Mal di lavoro: salute, sfruttamento e diritti dei lavoratori. Intervista all’ Avvocato Sergio Bonetto

Questa intervista fa parte di un ciclo dedicato alle tematiche lavorative. Il gruppo di approfondimento del CIVG intervisterà studiosi e lavoratori per tracciare un quadro dei mondi del lavoro.

 

 

 

In altra sede hai spiegato che il capitalismo produce non solo una grande massa di merci, ma anche di patologie. Oggi la scienza ci permette di sapere esattamente quali condizioni lavorative possono provocare malattie professionali, ma nonostante ciò le malattie professionali continuano ad essere trattate come un problema statistico e non criminale, come se il progresso economico portasse inevitabilmente con sé qualche morto. Per anni tu sei stato promotore di iniziative per criminalizzare questi fenomeni. Quale è lo stato dell’arte di questo dibattito a livello internazionale?

 

Direi che se oggi, si può riscontrare una tendenza, sia a livello nazionale che internazionale, è quella di una crescita della distanza tra conoscenze scientifiche disponibili e prassi delle imprese capitalistiche.

Se da un lato, sul piano scientifico, sono infinitamente cresciuti le conoscenze sulle conseguenze dannose per la salute di chi lavora nell’utilizzo di numerosi materiali e composti (soprattutto cancerogeni), dall’altro vi è un progressivo abbandono dei tentativi di generalizzare le tutele.

Basti pensare all’enorme volume produttivo di manifatture trasferite dai paesi a capitalismo avanzato in paesi in cui i controlli sulle attività lavorative sono, spesso volutamente, assenti o quasi.

Anche nelle aree a più antico sviluppo la riconversione industriale (che ha fatto quasi sparire le grandi fabbriche, sostituite da strutture più agili che utilizzano una rete di fornitori esterni super settoriali e di dimensioni d’impresa assai limitate), la capacità di controllo si è fortemente ridotta.

Mi riferisco al “controllo primario”: quello esercitato dai lavoratori addetti.

Nel ‘900 era normale che nelle grandi e medie imprese vi fossero lavoratori la cui attività sindacale principale consisteva nel vigliare sulle norme di sicurezza. Erano lavoratori che frequentavano corsi, s’informavano e progressivamente, diventavano esperti.

A fronte di una situazione considerata pericolosa avvisavano i lavoratori e chiedevano immediatamente che si apportassero le modifiche necessarie.

Non erano infrequenti le rivendicazioni sindacali e gli scioperi per il miglioramento delle condizioni ambientali.

Oggi le ridotte dimensioni d’impresa e la precarietà del rapporto di lavoro rendono tutto ciò impossibile. Restano gli scioperi di protesta quando qualcuno muore. Ma tutto continua come prima.

La sensibilità sociale si è spostata dal come si lavora al come fare per trovare un posto di lavoro. Se lo si trova il problema diventa come conservarlo il più a lungo possibile.

In assenza di queste spinte dal basso le strutture pubbliche esterne hanno ridotto la loro attenzione per il problema e sono state fagocitate nel percorso di riduzione della spesa pubblica, sono diventate un costo e non uno strumento di civiltà.

Un solo esempio: l’Ilva di Taranto. La cessione degli impianti al gruppo franco-indiano è stata preceduta da una fase di commissariamento governativo, ebbene in quella fase sono stati emessi vari decreti ministeriali che esentavano da ogni responsabilità penale i commissari per i danni derivanti l'inapplicazione di piani e normative di sicurezza.

Un salvacondotto per continuare a spargere diossina e altri cancerogeni.

Privilegiare l’interesse nazionale continuando a produrre per poter vendere ha caratterizzato la logica dello Stato, che ha messo  in secondo piano quel diritto collettivo alla salute, ridotto a marginale interesse di chi è personalmente coinvolto nel rischio di ammalarsi.

Questa rinnovata fortuna dell’“interesse nazionale”, principio applicato alle produzioni industriali negli anni ‘30 del secolo scorso, è uno dei sintomi della deriva autoritaria dei sistemi politici. L’impresa diventa “istituzione” fondamentale per lo “sviluppo economico del paese”.

I lavoratori sono solo una componente di tale istituzione e l’ampiezza dei loro diritti, anche di quello alla tutela della salute, è direttamente legata alla compatibilità con lo “sviluppo economico”.

Quante volte ci sentiremo ancora dire: quelle sono le condizioni di lavoro, l'alternativa è la chiusura.

