Inquietanti sviluppi nell’area del golfo
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- Scritto da Angelo Travaglini
settembre 2018
Premessa
L’area bagnata dal Golfo Persico, dove la concentrazione di interessi contrapposti da parte di potenze regionali e globali è tra le più alte al mondo, una mina vagante per la pace dell’intero pianeta, subisce da qualche tempo gli effetti delle politiche autoritarie e brutalmente espansive adottate principalmente da due Paesi arabi, molto diversi in quanto a dimensione territoriale ma affini sotto il profilo delle politiche interne, biecamente repressive, con obiettivi, come vedremo più avanti, per converso differenziati nella loro proiezione esterna.
Intendiamo riferirci all’Arabia saudita, dove imperversa il giovane figlio del sovrano, Mohammed bin Salman, e agli Emirati arabi uniti (UAE) dove domina la personalità dell’altrettanto intollerante autocrate, Mohammed bin Zayen al Nayan, anch’egli principe ereditario, di fatto alla guida del Paese, viste le precarie condizioni di salute del Presidente Khalifa bin Zayed al-Nahyan, suo fratellastro, a riposo forzato (e dorato) in una lussuosa villa nella ridente Costa Azzurra francese, essendo stato vittima di un ictus quattro anni fa.
Il Gulf Cooperation Council, del quale ora formalmente i due suddetti governi continuano a far parte, versa come noto in uno stato di progressiva evanescenza a causa principalmente dell’embargo terrestre, aereo e marittimo deciso un anno fa da Riyadh e Abu Dhabi, seguiti da Bahrein e dall’Egitto dell’uomo forte al-Sisi, imposto al minuscolo ma ricchissimo Emirato di Qatar con il quale ogni rapporto è stato brutalmente soppresso; con ciò ponendo di fatto fine ad un assetto regionale, ancora di stabilità in una nevralgica regione dove il contrasto di interessi tra il Regno saudita e l’Iran ha ormai assunto rebus sic stantibus i tratti della irreversibilità, fatte salve involuzioni destabilizzanti all’interno dell’entità wahabita nel prossimo futuro.
La ragione addotta per una decisione che ha colto di sorpresa e sconcertato le cancellerie occidentali per le complicazioni che essa inevitabilmente comporta per gli interessi dell’Occidente nell’area, ha riguardato il presunto ruolo a favore del terrorismo internazionale attribuito a Qatar, alleato strategico dei Fratelli mussulmani, ed i rapporti di proficua collaborazione intrattenuti da Doha con l’Iran, nemico mortale del Regno saudita e, seppure in misura più attenuata, degli Emirati arabi uniti; dove vi è da ricordare che opera profittevolmente una cospicua comunità iraniana e società appartenenti alla Repubblica islamica non hanno ostacoli nel dispiegarvi la propria attività commerciale. Ragion per cui è plausibile sostenere che, se Teheran è mal visto ad Abu Dhabi, non è certamente visto come un nemico mortale, come per converso viene considerato sia a Riyadh che a Tel Aviv, profondamente allineati in proposito.
Sviluppi inattesi
Ciò premesso quel che interessa sottolineare è come il progressivo svuotamento del ruolo e delle funzioni del GCC non è solo dovuto alla decisione di rompere con Qatar, scelta rivelatasi a tutt’oggi avara di risultati, ma anche da altri sviluppi di indubbio rilievo prodottisi all’indomani della rottura con Qatar.
Uno sviluppo di rilevante incidenza è stata la concretizzazione della volontà di Riyadh e Doha di dar vita ad una alleanza fondata sulla determinazione delle due autocrazie di accelerare e potenziare il processo di modernizzazione delle rispettive economie passando attraverso la diminuzione della dipendenza strutturale dal settore energetico (petrolio e gas naturale) e l’espansione di sinergie economiche mirate ad accrescere un loro rilevante ruolo in un mercato mondiale in costante evoluzione.
In realtà ove si pensi ai valori riferiti alle due economie tale disegno appare tutt’altro che illusorio. L’Arabia saudita e gli UAE hanno congiuntamente un prodotto interno lordo di $1000 miliardi mentre il volume complessivo del loro export ($750 miliardi) li colloca al quarto posto nel ranking mondiale dei Paesi esportatori. A tal proposito secondo dati forniti dalla rivista americana “US News and World Report” il Regno saudita e gli Emirati figurano rispettivamente al nono e decimo posto nella graduatoria mondiale dei Paesi più potenti al mondo, ben davanti all’Italia ed al Canada, entrambi membri come noto del G7.
Ci troviamo in effetti in presenza di due realtà formidabili le cui performances stanno cambiando la faccia del mondo. In tale contesto la recente visita ad Abu Dhabi del Presidente cinese Xi Jinping ha sancito il significativo coinvolgimento degli UAE nella strategia “One Belt One Road”, che prevede da parte della Cina investimenti massicci, principalmente nei settori delle infrastrutture e delle telecomunicazioni, in Asia, Medio Oriente ed Europa.
La base economica dunque sulla quale portare avanti quella che Riyadh e Abu Dhabi hanno definito pomposamente la “Strategy to Resolve” non potrebbe essere più propiziante per la concretizzazione di progetti di crescita vertenti su una importante panoplia di settori: militare, economico, commerciale, culturale in un quadro di apparente osmosi politica. Tali progetti si contraddistinguono per l’enfasi attribuita all’innovazione tecnologica, cui il capitale internazionale dovrebbe apportare preziosi apporti, promuovendo lo sviluppo anche in termini qualitativi dell’industria concepita nella sua accezione più larga: dal settore agro-alimentare al comparto della medicina avanzata, dalla petrochimica alla produzione congiunta di armamenti, citando solo alcuni dei campi suscettibili di essere interessati dalla ambiziosa strategia.
