Ecco le Auschwitz italiane di cui non sappiamo nulla

per Linkiesta

I campi di internamento allestiti dagli italiani per i civili rastrellati nei territori jugoslavi annessi nel 1941 (provincia di Lubiana e di Dalmazia) e per gli “allogeni” cioè sloveni e croati della Venezia Giulia,  erano in totale 28. Dei quali 14 in Italia, tra Friuli, Umbria, Veneto, Toscana, Liguria e Sardegna, dove gli internati morivano di fame e freddo. A parte il lavoro di pochi storici, su questi lager è calata un’impenetrabile cortina di silenzio. 

               

Non solo Arbe. Quello dell'isola dalmata che oggi si chiama Rab, aperto esattamente settant'anni fa, nel luglio 1942, è stato il più terribile e mortale fra i campi di internamento “per slavi” messi in piedi dall'Italia (soprattutto dal Regio esercito) durante l'occupazione della Jugoslavia. Ma certo non era l'unico. Già il termine “per slavi” la dice lunga. Il fatto che sia un concetto sbagliato (slavi infatti sono tutti i popoli che parlano lingue slave, dai russi ai bulgari) probabilmente non occupava le menti di chi ha concepito quei lager. È invece molto probabile che fossero ben consci dell'accezione negativa e velatamente razzista che la parola ha assunto – allora come oggi – in seguito all'uso e all'abuso fattone dai nazionalisti italiani (e che in precedenza invece non aveva, basti pensare alla veneziana riva degli Schiavoni, uno dei luoghi più prestigiosi della città).

 I campi di internamento allestiti per ricevere i civili rastrellati dalle territorio jugoslavi annessi nel 1941 (provincia di Lubiana e di Dalmazia) e “allogeni” (sloveni e croati della Venezia Giulia, divenuti cittadini italiani dopo la Prima guerra mondiale) erano in totale 28: 14 in Italia e altrettanti nel territorio annesso. L'elenco è ricavato dal libro di Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce (Einaudi). Il Friuli-Venezia Giulia ospitava sei campi: Cighino, Gonars, Visco, Fossalon, Poggio Terzarmata (Zdravščine) e Piedimonte (Podgora); tre l'Umbria: Colfiorito, Pietrafitta e Ruscio; due il Veneto: Monigo e Chiesanuova; uno ciascuno la Toscana, la Liguria e la Sardegna: Renicci, Cairo Montenotte e Fertilia. I campi nei territori annessi si trovavano tutti nell'attuale Croazia, con l'eccezione di quello sull'isola di Mamula, oggi in Montenegro.

Oltre al già citato campo di Arbe (Rab), ce n'erano a Buccari (Bakar), Portoré (Kraljevica), Fiume (Rijeka), Melada (Molat), Zlarino (Zlarin), Scoglio Calogero (Ošljak), Morter (Murter), Zaravecchia (Biograd), Vodizza (Vodice), Divulje, Prevlaka e (Uljan). Ques'ultimo è stato aperto nell'agosto 1943 e ha ospitato 300 persone solo per pochi giorni, fino all'armistizio dell'8 settembre 1943, quando tutti gli internati sono stati liberati (ma non tutti i lager hanno cessato di funzionare). I primi campi erano stati aperti tra l'inverno e la primavera 1942, per deportarvi la popolazione civile delle zone dov'era maggiore l'attività partigiana.

Le condizioni di vita variavano da campo a campo e da periodo a periodo, potevano andare dal sopportabile al disumano. Il numero maggiore di vittime si è registrato ad Arbe (1435 vittime accertate su 10mila internati); dieci volte minore è la mortalità di Renicci (in provincia di Arezzo), con 159 deceduti su un numero di internati più meno uguale; mentre a Gonars (Udine) si contano 453 morti su 7mila internati. Abbiamo una documentazione abbastanza completa solo per i campi più grandi (Arbe, Gonars, Monigo, Chiesanuova, Renicci e Visco) mentre su altri sappiamo piuttosto poco. La maggior parte dei campi era gestita dal Regio esercito, alcuni ricadevano sotto la giurisdizione del ministero dell'Interno e in questi secondi le condizioni di vita erano generalmente migliori. 