Questo ritornello è sempre più frequente ed è utilizzato sia per giustificare condizioni o intensità di lavoro (vedi Ilva o Amazon e altri giganti della logistica) sia, in generale per tenere a livello più basso possibile i salari (vedi dipendenti Foodora) e persino i redditi (vedi pastori sardi).

Da questo punto di vista si può dire che il rapporto tra scoperte scientifiche e miglioramento delle condizioni di lavoro si sta progressivamente spezzando, malgrado l’esistenza di piccole isole, forse residuali, di miglioramento costante nei piccoli paesi del nord Europa.

Temo però, che non siano i 5 milioni e 300 mila norvegesi o i 10 milioni di svedesi a “fare tendenza”.

 

A fianco dei casi più eclatanti di violenza ne esistono anche di più subdole, quelle legate alle varie forme di pressione psicologica e intimidazione, che possono spingere a volte fino a esiti estremi, come dimostra il caso dei suicidi alla Telecom France. Quali strumenti esistono per lottare contro queste forme di “omicidio tramite il lavoro”?

 

Il fenomeno dei “suicidi da lavoro” si inserisce nel quadro della risposta precedente. La precarizzazione del lavoro non si esprime, in questa fase storica, solo nell’abnorme crescita del lavoro saltuario o a tempo determinato ma pure nella crescita della gerarchizzazione del lavoro e delle capacità dell’impresa nell’analisi della produttività individuale dei singoli lavoratori.

L’impresa istituzione, per rispondere alle esigenze di “sviluppo”, ha bisogno di lavoratori performanti e disponibili a rispondere a tutte le esigenze di flessibilità.

Ora, poiché i lavoratori, nel loro insieme, sono degli esseri umani medi, in diverse condizioni psicofisiche, un’analisi accurata dei loro comportamenti individuali e delle loro caratteristiche (età, situazione di famiglia, condizioni di salute ecc.) consente di costruire vere proprie graduatorie di “utilità” per l’impresa.

Chi, per qualsiasi motivo, si scosta verso il basso da una media ritenuta accettabile diventa un peso per l’impresa che tende a spingerlo ad abbandonare il lavoro. Di qui il cosìddetto “mobbing”, piccole persecuzioni continue che sradicano il lavoratore dal suo contesto e gli fanno intendere di non essere più considerato utile: demansionamenti, spostamenti frequenti, reparti isolati, lavori in ambienti non confortevoli ecc. A ciò si accompagna in genere una frequente convocazione da parte dei superiori che manifestano insoddisfazione per il lavoro svolto.

Spesso il lavoratore si sente isolato dagli altri e cede a percorsi depressivi. Tra questi non stupisce che qualcuno possa sentirsi totalmente inutile e pensare al suicidio. Ricordiamo ancora che i lavoratori sono parte della normale popolazione e ciascuno ha le proprie reazioni alle difficoltà.

Ci si dovrebbe però chiedere perché questo fenomeno cresca essendo il comportamento delle imprese non particolarmente “originale” sul piano storico.

Il fatto è che il senso di solitudine del lavoratore è conseguenza diretta dell'assenza di una sana organizzazione sindacale all’interno delle imprese.  Ciò che un tempo era scontato, la solidarietà e la autotutela collettiva, è spesso assente.

Il sindacato è sempre più spesso solo esterno o proiettato al mantenimento di buoni rapporti con la direzione. Lo scontro con l’impresa anche per tutelare il singolo è scomparso dalla prassi sindacale. Da questo punto di vista anche gli esempi virtuosi di cui ogni tanto si legge, tipo le collette di giorni di ferie tra i lavoratori per consentire al singolo lavoratore in difficoltà di assentarsi dal lavoro, se sono moralmente rassicuranti, manifestano però un’accettazione del principio per cui persino chi sta vivendo gravissime difficoltà personali per motivi di salute propri o dei familiari, sarebbe allontanabile dal lavoro in quanto l’impresa non sarebbe tenuta a conservargli il posto.

 

 

Tra le cause delle quali ti sei occupato negli ultimi anni spicca il caso Foodora, che ti ha visto legale di sei ex “rider” licenziati. Il caso ha avuto un ampio eco mediatico, che ha portato all’attenzione del pubblico il tema della cosiddetta sharing economy.

A riguardo è a nostro parere sorto un grande fraintendimento. Innanzitutto terminologico, perché quel che viene definita sharing economy, dovrebbe esser chiamata col suo vero nome: gig economy, o “economia dei lavoretti”.