Altra variabile di rilievo in linea ed armonia con i suddetti impegnativi intendimenti concerne l’apparente allineamento sul piano della proiezione politica anche al di là dell’area del Golfo. In effetti Riyadh e Doha hanno condiviso in toto le decisioni, rivelatesi fino ad ora tragicamente controproducenti, di scatenare una guerra devastante alla frontiera meridionale del Regno saudita contro lo Yemen, prendendo pretesto in maniera impropria, goffa e criminale da una guerra civile generata, come vedremo, da decenni di regime autocratico in quel poverissimo Paese, ovviamente supportato dall’Arabia saudita.
Sulla stessa linea appaiono le due autocrazie in merito alla relazione con l’Iran, con il quale, in non sorprendente armonia con gli intendimenti di Israele, platealmente promossi dalla Presidenza Trump, ogni possibilità di dialogo e di intesa appare ermeticamente preclusa. Leggermente difforme risulta per converso l’atteggiamento di Riyadh e Abu Dhabi verso la Turchia. In effetti mentre la relazione del Regno con Ankara salva per lo meno le apparenze mantenendo forme di dialogo in un clima di sostanziale reciproca sfiducia, gli Emirati per contro condannano apertamente le “ingerenze della Turchia nello spazio arabo”, giudicando “illegale” la occupazione turca di aree appartenenti territorialmente alla Siria. La militanza di Erdogan a favore dei Fratelli mussulmani è un altro elemento che alimenta l’avversione di Abu Dhabi verso Ankara al pari come abbiamo visto di Qatar.
Appare evidente come tale impattante strategia suoni una sorta di “campana a morto” del Gulf Cooperation Council, viste le divergenti posizioni di Kuwait e del Sultanato di Oman che non condividono né la rottura con Qatar né l’intransigente ostilità verso l’Iran, ritenendole a giusto titolo dannose e rischiose per gli equilibri di pace e stabilità nella regione, divenuti ora piuttosto precari.
Alleanza su fragili basi
Tutto rose e fiori dunque, in termini di strategici allineamenti, per l’avvenire di due entità che portano la pesante responsabilità di avere posto fine ad un assetto, il GCC, che ha costituito fin dal 1881, anno della sua creazione, uno strumento prezioso per la salvaguardia degli interessi occidentali in uno scacchiere strategicamente di assoluta rilevanza? Valorizzando in tal modo le importanti affinità esistenti tra i due Paesi quali un sistema politico inflessibilmente autoritario ed illiberale ed un credo religioso poggiante sulla intollerante versione wahabita emanante dal cuore della penisola arabica?
In effetti non è tutto oro quel che luccica, come suol dirsi. E’ vero, il fatto che Riyadh e Abu Dhabi condividano un’implacabile, seppur differenziata, avversione nei confronti sia della Repubblica islamica d’Iran che dell’Islam politico ed i suoi araldi, i Fratelli mussulmani, costituisce un fattore aggregante di indiscutibile portata. Pochi dubbi in proposito. Ma ciò non toglie che una covante rivalità esista tra i due Paesi, bramosi l’uno (Riyadh) di mantenere posizioni di dominio nel suo “near abroad”, l’altro (Abu Dhabi) di espandere la propria area di influenza e di potere anche oltre i confini dell’area del Golfo, come vedremo più avanti.
Ciò è confermato del resto dal fatto che nell’alleanza creatasi nella seconda metà dello scorso anno nessuna menzione è riservata ad un processo di strutturale integrazione tra i due soggetti il cui interesse resta confinato alla massimizzazione del proprio potenziale economico ed al rafforzamento del proprio potere di deterrenza negli spazi di loro interesse.
Il desiderio saudita di pervenire in itinere ad una moneta unica non beneficia nemmeno di un accenno. Il potente padrone dei sette Emirati Mohammed bin Zayed al Nayan conferma la propria avversione ad un disegno ritenuto, a ragione, di ostacolo alla propria libertà di azione. A tal proposito nessuno ha dimenticato quel che avvenne nel 2009 quando gli UAE si ritirarono repentinamente dal progetto di una valuta unica, seguiti successivamente dagli altri partner. Il silenzio osservato anche in questa occasione in materia suona conferma di un intendimento irrinunciabile da parte di Abu Dhabi.
Ma non è soltanto in questo campo che i germi di una estraneità dura a morire possono essere percepiti. Anche più di recente i segni di una certa contrapposizione sono apparsi in maniera tutt’altro che occulta. E’ nell’orrido scenario della guerra in Yemen che da tre anni insanguina la più povera realtà del mondo arabo che l’enucleazione di divergenti obiettivi si è manifestata con una certa chiarezza.