Diciamolo subito: non c'era un disegno esplicito né di torture o maltrattamenti fisici, né tantomeno di sterminio (certo, è vero che affamare i reclusi equivale a una tortura). I regolamenti non prevedevano punizioni corporali, ma in alcuni campi venivano praticate: a Gonars era stato issato un palo dove legare i puniti. Si sono registrate alcune uccisione arbitrarie (sempre a Gonars Rudolf Kovač fu ucciso dalla fucilata di una sentinella senza apparenti motivi, a Renicci l'anarchico Umberto Tommasini venne ammazzato a colpi di pistola da un ufficiale per aver intonato l'Internazionale dopo la caduta di Mussolini). Non c'erano lavori forzati, solo qualche internato era occupato in attività d'ufficio e infermieristiche. Tuttavia erano stati costituiti tre campi di lavoro, uno per “ex jugoslavi” e uno per “allogeni” dove le condizioni di vista erano generalmente migliori che nei campi d'internamento.

Gli internati, invece, morivano di fame, di malattie e di freddo. «Caratteristiche pressoché costanti in questi campi furono la fame e la denutrizione generalizzate che determinarono l'alto tasso di mortalità», scrive Capogreco. Le razioni erano volutamente insufficienti e gli internati venivano alloggiati in tende senza tavolacci e quindi costretti a dormire sulla nuda terra, il che innalzava in modo consistente l'incidenza di malattie, soprattutto tra gli anziani. Arbe, Melada e Zlarin erano collocati in riva al mare, il primo addirittura su un terreno paludoso. 

In Italia furono allestiti anche altri tipi di campi – per prigionieri di guerra o per internati politici o quant'altro – ma Capogreco sottolinea che le tendopoli adriatiche dei campi “per slavi” sono lontane «anni luce» dalle strutture per internati gestite dal ministero dell'Interno. Il modello era piuttosto costituito dai campi di prigionia in Libia. I reclusi vestivano e calzavano indumenti propri e, poiché l'arresto li aveva colti di sorpresa, buona parte di loro non disponeva d'altro che degli abiti indossati al momento del fermo. Solo ad alcuni più bisognosi, a inverno inoltrato, vennero forniti indumenti e scarpe di tipo militare. Si potevano ricevere pacchi, ma i disservizi e l'ostruzionismo rendevano la possibilità solo teorica: quando i pacchi arrivavano, e se arrivavano, il cibo era ormai immangiabile per la lunga giacenza nei magazzini. Da registrare un'eccezione: il servizio pacchi nella Dalmazia meridionale, organizzato dal 120° fanteria della Divisione Emilia che consegnò oltre 10mila pacchi nei due campi di Mamula e Prevlaka.

Il racconto di un ex internato di Renicci ricostruiva le precarie condizioni di vita nelle tende: «La terra era molto umida e così abbiamo cercato delle frasche da sistemare sul fondo, per poi poggiarvi le coperte. Ma i guardiani non ce l'hanno permesso e chi veniva sorpreso a spezzare rami dalle querce passava dei guai molto seri con loro. Così, la maggior parte di noi ha dovuto mettere direttamente sul fango le proprie coperte e, in poco tempo, si è così ammalata. Io ho vissuto sotto una tenda sino alla primavera del '43: in ogni tenda stavamo quindici o venti persone, ma poi hanno allestito anche tendoni per sessanta internati».
La fame era accentuata dall'antica, e non interrotta, tradizione italica di fare la cresta sulle provviste. Ivan Branko, evaso da Gonars il 30 agosto 1942, riferiva che le razioni erano forse sufficienti per sopravvivere, ma «prima di arrivare agli internati, finivano per ridursi a un quarto, poiché dovunque veniva rubato, al comando e poi lungo le tappe intermedie della gerarchia del potere». 

Parecchi morti nei vari campi erano internati trasferiti da quello di Arbe quando ormai si trovavano in condizioni disperate. È il caso dei 232 reclusi deceduti della caserma “Cadorin”, di Monigo (Treviso). «I medici dell'ospedale di Treviso, dove venivano ricoverati gli internati quando erano ormai allo stremo, restavano esterrefatti davanti al quadro clinico di completa denutrizione», sottolinea Capogreco. Il professor Menenio Bortolozzi, al tempo primario anatomo-patologo, osservava: «Dal campo li mandavano al nosocomio quando ormai era troppo tardi: si è riusciti a salvarne pochi, sono morti anche bambini di un anno, di pochi mesi, vecchi ottantenni, persino uno di 92 anni. Morti di fame».