In fondo di questo stiamo parlando: lavoretti fatti per arrotondare. Hanno travestito il ragazzo della pizza, trasformandolo in “rider”, ma non è cambiato nulla nel servizio.

Il problema è che la crisi occupazionale giovanile diffusa in Italia ha portato alcuni giovani a sperare che – in mancanza d’altro – questi lavoretti potessero diventare un lavoro vero e proprio.

La grande responsabilità di chi ha lanciato queste piattaforme è stata quindi quella di spacciarle per aggregatrici di spare time jobs, per opportunità inedite di arricchimento offerte dalla digital economy. E di costruire una narrazione che ha condotto i ragazzi a non considerarli per quello che sono: lavori da tempo libero. E quindi a puntarci più di quanto fosse sensato fare.

A tuo parere la gig economy è un fenomeno nuovo, o in fondo non si è soltanto dato un altro nome al ginepraio di servizi di bassa o media qualifica[1], semplicemente moltiplicando le possibilità di “navigare” sul crinale della legalità più di quanto si facesse in precedenza?

 

Propongo una interpretazione diversa. Comincerei, per questi lavoratori, ad abbandonare la lingua inglese e tornare all’italiano.

Se chiamiamo le cose con il loro nome i “riders” diventano fattorini. Meno esotico ma più chiaro.

I fattorini, come si sa, esistono da circa duecento anni; già un regio decreto del 1923 li inseriva tra i lavoratori per i quali potevano essere stipulati contratti di lavoro discontinui, quelli che oggi si chiamano contratti intermittenti o a chiamata, che rientrano a pieno titolo tra le tipologie del lavoro subordinato. I contratti collettivi dei settori che più utilizzano queste forme di lavoro (commercio, turismo, logistica) hanno parti specifiche che regolano questo tipo di rapporti.

La domanda diventa perciò: perché mai i “nuovi” “riders” dovrebbero stare fuori da queste regole ed essere pagati una miseria e restare con tutele previdenziali super ridotte e senza le tutele legali in materia di prevenzione dei rischi?

Il fenomeno economico è in Italia piuttosto recente e, infatti, sono scarsissime  le sentenze recenti che si sono occupate del problema.

Se si ricostruiscono le modalità di lavoro ci si accorge che, grazie alla

geolocalizzazione, le imprese esercitano un controllo sulle prestazioni lavorative assolutamente totale, minuto per minuto, i lavoratori sono pagati ad ore o a cottimo integrale, hanno turni prefissati, fanno straordinari (ma non ferie).

Come mai allora sono inquadrati, a seconda delle imprese, come lavoratori autonomi o coordinati?

La risposta è una sola: per risparmiare. Questi lavoratori vengono pagati con compensi che equivalgono alla metà dei “vecchi” voucher. La differenza tra oggi ed il passato è che i committenti sono grandi imprese multinazionali che si propongono sul mercato come innovatori di prodotto: consegne a domicilio in tempi strettissimi di prodotti tendenzialmente di qualità ordinati a mezzo smartphone.

I lavoratori addetti, per essere inseriti nei turni di lavoro devono firmare un contratto a tempo determinato con il quale si impegnano a rendersi disponibili su base settimanale e, quando lo fanno, scoprono che l’attività concreta è infinitamente più pesante di quanto prospettato dalla pubblicità on line. E’ vero che hanno la possibilità di … scegliere di non lavorare, ma se lo fanno per periodi troppo lunghi (tre – quattro settimane) il contratto si risolve automaticamente.

Quindi, secondo me, niente di nuovo sotto il sole, infatti, dopo un paio d’anni dall’inizio del fenomeno, già questi lavoratori si stanno auto organizzando e stanno sviluppando varie iniziative di lotta. Dietro le rutilanti immagini di novità si è appalesata una paga di 5 euro lordi l’ora per pedalare al massimo della velocità possibile, sotto il controllo permanente di sistemi informatici, preferibilmente nei fine-settimana e nei giorni di maltempo, quando i clienti preferiscono non uscire di casa per andare al ristorante.

Spero che questi fattorini ottengano i risultati che si prefiggono. Anche se credo che questo tipo di imprese siano piuttosto refrattarie ad accettare i contratti collettivi e preferiscano, di fronte all’ipotesi di un consistente aumento del costo del lavoro, prendere il volo per paesi meno “conflittuali”. Così ha fatto Foodora. 