L’andamento delle stesse operazioni militari ne è la prova. Gli Emirati hanno in effetti colto l’occasione dell’aggressione saudita per concretizzare la propria ambizione di rafforzare la propria presenza lungo la rotta che dal porto di Aden, da cui prende nome l’omonimo Golfo, conduce all’ingresso del Mar Rosso attraverso lo strategico Stretto di Bab al Mandeb (la Porta della Sofferenza) dove lo Yemen si avvicina fino a 25 chilometri all’estremità orientale dell’Africa ed attraverso il quale, secondo dati forniti dall’ “Energy Information Administration” americana riferiti al 2016, sono transitati 4.8 milioni di barili di petrolio al giorno verso e dall’Europa. Lo scopo in effetti è quello di stabilire collegamenti con una importante base aeronavale di cui Abu Dhabi dispone dal 2015 nel porto di Assab in Eritrea, contiguo alla frontiera con Gibuti, da dove a titolo di cronaca decollano le missioni di bombardamento in Yemen, e con analoghe strutture militari esistenti a Berbera nel semiautonomo territorio del Somaliland, causa di tensioni col governo di Mogadiscio, molto vicino alla Turchia, e oltre il canale di Suez nell’est della Libia non lontano dalla frontiera egiziana. A tal proposito attiro l’attenzione sul particolare degno di considerazione che gli UAE sono al giorno d’oggi l’unico Paese arabo che vanti l’uso di basi militari fuori dello spazio nazionale. Il che gli conferisce un peso diplomatico di tutto rispetto se si pensa che l’inatteso riavvicinamento, dopo una rottura durata vent’anni, prodottosi recentemente tra l’Etiopia e l’Eritrea, inserito in un quadro generale di distensione in atto tra i quattro Paesi del Corno d’Africa (oltre ai due già menzionati, anche Gibuti e la Somalia), deve molto alla mediazione degli Emirati, interessati ad una normalizzazione dalla quale si attendono, alla luce della loro coinvolgente presenza in quell’area, sostanziosi vantaggi.
L’intento di Abu Dhabi si rivela essere dunque diverso da quello perseguito da Riyadh volto principalmente a contrastare e neutralizzare il pericolo costituito dalla tribù degli Houthi, sostenuti, secondo la mantra prevalente, dall’Iran, visti dai sauditi come quinta colonna degli interessi di Teheran alla frontiera sud del Regno; non tenendo conto delle profonde ragioni alla base di una lotta pluridecennale condotta da quella tribù contro una iniqua emarginazione imposta loro prima dalla dittatura del defunto Ali Abdullah Saleh, amico dei sauditi, durata più di trent’anni, e successivamente dal suo vice, Mansur Hadi, anch’egli apertamente sponsorizzato da Riyadh.
L’irruento principe ereditario Mohammed bin Zayed al Nayan non ha cercato di salvare le apparenze di una alleanza con il Regno wahabita che, seppur “strategica”, lascia nondimeno spazio a divergenze non secondarie. Gli Emirati, diversamente dai sauditi impegnati esclusivamente in operazioni aeree, hanno inviato nello Yemen una vera e propria forza di occupazione con truppe terrestri che continuano a pagare un tributo di sangue, in maggioranza versato da unità di mercenari al soldo di Abu Dhabi. Ciò ha consentito a MbZ, come egli è comunemente denominato negli ambienti internazionali, di prendere possesso manu militari dello strategico porto di Aden e delle aree circostanti; assecondando scaltramente le locali spinte secessioniste mai spentesi da quando nel 1990 lo Yemen è divenuto un’entità unificata e addirittura, stando a quanto riferito dall’ “International Crisis Group”. allacciando con l’assenso di Riyadh rapporti con la locale branca di al-Qaeda (AQAP), la più temibile delle formazioni regionali appartenenti all’organizzazione fondata da Osama bin Laden, rafforzando in tal modo la presenza ed il ruolo dello schieramento jihadista nel sud del Paese. Sbocco paradossale quando si pensi che l’UAE e l’Arabia saudita sono appoggiati in quell’insana guerra dall’Occidente “in nome della lotta al terrorismo internazionale”. Resta il fatto che l’operato di Abu Dhabi nella zona lo porta ad essere in rotta di collisione con Mansur Hadi, capo del governo internazionalmente riconosciuto, sostenuto come già detto da Riyadh.
L’aspetto da rilevare è la posizione di relativa vulnerabilità nella quale è venuta a trovarsi l’Arabia saudita, costretta a mediare ed a porre rimedio agli atti vessatori dell’alleato, le cui scelte hanno prodotto il risultato di trasferire le tensioni esistenti nella penisola araba anche in Africa orientale. Significativo è apparso non molto tempo fa il proditorio invio nell’isola di Socotra, (“Gioiello di Arabia”), appartenente allo Yemen, dalla cui costa dista 380 chilometri, di contingenti militari degli Emirati con l’intento piuttosto evidente di fare della presenza nell’isola un ulteriore punto di controllo delle nevralgiche rotte marine interessanti quest’area dell’oceano Indiano in prossimità dell’ingresso nel mar Rosso.
La mossa improvvisa e senza alcuna giustificazione se non sotto il profilo del calcolo di potenza non ha questa volta sortito gli effetti desiderati di fronte sia alla rivolta scatenatasi nell’isola contro gli “invasori” sia all’intervento saudita volto ad evitare dannose complicazioni per la strategia di Riyadh, già in grosse difficoltà nello scontro sanguinoso con i guerriglieri Houthi negli altopiani dello Yemen.
