense la costatazione delle conseguenze negative in termini di stabilità e sicurezza che discenderanno nella regione per gli stessi interessi americani, da questo momento indubbiamente più esposti e vulnerabili nei confronti della galassia delle formazioni sciite operanti in Iraq, Siria, Libano, Yemen ed in altri Paesi anche al di fuori dello spazio medio-orientale, non possiamo non concludere da parte nostra come quanto accaduto lo scorso 3 gennaio ha costituito un’altra pagina fallimentare, l’ennesima, della politica di dominio perseguita negli ultimi decenni da Washington in quella martoriata area. E ciò porterà inevitabilmente ad una accelerazione del graduale ed irreversibile declino dell’influenza americana nelle terre d’Islam con le conseguenze che tale processo comporterà per l’attuale assetto del subsistema.
Se l’eliminazione fisica di Qassem Soleimani avrà come inevitabile conseguenza un indebolimento della posizione iraniana, particolarmente in Siria ed anche in Libano, essa contestualmente testimonia in maniera impattante le carenze in termini di strategia e di visione della potenza americana, in una crisi di credibilità e di immagine nella regione non più da dimostrare. Di questo le leadership dei Paesi dell’area sono ormai da qualche tempo ben consapevoli.
Angelo Travaglini, diplomatico in pensione, membro del Comitato Scientifico del CIVG
[1] Vi è da rilevare il ruolo svolto dall’Ambasciata svizzera a Teheran in qualità di rappresentante degli interessi USA in Iran, rivelatosi prezioso negli sforzi protesi per garantire il mantenimento dei canali di contatto informali tra americani ed iraniani indispensabile nei concitati momenti successivi all’attacco dei droni USA all’aeroporto di Baghdad.
[2] Ad est vi è l’Afghanistan dove operano più di 8000 militari USA, a sud l’Iran si trova di fronte alla munitissima base aerea di al-Udeid in Qatar e alla sede centrale della Quinta Flotta a Bahrein con un raggio d’azione dal Golfo Persico all’Oceano Indiano, ad ovest vi è l’Iraq di cui si è già parlato. Il giorno dopo l’attacco all’aeroporto di Baghdad il Ministro degli Esteri di Qatar Abdulrahman al Thani si è recato in visita a Teheran per manifestare la solidarietà del suo Paese all’Iran per il tragico evento del giorno prima.
[3] Manifestazioni studentesche hanno avuto luogo a Teheran una settimana dopo l’assassinio, in occasione dell’abbattimento di un aereo di linea ucraino nei cieli iraniani, giudicato “non intenzionale”, cui hanno fatto da contraltare manifestazioni contro l’Ambasciata britannica accusata di interferenze nelle succitate proteste di studenti.