Assalto agli oceani
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- Scritto da Sonia Savioli
Arrivano quasi quotidianamente, seppur relegate in colonnine quasi invisibili su quotidiani e riviste: sono le notizie terrificanti sullo stato dei nostri mari. "Nostri", perché dovrebbero essere patrimonio di tutti, non la discarica del pianeta di fronte alla quale tutti ci giriamo dall'altra parte.
Le notizie sui danni che l’odierna società umana causa all’ambiente vengono minimizzate e banalizzate dall’industria mediatica. Dopotutto, è anch’essa un’industria multinazionale, ramificata come un’edera ma con poche, potenti radici da cui le viene il nutrimento (e le vengono le indicazioni): i soliti padroni del vapore. Nonostante questo, sono ormai uno stillicidio le notizie scarne e banali, o relegate nella paginetta “ambiente” di quotidiani e riviste, ma ugualmente terrificanti sul degrado dei mari. Sull’inquinamento delle loro acque, sui continenti di rifiuti di plastica, sulla distruzione delle barriere coralline, sull’estinzione annunciata di specie importantissime per la vita degli oceani, sull’ impoverimento senza precedenti di tutta la fauna e la flora marina. Abbiamo svuotato gli oceani delle loro creature, li abbiamo riempiti di schifezze e veleni. Si calcola che ogni giorno su questo povero pianeta finiscano in acqua due milioni di tonnellate di rifiuti. Poiché è una cifra così grande che si fa fatica a immaginarla, ricordiamoci che una tonnellata corrisponde a mille chili e, di conseguenza, due milioni di tonnellate sono due miliardi di chili di immondizie, che vengono ogni giorno buttate in mare o che ci arrivano con l’acqua dei fiumi.
Nel 2008 erano già state censite negli oceani 58 “zone morte”, cioè completamente prive di vita, spesso “batteriologicamente pure”, che significa che non ci sopravvivono nemmeno i batteri, e che ammontavano a 12 milioni di chilometri quadrati. Dodici milioni di chilometri quadrati (per avere un’idea: la superficie degli Stati Uniti è inferiore a dieci milioni di chilometri quadrati) di acque marine morte, avvelenate da pesticidi, fertilizzanti chimici, liquami tossici di ogni tipo che si riversano dai campi dell’agricoltura industriale, dalle fabbriche, dalle fogne di paesi e città, dalle navi da crociera e da quelle mercantili. E il mare non ha scampo, è il grande continente liquido che tutto accoglie e in cui tutto circola; senza che si possa circoscriverlo.
Stillano, le notizie, goccia a goccia. I padroni dei media e del vapore non vogliono allarmarci; non sia mai che cominciamo a riflettere, a fare due più due, a reagire e ad agire responsabilmente. Per questo motivo ci sono informazioni che vengono proprio, scartate, nascoste, ignorate. Per esempio, l’informazione che la pesca industriale, quella che sta desertificando gli oceani, viene sovvenzionata dagli stati e dal superstato globale (Unione Europea, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale del Commercio, e chi più ne ha più ne metta) con 30 miliardi di dollari l’anno.
Senza quei miliardi forse la pesca industriale non potrebbe sopravvivere, perché i suoi costi sono altissimi. I cosiddetti “pescherecci” oceanici sono in realtà vere e proprie fabbriche galleggianti, nelle quali il pesce viene lavorato, congelato e/o messo in scatola. Fabbriche galleggianti che consumano enormi quantità di carburante, che depredano gli oceani, svuotandoli di tutte le loro creature e che, piccolo effetto collaterale, li inquinano con liquami, rifiuti e chilometri di reti rotte che vengono lasciati a ondeggiare a pelo d’acqua, continuando a uccidere del tutto inutilmente.