Ciò dà un’idea del livello di rapporti creatosi in uno scacchiere di grande importanza per i traffici economici tra l’Asia e l’Europa. Ciò dà egualmente un’idea degli effetti prodotti da una diplomazia americana che, oltre a perdere credibilità per l’incongruenza delle iniziative assunte, ha irresponsabilmente soffiato sul fuoco di tensioni covanti in tutta la vasta area interessante il Golfo, non essendo poi in grado di gestirle e controllarle. Alimentare un simile vespaio, dove “uomini forti” per i quali l’unica logica che conta è quella del potere e della prevaricazione nella loro estrinsecazione più brutale, portando avanti esclusivamente una strategia di contrapposizione mirante alla sconfitta di quelle forze cui si attribuiscono minacce non corroborate da una visione appropriata del contesto reale, costituisce un pericolo per la pace e la stabilità del mondo. La “diplomazia della cannoniera” nel mondo di oggi, subappaltata in questo caso a due squallide autocrazie, non porta da nessuna parte se non all’allargamento di aree di conflitto che non si è poi più in grado di arginare col rischio di perdere credibilità e capacità di gestione delle crisi.
Il risultato è che in gran parte di quell’area del mondo che passa sotto il nome di MENA (Middle East and North Africa) è in essere uno scontro al livello delle potenze regionali di cui non si scorge la fine e che potrebbe precludere a sbocchi poco rassicuranti in assenza di inversioni di tendenza, di cui a tutt’oggi non si avvertono purtroppo segnali.
Retroterra politico
L’intervento militare in Yemen iniziato nel 2015 ha visto in effetti due protagonisti nei due pretendenti al trono in Arabia saudita e negli Emirati arabi uniti. Lo scopo ufficiale della rischiosa missione, come già detto, è stato di arginare una presunta espansione iraniana nella penisola arabica alla frontiera sud del Regno wahabita rappresentata da una rivolta di una tribù araba, gli Houthi, professanti una fede vicina allo sciismo iraniano ma storicamente gelosi delle loro peculiarità etniche e religiose; in questo differenziandosi dagli Hezbollah libanesi per i quali l’osmosi con i valori politici e religiosi iraniani è decisamente più marcata.
Si è spiegato come la ribellione degli Houthi fondasse le sue radici in decenni di povertà ed esclusione inflitti da un dittatore che, seppur professante il loro stesso credo, era al servizio degli interessi sauditi.
La finalità dell’intervento era dunque di lanciare un segnale a Teheran che qualsiasi tentativo di penetrazione nella regione sarebbe stato respinto, in primis dall’Arabia saudita e dai suoi più vicini alleati.
L’aspetto significativo relativo a tale evento è che esso abbia avuto inizio appena pochi mesi prima della conclusione del Trattato nucleare con l’Iran, voluto da Obama e firmato dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (USA, Gran Bretagna, Francia, Cina e Russia), unitamente alla Germania ed all’Unione europea.
L’aggressione allo Yemen, tuttora in corso, inizia in effetti nel marzo del 2015 cui fa seguito nel luglio dello stesso anno la firma del cosiddetto JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) o Accordo nucleare con l’Iran. La contiguità temporale dei due eventi a nostro parere non è del tutto casuale.
L’Arabia saudita non ha mai apprezzato gli sforzi protesi dall’ex-Presidente Obama di risolvere una situazione di crisi che non solo penalizzava la Repubblica islamica, da più di trent’anni sottoposta ad una iniqua marginalizzazione, ma costituiva al contempo una pericolosa fonte di instabilità in una regione già esposta a covanti tensioni.
Sappiamo come il Primo Ministro di Israele Netanyahu abbia fatto ricorso ad ogni mezzo pur di bloccare la conclusione di un accordo visto con populistica enfasi come una minaccia esistenziale per l’entità sionista, glissando sull’enorme differenziale in termini di deterrenza esistente tra Tel Aviv e Teheran, arrivando perfino a pronunciare un discorso di biasimo contro Obama al Congresso degli Stati Uniti.
Ebbene non è un mistero che Riyadh, in misura più marcata rispetto agli altri cinque partner del GCC, condividesse pienamente l’opposizione israeliana all’accordo, visto dalla casa Saud come un reinserimento di Teheran nel “power game” in corso nel Levante; timori ingigantiti, oltre che dalla rivolta degli Houthi in Yemen, anche dalla presenza di un governo sciita a Baghdad dopo il rovesciamento nel 2003 di Saddam Hussein da parte degli USA, dall’intervento militare iraniano in Siria a supporto del regime di Baschar al Assad e dall’ingresso in forza degli Hezbollah filo-iraniani libanesi nella compagine governativa a Beirut dove la formazione diretta da Nasrallah esercita da tempo un potere condizionante.
L’intervento militare in Yemen costituisce dunque la risposta saudita all’Accordo voluto da Obama con l’Iran. Una guerra mal concepita e preparata che a distanza di quasi tre anni e mezzo non ha dato alcun risultato probante per la monarchia saudita, intrappolata in un conflitto che, nonostante l’enorme disparità in termini di potenza di fuoco tra i due schieramenti, Riyadh non riesce a risolvere, alle prese con guerriglieri rodati allo scontro nelle impervie desolate montagne del Nord Yemen. Tutto questo si è prodotto ad un costo umanitario enorme con un bilancio ufficiale di più di dieci mila morti, orrende stragi di bambini, più di otto milioni di yemeniti dispersi nel proprio Paese, falcidianti epidemie di colera e tre quarti della popolazione in disperanti condizioni di povertà. La più grave catastrofe umanitaria che sia dato di vedere al giorno d’oggi, come rilevato dalle Nazioni Unite, che, senza additare le evidenti collusioni e biasimevoli complicità occidentali, particolarmente americane, britanniche e francesi, riconfermate platealmente in queste ultime ore, si sforzano pur tuttavia di attirare l’attenzione del mondo su quanto di apocalittico avviene in quella terra. Purtroppo gli sforzi dei vari rappresentanti dell’ONU per una via d’uscita politica da tale tragedia non hanno a tutt’oggi sortito alcun effetto.