E Mario Cordaro, ex ufficiale medico a Gonars, riferiva: «Il nostro lavoro era divenuto bestiale, ma purtroppo non potevamo fare altro che constatare la nostra impotenza. Il cimitero di Gonars non poteva più contenere i morti che si contavano a varie decine ogni giorno e così fu in fretta costruito un nuovo cimitero». Camillo Croce, medico a Melada, ancora nel 2001 testimoniava: «Quando le condizioni di salute erano molto gravi, proponevo il ricovero all'ospedale San Demetrio di Zara, al quale facevamo capo per le varie emergenze».

Le condizioni di vita furono un po' alleviate dall'intervento ecclesiastico. Il vescovo di Lubiana e quello di Veglia (sloveni e croati sono cattolici) andarono personalmente da Pio XII che fece pressioni sul governo italiano. Nella sua risposta il generale Mario Roatta, comandante militare dei Balcani, non negava la mortalità, ma cercava di farla apparire casuale. Comunque l'intervento vaticano ottenne il trasferimento dei bambini e di gran parte delle donne da Arbe a Gonars. Dal febbraio 1943 operò a Cairo Montenotte (Savona) un campo riservato alla minoranza slovena e croata della Venezia Giulia. Per fortuna fu un campo a bassa mortalità, ma la situazione non era di certo facile.

Il vescovo di Trieste e Capodistria, Antonio Santin, andò a visitare quelli che erano in buona parte abitanti della sua diocesi. Si scontrò con un generale che li considerava tutti delinquenti. «Pregai il generale di segnalare in alto la scarsità di cibo: avevo visto coi miei occhi e appreso dal colonnello quanto ricevono. Hanno fame», scrisse il vescovo.

Su tutto questo, nel dopoguerra, è scesa un'impenetrabile cortina di silenzio. Solo il caparbio lavoro di pochi storici e ricercatori ha permesso di conoscere almeno in parte le atrocità di cui si sono macchiati gli italiani nei Balcani.

           

Il campo di Gonars

 

                

Monumento in ricordo delle vittime a Gonars

               

Gonars, internati appena arrivati

 

              

Renicci (Toscana)

               

Renicci, prigionieri sloveni in marcia

 

 

Rab, la Auschwitz dimenticata dagli italiani

Di Alessandro Marzo Magno                       6 luglio 2012

Alzi la mano chi ha mai sentito parlare del campo di internamento di Arbe (oggi Rab). Oppure di quelli di Gonars, Monigo, Renicci. Nel 1941 l'Italia invade la Jugoslavia e si annette una parte del territorio, nelle attuali Slovenia e Croazia. Fu creata una rete di campi d’internamento. A Rab morirono circa 1.500 sloveni, diecimila furono gli internati. Nessuna istituzione italiana, dal 1945 a oggi, è mai andata a deporre una corona di fiori, prendendo le distanze dalle efferatezze dell’Italia fascista nei Balcani. 

Mettiamola così: se un Paese mettesse in piedi un campo di concentramento rinchiudendovi in meno di 14 mesi circa 10mila persone, e facendone morire 1.500, passerebbe alla storia come aguzzino (il tasso di mortalità, del 15 per cento, è pari a quello del lager di Buchenwald). Se lo fa l'Italia, invece, niente.

Alzi la mano chi ha mai sentito parlare del campo di internamento di Arbe. Oppure di quelli di Gonars, Monigo, Renicci e vari altri. Probabilmente quasi nessuno. Eh già, perché l'Italia preferisce l'oblio quando il passato è imbarazzante. E invece bisogna ricordare. Anche gli italiani hanno commesso efferatezze, hanno ammazzato, hanno rinchiuso nei campi vecchi, donne e bambini facendoli morire di fame e di malattie.

Nel 1941 l'Italia invade la Jugoslavia e si annette una parte del territorio, nelle attuali Slovenia e Croazia. Alle popolazioni locali l'idea di essere dominati da una potenza straniera non piace granché e dopo quasi un anno di situazione relativamente tranquilla, comincia una furiosa guerriglia partigiana. La reazione italiana è durissima: rastrellamenti, fucilazioni, deportazione delle popolazioni civili dai villaggi delle zone dove sono attivi i partigiani. 

Viene creata una rete di campi di internamento (per chi volesse approfondire: Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce, Einaudi) dove sistemare le popolazioni deportate. Uno di questi campi sorge sull'isola di Arbe, nel golfo del Quarnero (oggi Rab, Croazia). Rispetto agli altri ha avuto un triste primato: quello di essere il più duro, quello dove sono morte più persone. È gestito dal Regio esercito, non da camice nere, milizie o quant'altro; non è un campo strettamente “fascista”, è un campo “italiano”.