Le reti e i palamiti stesi in mare da queste mostruose macchine arrivano a misurare fino a cinquanta chilometri, le spadare usate nel Mediterraneo fino a venti chilometri. Decine di chilometri di morte e distruzione in gran parte inutili, di nessun vantaggio neanche per questi saccheggiatori del mare. Ci finiscono impigliati animali di ogni specie, dai pinguini alle sule, dalle tartarughe agli squali, dalle foche alle balene, che però non interessano ai razziatori industriali e che muoiono inutilmente e atrocemente ogni giorno.
Senza quei 30 miliardi all’anno di finanziamento (estorti a noi con le tasse; stornati ai servizi pubblici e alle pensioni dai governi liberisti; “risparmiati” da quegli stessi governi sui salari di insegnanti non assunti, dipendenti dei Comuni in via di estinzione ecc.) forse si tornerebbe alla pesca artigianale, sicuramente il tonno costerebbe molto di più, se ne consumerebbe di meno e non lo si darebbe ai cani e ai gatti con le scatolette. E non si starebbe estinguendo.
Ma il sistema ha trovato il modo di alimentare sé stesso; la pesca industriale è appannaggio delle multinazionali, i governi occidentali sono ormai fantocci meccanici da loro azionati, le istituzioni sovranazionali sono governate dai loro uomini: gente che passa da una finanziaria a una grande banca a un’agenzia dell’ONU e viceversa. E si stanno mangiando anche gli oceani.
La maggior parte delle persone consapevoli di ciò, sensibili ai problemi ambientali e sociali, è sempre più in preda allo sconforto e sempre meno attiva, se non su feisbuc e compagnia bella. Ci sembra che “il sistema” sia ormai onnipotente e invulnerabile. E non ci rendiamo conto di esserne parte; non ci rendiamo conto di quanto siamo attivi nel sostenerlo, inetti nel contrastarlo. Eppure oggi, come mai prima, il gigante ha i piedi d’argilla; il potere economico, oggi come non mai, si fonda sui nostri consumi quotidiani più che su qualsiasi elargizione statale o sovrastatale. Dunque sulle nostre insalate al tonno, sui nostri ristoranti “tutto pesce”, sulla nostra moda del sushi si fonda la distruzione degli oceani. Sui banchi dei supermercati col pesce fresco, una parte del quale verrà gettato via ogni sera; sui frigoriferi dei supermercati pieni di pesce surgelato arrivato direttamente dalle navi-fabbrica per finire nel carrello della spesa e nelle mense aziendali e scolastiche. Ed è interessante vedere come, gente che va in chiesa due volte l’anno o che non ci è andata nemmeno per sposarsi, rispetti puntigliosamente il precetto del “venerdì di magro”. Che poi nessuno aveva mai detto che “magro” significasse pesce, piuttosto significava digiuno o poco più ed era una norma igienica oltre che spirituale, non un banchetto a base di sogliola e branzino.
Il Sistema, che è creato, gestito e guidato dalle lobbi multinazionali di ogni tipo (tra quelle della pesca, pensate, c’è la Mitsubishi), è fatto di tutte queste cose, dei consumi collettivi e di quelli individuali, e la forza dei pochi che lo controllano si fonda sull’ignoranza e l’indifferenza dei molti che lo subiscono e lo sostengono.
Ancora una volta ci troviamo di fronte allo strapotere delle multinazionali e al loro pressoché totale controllo delle cosiddette “istituzioni sovranazionali”. La pesca industriale viola continuamente e senza alcuna esitazione o ritegno le norme e le leggi internazionali ma le istituzioni internazionali fanno finta di niente e la sovvenzionano, e così fanno i governi. Quando non cambiano addirittura le leggi per agevolare il saccheggio. Da anni il governo italiano e la regione Sicilia fanno deroghe alla legge europea sulla pesca del novellame di sardine. Si arraffa finché si può, distruggendo intere specie; poi si sposteranno altrove soldi e finanziamenti, magari nelle centrali a biomasse.