Differenze degne di nota
Abbiamo parlato della divergente proiezione strategica, politica e militare dei due partner impegnati nel conflitto.
La prima osservazione da fare riguarda la diversità dell’impegno militare. In effetti mentre i sauditi hanno finora sempre cercato di evitare un intervento che comportasse l’invio di contingenti di terra, Abu Dhabi per converso lo ha fatto fin dall’inizio. Unità terrestri composte in gran parte di mercenari, in prevalenza sudanesi ed eritrei, sono stati trasferiti in quel difficile campo di battaglia, concentrando la propria massa di fuoco nelle regioni meridionali dello spazio yemenita da dove gli Huthi erano stati cacciati da tempo.
Occorre in proposito ricordare come gli Emirati vantino una ben più consolidata esperienza in tema di interventi esterni nelle aree di crisi rispetto ai sauditi. I contingenti di Abu Dhabi sono stati impiegati in passato in Afghanistan, Sudan e Bosnia come forze di “peace-keeping” e “peace-enforcerment”. La possibilità offerta agli UAE di utilizzare nei propri ranghi combattenti mercenari, in maggioranza africani, attratti da lucrosi ingaggi, ha indubbiamente facilitato la realizzazione di un disegno di coinvolgimento regionale, deciso in larga misura dall’uomo forte di Abu Dhabi senza il pieno assenso degli altri sei emiri, alquanto profittevole sotto il profilo della capacità di deterrenza e degli interessi politici ed economici della dinastia al-Nayan dominante negli UAE.
Un secondo elemento degno di rilievo in questo contesto è costituito dal fatto che una analoga esposizione agli apporti esterni nel campo militare è costatabile anche al livello delle gerarchie dove alti ufficiali americani e britannici in pensione si sono riciclati nelle strutture di sicurezza e di pronto intervento delle forze armate dell’UAE, attratti dai lauti emolumenti versati dagli Emirati. La riprova di ciò la si ha nell’intervento in Yemen dove le unità speciali di Abu Dhabi sono comandate in prima persona da un esperto e ben rodato generale australiano, responsabile del loro impiego e che risponde direttamente ai vertici politici degli UAE.
Ciò dà un’idea della profonda differenza rispetto al tipo di intervento saudita, quasi esclusivamente limitato all’uso indiscriminato della forza aerea, resasi responsabile di eccidi e violazioni umanitarie spaventose. In sostanza quel che essenzialmente interessa alla leadership degli Emirati è la conquista di spazi territoriali, al di fuori dell’area del Golfo, attraverso la quale espandere il proprio raggio di influenza nella più vasta area arabo-africana, valorizzando la potenza della loro finanza e l’affidabilità dei loro apporti nelle strategie di penetrazione economica da parte delle multinazionali e soggetti consimili; tenendo in scacco le rivali mire espansive del potente Emirato di Qatar, con il quale si è consumata una rottura apparentemente irreversibile.
La presenza di Abu Dhabi nelle rotte che dall’Oceano Indiano portano attraverso il mar Rosso fino alla riva sud del Mediterraneo è tutt’altro che fittizia. In effetti non vi è soltanto Aden ma vi sono anche Berbera nel Somaliland e, come già accennato, il porto di Assab in Eritrea, una vera piazzaforte aero-navale, fino agli asset della stessa natura rilevabili nell’est della Libia, area in larga misura sotto il precario controllo del generale rinnegato Khalifa Haftar, appoggiato dalla Francia e degli UAE ma soprattutto dal dittatore egiziano al-Sisi, che vede nel partner libico colui in grado di imporre lo stesso sistema di dominio esistente nel suo Paese.
Gli Emirati governati dall’autocrate Mohammed bin Zayed al Nayan si trovano ad essere come il pesce nell’acqua in tale compagnia e quel che si può dire è che il loro apporto si rivela prezioso nell’opera repressiva, tanto feroce quanto poco efficace, contro le bande jihadiste attuata dal generale rinnegato; bande jihadiste, affiliate all’ISIS e ad al-Qaeda, comunque in grado di mantenere una loro presenza al di fuori dei principali agglomerati urbani il che consente loro di colpire obiettivi nevralgici in modo repentino ed inatteso. L’indiscriminata repressione ha suscitato l’esecrazione non solo delle Organizzazioni umanitarie ma anche la condanna della Corte penale internazionale che da tempo richiede che i colpevoli di atroci violazioni dei diritti umani le siano consegnati; richieste rimaste a tutt’oggi del tutto inevase.
A fronte del massiccio dispiegarsi dell’impegno militare del suo minuscolo ma potente alleato, l’apporto militare saudita si rivela essere, come sottolineato da un analista militare inglese, “piuttosto spuntato (blunted)”, e almeno fino ad ora alquanto inefficace nella guerra senza quartiere condotta contro gli odiati guerriglieri filo-iraniani, in grado di lanciare droni e missili contro obiettivi sauditi.