 Bambini internati a Rab

Il primo gruppo di internati (240) ci arriva esattamente settant'annifa, nel luglio 1942, poi ne giungono altri a gruppi, a fine agosto arrivano mille minori di 16 anni, tutti assieme. Quasi tutti sono vittime dei rastrellamenti in Slovenia, pochi i croati. Il campo sorge nel vallone di Sant'Eufemia, sul fondo della baia di Campora (Kampor), su un terreno paludoso, sottoposto all'azione dell'alta marea e a rischio inondazione (Arbe, contrariamente al resto della Dalmazia, è ricchissima d'acqua dolce).

Gli internati, come detto soprattutto vecchi, donne e bambini, vengono sistemati all'interno di tende. Le condizioni di vita sono durissime: «Campo di concentramento non significa campo di ingrassamento», annota il generale Gastone Gambara, comandante dell'XI corpo d'armata che aveva giurisdizione sulla zona (naturalmente è morto senza mai dover rispondere delle sue azioni nei Balcani, e dopo esser stato reintegrato nell'esercito nel 1952). Condizioni di vita aggravate dal sadico comportamento del comandante del campo, il tenente colonnello dei carabinieri Vincenzo Cuiuli (condannato a morte dai partigiani, si taglierà le vene la notte prima dell'esecuzione). Gli interrogatori degli internati, dopo la liberazione del campo da parte degli jugoslavi, l'8 settembre 1943, sottolineeranno anche la crudeltà del cappellano, don Enzo Mondini, mentre rimarcheranno i tentativi messi in atto dagli ufficiali medici per alleviare almeno di un po' le pene.

                               
Internati nel campo di Rab


Gli internati di Arbe muoiono per denutrizione (la razione era 80 grammi di pane al giorno, più una brodaglia cucinata in ex bidoni di benzina), per malattie (il generale Gambara, enuncia il principio «internato ammalato uguale internato tranquillo» e fa distribuire paglia infestata dai pidocchi) e per calamità naturali. L'episodio più grave avviene nella notte tra il 29 e il 30 settembre 1942 quando un furioso temporale provoca un'inondazione alta un metro che devasta il settore femminile, trascinando in mare tende, donne e bambini. Il giorno dopo vengono recuperati dalla baia decine di corpicini galleggianti. La sezione femminile e quella maschile sono divise da un ruscello che però è talmente infestato dai pidocchi da rendere impossibile non solo berne l'acqua, ma persino usarla per lavarsi. 

Gli internati inscheletriti dalla fame, cotti dal sole, sporchi all'inverosimile, suscitano l'intervento del Vaticano che cerca di alleviarne le spaventose condizioni, viene costruita qualche baracca, ma nulla più. Herman Janez, allora un bambino di sette anni, ricorda il terribile inverno passato sull'isola: «Le guardie ogni giorno facevano l’appello di noi ragazzini per poi portarci nella rada di mare antistante al campo e farci fare il bagno. Ci nascondevamo, ma poi questi ci stanavano e ci costringevano ad andare in acqua. Eravamo già deboli, pieni di zecche e di pidocchi, di piaghe purulente, puzzavamo di sterco nostro e altrui, e dopo questi bagni un semplice mal di gola ha portato tanti di noi al camposanto». La mortalità maggiore si registra quando il freddo pungente della bora porta via gli internati a grappoli. 

                       
80 grammi di pane al giorno

Non si sa esattamente quanti siano stati gli internati. Le stime vanno da 7.500 a 15.000. Teniamoci su una prudente via di mezzo e diciamo attorno ai 10mila. I morti accertati, con nome e cognome, sono 1.435, ma quasi certamente sono di più perché i sopravvissuti hanno testimoniato che poteva capitare di seppellire due salme in una tomba e che gli internati nascondessero il corpo di qualche deceduto per dividersi la sua porzione di brodaglia.

Gli ebrei, per lo più scampati agli ustascia croati, erano trattati meglio perché il Regio esercito non li considerava nemici, come invece accadeva per gli sloveni. Per esempio vivevano in baracche e non in tenda e non subivano le persecuzioni riservate agli altri. Evelyn Waugh li menziona in un suo racconto, “Compassione”: «Con improvvisa veemenza la donna, la signora Kanyi, tacitò i consiglieri e si mise a raccontare la sua storia. Quelli là fuori, spiegò, erano i sopravvissuti di un campo di concentramento italiano sull'isola di Rab. Per la maggior parte erano cittadini jugoslavi, ma alcuni, come lei, erano rifugiati dall'Europa centrale. Alla fuga del re, gli ustascia avevano cominciato a massacrare gli ebrei. E gli italiani li avevano radunati trasferendoli sull'Adriatico. Con la resa dell'Italia, i partigiani avevano tenuto la costa per qualche settimana, riportando gli ebrei sul continente, reclutando tutti quelli giudicati utilizzabili, e imprigionando il resto». 