Ciò che mi colpisce è la cecità di forze politiche e sindacali che non si sono accorti che il “modello Uber” stava dilagando e dando, in qualche modo, credito a questa  “nuova” economia dei lavoretti per la quale non dovevano valere le regole del rapporto di lavoro, hanno consentito al fenomeno di espandersi rapidamente.

 

 

Negli ultimi anni il mondo del lavoro è cambiato profondamente. Stanno scomparendo le grandi unità produttive, che erano il terreno di coltura del movimento operaio nel XX secolo, a favore di realtà più piccole e frammentate, in cui il sindacato ha da sempre difficoltà a radicarsi. Anche la situazione dei singoli lavoratori è sempre più atomizzata, a causa della enorme varietà di contratti utilizzati dalle aziende e dell’individualizzazione dei processi lavorativi. Tutto ciò rende più difficile lottare per i diritti del lavoro anche da un punto di vista giuridico? Esistono a tuo avviso dei metodi per adattarsi a questa situazione per certi versi inedita?

 

A questa domanda credo di avere in larga parte risposto. Una notazione a proposito del sistema giuridico.

Io sono convinto che tutti i diritti, ma in particolare i diritti dei lavoratori, non siano mai conquistati per sempre. Semplificando brutalmente si potrebbe dire che i diritti vanno e vengono. Le norme di legge sono l’espressione formale dei rapporti sociali nelle varie fasi storiche.

In pieno fascismo, prima della seconda guerra mondiale i sindacati erano stati messi fuori legge e lo sciopero era stato dichiarato un reato ma un cittadino straniero (salvo gli ebrei, dopo il 1938) poteva acquisire la cittadinanza italiana dopo sei mesi di permanenza nel paese. Oggi...

Ricordo questo per dire che nelle varie epoche le forma giuridiche fotografano la situazione sociale con gli occhi di chi esercita il potere.

Oggi nei paesi cosiddetti occidentali si ha una fase di indiscutibile prevalenza del capitale finanziario sovranazionale che ha portato allo spostamento della maggior parte delle imprese manifatturiere fuori dalla area europea tradizionale.

In Europa le grandi fabbriche sono quasi scomparse. Con loro hanno perso di peso le idee di una società in cui fosse in qualche modo possibile mantenere, attraverso le leggi, un equilibrio tra capitalisti e lavoratori.

Oggi i capitalisti “che contano” sono entità impalpabili e semi invisibili e i lavoratori sono marchiati a fuoco dal precariato e dalla flessibilità. E’ ovvio, anche se terribile, che con questi rapporti di forza, vi sia una tendenza a demolire la legislazione in tutela del lavoro, così come del resto accade in materia di sanità pubblica e di previdenza e assistenza.

Lo stesso ordinamento parlamentare, definito “democratico” anche nell’800 quando si votava per censo, sta subendo cambiamenti epocali.

Non dimentichiamo che, sino alla seconda guerra mondiale, erano catalogati come democratici paesi colonialisti nei quali le donne non avevano diritto di voto e che applicavano massicciamente la pena di morte. Eppure erano l’emblema della democrazia, anche quando praticavano legalmente la discriminazione razziale (USA, India coloniale).

 Oggi sono considerati democratici paesi in cui è costante la crescita dei poveri sempre più poveri e della concentrazione di ricchezze sempre più grandi in sempre meno mani.

Nessuno, credo, è in grado di dire quale sarà il nuovo punto di equilibrio. Quello che è certo è che: solo partendo dall’organizzazione solidale e cosciente di chi lavora (o vorrebbe lavorare) si può tentare di porre freno allo smantellamento delle leggi di tutela sociale, innanzi tutto cercando di continuare a usarle, per rendere chiaro che chi tenta di demolirle lo fa esclusivamente per fare crescere le proprie ricchezze in danno dei molti.

Il piccolo caso di Foodora, secondo me, insegna molte cose.

 

Sergio Bonetto è un avvocato lavorista, tra i fondatori dello Studio legale Bonetto – Napoli, che collabora con varie organizzazioni sindacali dei lavoratori, con Associazioni per la tutela ambientale e di vittime di disastri industriali. Ha rappresentato la parte civile nei processi Eternit, Ilva, Thyssen e Foodora. Fa parte del Comitato Scientifico del CIVG.

 

A cura di Andrea Bulgarelli e Alessandro Monchietto per il CIVG

 


[1] Quei mestieri su cui nessuno poteva pensare di costruirsi una vita, vent’anni fa come oggi,