Le ragioni a base di ciò sono da ricercare innanzi tutto nella vistosa asimmetria esistente in questo scontro: da una parte una potenza regionale che ricorre ai sofisticati strumenti di sterminio acquistati per centinaia di milioni di dollari dalla superpotenza americana e dall’alleato storico britannico, dall’altra formazioni di combattenti temprate da decenni di guerriglia in un terreno a loro estremamente familiare. In effetti non è la prima volta che l’uso della avanzata tecnologia militare si rivela insufficiente e disadatto a venire a capo di formazioni la cui forza risiede principalmente in una ferrea motivazione, nel sostegno che tale tipo di lotta loro procura nell’ambiente teatro del conflitto e nella profonda conoscenza del teatro di guerra.
In Yemen ne abbiamo una conferma illuminante. Dopo tre anni e mezzo di efferati bombardamenti che hanno provocato la distruzione di un intero Paese, i risultati conseguiti nel campo si rivelano tutt’altro che esaltanti. Gli Huthi sono tuttora ben installati nella capitale Sanaa dove beneficiano di un plateale sostegno della maggioranza della popolazione (le immagini delle imponenti manifestazioni di folla contro i bombardamenti sauditi lo testimoniano), riuscendo a difendere fino ad ora con successo l’importantissimo porto di Hodeida nel mar Rosso dagli attacchi della coalizione nemica, essendo pure in grado di colpire naviglio militare e commerciale nello stretto di Bab el Mandeb.
Una ulteriore ragione degli scacchi subiti risiede anche nella politica di cieca repressione adottata dal rampollo del re, Mohammed bin Salman, che nel corso della sua tutt’altro che illuminata gestione ha proceduto al licenziamento di gran parte della nomenclatura militare, sostituita da personale a lui fedele ma più inesperto nel modo di portare avanti una guerra. La repressione, nelle sue forme più violente, non ha risparmiato nessuno nel Regno, che si tratti di membri della famiglia reale, dove il risentimento per tale modo di procedere si è manifestato recentemente in maniera eclatante, uomini d’affari, accademici ed anche figure di rilievo del clero wahabita, contro le quali l’irruento erede al trono pare ora irresponsabilmente accanirsi se è vero che al momento più di venti rappresentanti della nomenclatura religiosa risultano detenuti nelle galere saudite. Uno smantellamento sistematico che, oltre a minare la credibilità in termini di deterrenza del Regno al punto che molti si chiedono di quali capacità reali potrebbe disporre Riyadh in un ipotetico conflitto con l’Iran, lascia prevedere tempi foschi per la monarchia saudita in merito ad equilibri interni sconvolti da un autoritarismo portatore di risentimenti profondi che un giorno potrebbero essere pagati a caro prezzo.
La conclusione di tutto ciò è che dei due obiettivi strategici perseguiti da MbS ovverossia vincere la guerra in Yemen e infliggere un colpo fatale alla penetrazione iraniana nessuno dei due è stato conseguito ed il Regno wahabita si trova ad essere coinvolto in una trappola da cui ha difficoltà a liberarsi. A differenza del suo alleato Mohammed bin Zayed che, seppur esposto anch’egli al prezzo derivante da un’impresa tanto demenziale quanto criminale, raccoglie tuttavia, come si è visto, “ritorni” sul piano generale tutt’altro che trascurabili, facilitati anche dalla perspicacia mostrata all’indomani dell’intervento, schierandosi con quelle forze del sud-Yemen che non hanno mai rinunciato a recuperare un’indipendenza perduta nel 1990; procurandosi in tal modo appoggi locali preziosi in un contesto agitato come quello yemenita.
Conclusioni
La guerra scatenata negli altopiani yemeniti viene dunque portata avanti dai due governi con obiettivi e finalità in buona misura diverse. Ciò suona conferma della covante rivalità esistente tra Riyadh e Abu Dhabi, di come le iniziative assunte dalla principale potenza del moribondo GCC forniscano l’occasione ai suoi partner di riaffermare una loro autonomia di giudizio e di comportamento senza beninteso che il carattere assoluto della forma di governo e l’intolleranza verso ogni dissenso mostrino difformità di sorta. Questo vale sicuramente per l’Arabia saudita e gli Emirati dove la repressione non conosce limiti e si manifesta in maniera aperta e brutale.
Abbiamo già parlato della sistematica opera di smantellamento della nomenclatura del Paese realizzata dal figlio del sovrano, in nome di una modernizzazione forzata che alimenta un risentimento ai vari livelli della piramide sociale, dalla famiglia reale allargata passando attraverso l’influente clero wahabita fino alla base dell’assetto sociale dove profondo è il livore verso i privilegi della casa Saud, tenendo presente l’alto livello della disoccupazione esistente in Arabia Saudita (più del 12%), ancora più grave presso le estese fasce giovanili dove essa si attesta intorno al 30%.
A tal proposito è utile rilevare come, secondo dati forniti dal Fondo monetario internazionale quel processo di modernizzazione, pomposamente denominato “Vision 2030”, sul quale sono in molti a nutrire forti perplessità su una sua effettiva realizzazione, si è rivelato a tutt’oggi fallimentare se si pensa che nel giro di un anno (2016/2017) gli investimenti di capitale estero nel Regno sono crollati dell’80%, risultando inferiori a quelli prodottisi nello stesso periodo in ben più minuscole realtà come l’Oman e la Giordania, il numero delle imprese colà operanti continua a calare mentre la desiderata diversificazione dell’economia nazionale, l’accrescimento del ruolo del settore privato mirato a rendere più performante il parassitario apparato produttivo e la diminuzione del grado di dipendenza dall’import di petrolio non registrano progressi di sorta. Per converso la fuga di capitali risulta essere in aumento anche per il clima orrendo di repressione poco invitante per chi desiderasse investire nel Regno. L’ultimo colpo negativo lo si è avuto poche settimane orsono con l’annullamento da parte del vecchio re Salman bin Abdulaziz della decisione di mettere in vendita il 5% del valore della più grande società petrolifera al mondo, l’Aramco, ritenuta “poco prudente e non appropriata” in un momento segnato da forti tensioni e da covanti contrasti. Il che ha costituito un significativo scacco per Mohammed bin Salman e per il successo della sua strategia di modernizzazione in chiave autoritaria del Paese.