                                     
Rab, il cimitero

Dal 1945 a oggi, mai un rappresentante ufficiale dello stato italiano è andato ad Arbe a deporre una corona di fiori, mai il console italiano della vicina Fiume (Rijeka) è andato a pronunciare un'orazione funebre, mai l'ambasciatore italiano a Zagabria ha sentito il dovere di chiedere scusa. Soltanto una volta un rappresentante dell'allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, è andato in forma ufficiale alle commemorazioni del campo di Gonars, in provincia di Udine. Ma mai l'Italia repubblicana ha preso definitivamente le distanze da quanto commesso ad Arbe e nei Balcani dall'Italia fascista.

 

Trieste, quando erano gli italiani a fare pulizia etnica

                                          di Alessandro Marzo Magno

Dal 2004 il 10 febbraio è il giorno del Ricordo: si commemorano le foibe, le persecuzioni e l’esodo degli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia. Giusto: per troppi anni ci si è dimenticati di questo dramma. La memoria, però, ha un problema: è selettiva. Perché sorvoliamo sulle nostre violenze sul confine orientale?

 


10 febbraio 2013

Dal 2004 il 10 febbraio è diventato il giorno del Ricordo: si commemorano le foibe, le persecuzioni e l’esodo degli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia. Giusto, per troppi anni ci si è dimenticati di questo dramma. La memoria, però, ha un problema: è selettiva, e si ricorda quel che si vuol ricordare.

Il susseguirsi di eventi che hanno caratterizzato l’attuale confine orientale italiano ne è un esempio palese: in quell’area è accaduto di tutto e di più. Per esempio le pulizie etniche sono state varie, e ce n’è una, così imbarazzante per l’Italia che quasi nessuno si è preso la briga di studiarla.
La città di Trieste e tutta la regione del Litorale (questo il nome dato dagli austroungarici a quella che per gli italiani è la Venezia Giulia) dopo la prima guerra mondiale sono state rivoltate come un calzino. Trieste smette di essere una città multietnica perché la propaganda nazionalista la vuole “italianissima” (non lo diventerà mai, motivo per cui il mito di “Trieste italianissima” è sventolato pure ai nostri giorni da una destra affamata di voti, per esempio da un duro e puro come il parlamentare finiano Roberto Menia, curiosamente alleato di Mario Monti).

Possiamo dare un’occhiata a quanto è accaduto da quelle parti tra il 1914 e il 1919 grazie a un libro di Piero Purini, Metamorfosi etniche, (Kappa Vu). Trieste nel 1913 (anno del suo massimo sviluppo nell’era austroungarica; il porto riprenderà solo nel Sessanta gli stessi livelli di traffico) aveva circa 240 mila abitanti, ovvero più o meno quanti ne ha oggi.

Dal punto di vista etnico la città era molto, ma molto diversa da come si presenta attualmente: agli italiani di cittadinanza austriaca si affiancavano gli immigrati dal regno d’Italia (Trieste era molto più ricca delle vicine regioni italiane e ci si emigrava come si faceva in Svizzera o in Francia), agli sloveni autoctoni si sommavano quelli provenienti dalla Carniola, e poi ancora tedeschi, croati, una forte comunità ebraica (alla vigilia delle leggi razziali Trieste è in termini relativi la città più ebraica d’Italia), piccoli ma vivaci nuclei greci, serbi, armeni, svizzeri, albanesi, boemi, polacchi turchi. Escono giornali in quattro lingue (italiano, sloveno, tedesco e croato) e fino al 1910 vi si stampa pure un settimanale in greco. Per i triestini (e i trentini) la guerra scoppia nel 1914 e i soldati di leva sono costretti a partire per il fronte (gli italiani etnici vengono mandati prevalentemente sui Carpazi). Ma quando è chiaro che ci sarà la guerra con l’Italia, i sudditi di Vittorio Emanuele III fanno fagotto. Fino al 23 maggio 1915, giorno in cui vengono bloccate le linee ferroviarie con l’Italia, se ne vanno circa in 35 mila, ma ne restano ancora parecchi, tanto che le autorità austriache ne rimpatrieranno via Svizzera altri 9 mila (donne, vecchi e bambini) e ne manderanno al confino o all’internamento circa 5 mila (uomini in età di leva). A questo punto gli italiani rimasti a Trieste sono solo quelli che hanno in tasca il passaporto imperiale, di questi 1.047 scapperanno per arruolarsi nel Regio esercito, con 182 caduti (tra loro gli scrittori Scipio Slataper e Carlo Stuparich).