La suddetta Mitsubishi è un altro esempio luminoso di come il sistema capitalistico globale concepisca l’economia. Da quindici anni fa incetta di tonno rosso all’asta del pesce di Tokio (c’è un’asta di cadaveri marini, a Tokio, ma né voi né io potremmo partecipare) e ammassa i tonni rossi congelati in enormi frigoriferi (alla faccia del risparmio energetico) in attesa che il tonno rosso si estingua. Così aumenterà di prezzo in modo stratosferico e ce l’avranno solo loro! Per quanto? Non importa, gli investimenti si saranno già spostati. Speriamo che gli si guastino i frigoriferi.
Ma non basta, in questo millennio apocalittico l’Unione Europea ha permesso la “pesca in acque profonde”. Dato che in quelle costiere il pesce non c’è più, bretoni e spagnoli hanno proposto di raschiare i fondali fino a oltre mille metri di profondità. E non immaginatevi dei “pescatori” come nei film del neorealismo. Si tratta sempre di multinazionali della pesca-alimentazione-grande distribuzione. Peccato che gli animali degli abissi marini vivano anche fino a cento anni e si riproducano magari a trent’anni; peccato che i coralli degli abissi abbiano anche quattromila anni e crescano anch’essi a ritmi molto lenti; peccato che in quegli abissi la vita abbia regole che neanche conosciamo e ospiti creature che nemmeno sospettiamo. Peccato anche che questa pesca in acque profonde possa essere redditizia solo grazie ai fiumi di sovvenzioni che, a nostre spese, stati e sovrastati (vedi UE) danno all’industria della pesca.
“E’ avvenuto tutto all’improvviso… Quel mattino mi accadde di arpionare una cernia. Una cernia robusta, combattiva. Si scatenò sul fondo una vera e propria lotta titanica fra la cernia che pretendeva di salvare la sua vita e me che pretendevo di togliergliela. La cernia era incastrata in una cavità tra due pareti; cercando di rendermi conto della sua posizione passai la mano destra lungo il suo ventre. Il suo cuore pulsava terrorizzato, impazzito dalla paura. E con quel pulsare di sangue ho capito che stavo uccidendo un essere vivente. Da allora il mio fucile subacqueo giace come un relitto impolverato nella cantina di casa mia”.
Sono le parole di Enzo Maiorca, morto nel 2016, siciliano, campione mondiale di immersione in apnea, che da quel momento smise con la pesca subacquea, diventò vegetariano e si batté per la salvezza del mare, che vedeva sempre più in pericolo. Divenne un araldo di tutte le creature che nel mare vivono, avendo infranto la barriera dell’estraneità e dell’indifferenza, avendo imparato a sentirle come suoi simili, a condividerne la sofferenza, a disiderarne profondamente la salute e la libertà.
Forse è quello che manca oggi a un movimento ambientalista sempre più impotente? L’amore, vero e profondo, per le altre creature che il nostro “sviluppo” sta distruggendo? Forse amiamo di più quello “sviluppo”, che ci consente di fare la spesa al supermercato, avere in tasca il cellulare e sotto il sedere un’auto o una moto, nel piatto una salsa ai gamberetti e un chilo di plastica al giorno da smaltire tanto c’è la raccolta differenziata? E di cavarcela con una firma on line, senza più andare in piazza, riunirci, fare cartelli, portare striscioni, gridare sotto le finestre dei potenti? Senza smettere di consumare tutto ciò che danneggia la vita? Queste sono azioni che richiedono tempo, impegno e fatica, e il tempo e la fatica si usano volentieri solo per ciò che si ama.
Perché lo amava Maiorca divenne un difensore di questo povero Mediterraneo, un tempo meraviglioso e infinitamente ricco di vita, oggi devastato e straziato. Eppure, dalle balene che nonostante tutto lo solcano, agli uccelli marini che ancora nidificano sulle sue coste, alle tartarughe che ancora vengono a riprodursi sulle sue spiagge, c’è ancora tanto da salvare. Se riusciremo a sentirne i battiti del cuore.
25-04-2018