Come se tali effetti deleteri non bastassero occorre ora fare i conti con una guerra alla frontiera meridionale di cui non si vede la fine che comporta non solo un salasso finanziario ragguardevole, a suon di miliardi di dollari all’anno, ma anche un ritorno di impopolarità nel Paese rappresentato dal clima di insicurezza provocato dal conflitto e dal numero di morti tra le file saudite, sul quale si mantiene il segreto, soprattutto nelle aree di frontiera con lo Yemen dove gli Huthi continuano a colpire e seminare il panico sia tra i militari sia nella popolazione civile. Tutto ciò indebolisce il Paese, mina la sua immagine, aggrava il clima di tensione, esaspera il malcontento sociale che si ripercuote anche nei rapporti con partner di rilievo come il Canada con il quale Riyadh ha incredibilmente deciso di rompere le relazioni, tutto questo provocato dalle legittime preoccupazioni espresse da Ottawa in merito al rispetto dei diritti umani nel Regno dove gli effetti negativi della attuale governance sono sempre più visibili e controproducenti per gli stessi interessi del Paese.
Ma anche negli Emirati la situazione non si presenta del tutto rosea. Il quadro qui è ben diverso da quello descritto presso il potente vicino. Il clero wahabita non ha gli stessi poteri e la stessa influenza che nel finitimo Regno nel senso che non frappone ostacoli all’opera di modernizzazione e di esaltazione dell’innovazione tecnologica portata avanti dalla dinastia dominante di Abu Dhabi dove troneggia la figura del principe ereditario Mohammed bin Zayed che condivide con il suo omologo saudita, del quale è l’indiscusso mentore, il carattere autocratico ed assoluto della sua governance.
Altra diversità rispetto all’Arabia saudita è l’assenza di tensioni etniche e religiose, ben visibili nel Regno dove più del 10% della popolazione è composta da arabi di fede sciita, residenti nella regione più ricca del Paese, le “Eastern Provinces”, ed oggetto di discriminazione dalla maggioranza wahabita. Negli Emirati per converso la repressione si è abbattuta in maniera spietata non solo sui Fratelli mussulmani, considerati “terroristi”, ma anche su figure eccellenti della società civile, accademici, giornalisti, attivisti dei diritti umani, blogger, che all’indomani dell’insorgere della Primavera araba avevano manifestato l’auspicio che il processo di modernizzazione ed il progresso materiale della società si arricchissero dei connotati cari alla filosofia politica occidentale, pluralismo, libertà di espressione, maggiore democrazia e via dicendo.
Ebbene le aspettative degli ambienti liberali sono andate rapidamente deluse nello spazio di pochissimo tempo. Paradossalmente quegli strumenti tecnologicamente avanzati che erano serviti come piattaforme sociali per una battaglia in nome di più libertà e più giustizia sono stati successivamente utilizzati dai detentori del potere per soffocare sul nascere ogni forma di dissenso, operazione condotta nel modo più spietato e crudele, avvalendosi del know-how tecnologico di società britanniche ed israeliane, ben felici di rendere servizio all’oligarchia dominante ed oppressiva, elargitrice di contratti faraonici. Un lungo capitolo di torture, sparizioni forzate, imprigionamenti abusivi e senza processo si è conseguentemente abbattuto sulle componenti della società che per un breve lasso di tempo si erano illuse di una primavera trasformatasi poco dopo in un inverno dalle tinte sempre più cupe.
In definitiva quel che si costata negli UAE è un clima dominato da un asservimento totale al potere esercitato dalla dinastia al-Nayan ad Abu Dhabi, sostenuta fino ad ora dal casato al-Makhtoum, imperante nella capitale economica, Dubai.
Ma vi è all’interno di questo assetto fondato sui privilegi e sull’illimitato abuso del potere un altro elemento che potrebbe un giorno acuire pericolosamente i risentimenti e rendere più vulnerabile la struttura del dominio. Esso riguarda il macroscopico squilibrio esistente nella distribuzione della ricchezza tra i due Emirati sopra menzionati e gli altri cinque che compongono la galassia dell’unione. Tale problema non è mai stato risolto ed esso è fonte di malessere e di malcelato malanimo tra le sette case regnanti.
Una fonte ulteriore di tensione latente che tende ora ad aggravarsi a causa del coinvolgimento dell’UAE nella sanguinosa guerra in Yemen dove, come abbiamo visto, Abu Dhabi è intervenuta in modo unilaterale con truppe di terra nel perseguimento di finalità di potenza che poco hanno a che fare con gli interessi di un Paese, molto differenziato nel suo assetto territoriale e politico, dove la maggioranza della popolazione è composta da stranieri.
L’intervento in guerra comporta un costo la cui reale consistenza non è dato conoscere. Un episodio rivelatore di ciò lo si è avuto lo scorso maggio in occasione della fuga a Qatar di un figlio dell’emiro di uno dei cinque emarginati emirati. La fuga sarebbe stata determinata, come riportato dalla stampa araba, dal timore provato dal nobile fuggiasco per la sua vita dopo le minacce ricevute a causa della sua opposizione all’intervento in Yemen.
Simile episodio riveste a nostro avviso una triplice importanza. La prima riguarda la consistenza del malessere che l’arbitrio dei gruppi dominanti negli UAE suscita non solo al livello della società civile, vittima di una feroce repressione, ma anche in quelle altre aree del Paese che non gradiscono lo stato di sudditanza dei loro territori. La seconda concerne le dolorose conseguenze che la guerra in una terra lontana scatenata da altri stanno cominciando a farsi sentire negli Emirati sotto il profilo umano e finanziario. In effetti una delle interessanti rivelazioni fatte dal principe in fuga è che la consistenza delle perdite umane sarebbe “molto superiore” a quanto ufficialmente annunciato. Altro elemento portato a conoscenza dal figlio dell’Emiro di al-Fujairah, questo è il nome dell’Emirato in questione, è che lo sforzo bellico sta producendo tensioni e contrasti anche tra Abu Dhabi e Dubai, capitale economica del Paese, a causa delle ripercussioni che tale situazione genera nella comunità nazionale.
Il terzo aspetto di rilievo è dato a nostro avviso dal ruolo assunto da Qatar che a dispetto dell’embargo imposto e delle misure punitive inflitte figura ora come punto di riferimento nell’area del Golfo per tutti coloro che non sopportano la brutale deriva in essere nel Regno wahabita e negli Emirati. La composta e responsabile reazione di Doha alle misure punitive adottate un anno fa ha colpito molti nel Golfo e presso l’alleato USA dove si prova rincrescimento per il fatale indebolimento del GCC, considerato uno strumento indispensabile per la pace e stabilità della nevralgica area ed una barriera contro il temuto espansionismo iraniano.
In definitiva quel che si può affermare è che, a dispetto della ricchezza e potenza di due governi uniti nel modo autocratico caratterizzante la loro governance ma divisi nel perseguimento di obiettivi non convergenti, entrambi i Paesi sembrano per converso avviarsi verso un avvenire non del tutto rassicurante dove alle tensioni interne paiono in prospettiva aggiungersi le conseguenze derivanti da scelte sul piano regionale frutto di una diplomazia rozza e velleitaria.
L’indebolimento apparentemente irreversibile del GCC, lo scoppio di una guerra tanto infame quanto demenziale nel più povero Paese del mondo arabo dalla quale non si scorge una via d’uscita, la rottura con Qatar ed il frantumarsi del fronte sunnita in chiave anti-iraniana, la reazione assurda e controproducente di Riyadh contro un Paese importante come il Canada, i segnali di tensioni, sempre più visibili, all’interno del Regno wahabita ed anche degli Emirati, visti fino a pochi anni fa come “la Svizzera del Medio Oriente” nonché l’implacabile contrapposizione contro l’Iran, non condivisa non solo da Qatar ma anche da Kuwait ed il Sultanato di Oman, tutto ciò costituisce una miscela mal augurante, in buona misura alimentata da chi oltre Atlantico si rifiuta di trarre insegnamenti da passate criminali e negative esperienze.
L’aggravarsi delle tensioni tra l’Iran e la Casa Bianca costituisce forse la minaccia più grave ad un equilibrio già messo a durissima prova, in un clima al momento contrassegnato dallo scatenarsi di una retorica sterile ed oltranzista della quale le frange estreme del jihadismo militante si avvalgono profittevolmente. Il terrorismo dell’ISIS non è morto, esso continua a colpire, dal Sahel africano alla Siria, dal Sinai allo Yemen, dalla Libia, nuovo “haven” dell’estremismo islamico, all’Iraq. In quest’ultimo Paese esso trae vantaggio dalla mancanza di risposte ai reali problemi di una realtà dove alla sconfitta dei jihadisti non ha fatto seguito quello che molti iracheni si attendevano: migliori, più dignitose condizioni di vita e meno settarismo. Al contrario parrebbe che nulla di tutto questo si sia finora prodotto e che le cause che avevano facilitato il blitz jihadista nel giugno 2014 non siano state né affrontate né men che mai risolte col risultato che l’Iraq ora è un Paese in rivolta, dal nord sunnita al sud sciita, e molti reclamano con forza le dimissioni del capo del governo Haider al-Abadi, figura sempre più screditata.
Ma non è solo nel Levante che Daesh, per usare un acronimo arabo dell’ISIS, continua a colpire. Esso espande altresì la propria furia omicida in altre aree del mondo islamico, quali l’Afghanistan dove rivaleggia con i Talebani, e la Somalia dove cerca di penetrare nelle file dei jihadisti nazionalisti di al-Shabab in lotta contro la coalizione di forze dell’Unione africana; tralasciando di parlare di Boko Haram, le cui feroci milizie asservite all’ISIS seminano morte e distruzione in Nigeria e nei Paesi circostanti, in una mostruosa incontenibile scia di sangue.
In conclusione siamo in presenza di un quadro generale tutt’altro che rassicurante ed i segnali che si profilano non paiono lasciar scorgere un’attenuazione delle pericolose spinte destabilizzanti cui da tempo stiamo assistendo. Il pessimismo sembra prevalere presso tutti coloro inquieti per un’involuzione sul piano globale che non accenna a diminuire. Né potrebbe essere altrimenti, purtroppo.
Angelo Travaglini, ambasciatore in pensione. Membro del Comitato Scientifico del CIVG