I coscritti triestini nelle forze armate imperiali e regie potrebbero invece aggirarsi sui 25 mila, ma un calcolo preciso non è mai stato fatto a causa del variare della popolazione cittadina. Assieme a quelli che scappano per combattere dall’altra parte del fronte, ci sono anche quelli che se ne vanno per non impugnare le armi: anarchici, socialisti internazionalisti (Trieste, città di cantieri navali e di fabbriche aveva una fortissima componente rossa), pacifisti che, dopo la guerra, gli italiani cercheranno puntigliosamente di non far tornare. Gli eventi bellici portano a un impressionante numero di profughi, Gorizia, per esempio passa da 28 mila ai 3.500 abitanti di quando vi entrano gli italiani, nell’agosto 1916, e sarà del tutto sgomberata dopo Caporetto. Trieste, che non è zona di guerra, perde in tutto circa 90 mila abitanti, arrivando ad averne, nel 1917, 150-160 mila.

Dopo l’armistizio del 4 novembre 1918 nulla sarà mai più come prima. Nel 1919 rientrano in città i cosiddetti “regnicoli” (ovvero gli italiani che prima della guerra erano sudditi del regno e non dell’impero), ma assieme a loro immigrano anche molti italiani attratti dalle nuove opportunità che offre la città conquistata. Si tratta di quasi 40 mila persone, solo 25.500 delle quali erano residenti nell’area prima del 1915. Troveranno occupazione soprattutto nel pubblico impiego, occupando i posti lasciati liberi dal personale mandato via per motivi etnici.

L’accesa attività irredentista di una parte (assolutamente minoritaria) della comunità italiana, aveva fatto sì che gli italiani fossero considerati infidi agli occhi della autorità austriache, con punte di vero e proprio disprezzo da parte dell’imperatrice Elisabetta o dell’erede al trono Francesco Ferdinando. Per questo nella pubblica amministrazione si cercava di assumere personale tra i gruppi etnici maggiormente Kaisertreu (fedeli all’imperatore): poste, finanza, dogana, gendarmeria, porto, ferrovie avevano in prevalenza dipendenti non italiani. Il caso dei ferrovieri è il più eclatante: erano in totale 1926: 1694 slavi (soprattutto sloveni, ma anche croati) e 80 tedeschi e non è detto che i 152 rimanenti fossero tutti italiani. Dopo la guerra, tra licenziati e trasferiti non si è più nemmeno in grado di far funzionare i treni e bisogna richiamare in fretta e furia personale dal resto d’Italia. «L’espulsione dei ferrovieri può essere considerata il primo momento di “bonifica etnica” ai danni della popolazione slava della Venezia Giulia, poi sistematizzata durante il fascismo», scrive Purini.

Il primo gruppo etnico a essere espulso da Trieste sono i tedeschi, circa 12 mila, terzi per consistenza in città, dopo italiani e sloveni. Si scatena una vera e propria caccia alle streghe contro i “non patrioti”, arrivando alla delazione nei confronti di chi parla tedesco in privato, mentre una rumorosa campagna di stampa chiede di sostituire nelle scuola l’inglese al tedesco come lingua d’insegnamento. C’è da dire che il comandante militare, il generale Carlo Petitti di Roreto, si oppone fieramente alle discriminazioni; che avranno invece via libera da quando Trieste smetterà di essere zona di occupazione militare e sarà ufficialmente annessa all’Italia, nel 1920. Vengono presi provvedimenti tesi a favorire la partenza dei tedeschi, vengono chiusi il quotidiano “Triester Zeitung” nonché chiese, scuole e istituzioni culturali. Nel consiglio di amministrazione della Camera di commercio i membri tedeschi, greci, e anche qualche italiano del posto, sono sostituiti con personale arrivato dall’Italia.

Secondo voci non verificabili, da Trieste nel 1919 partono 40 mila persone (tante quante ne arrivano), ma è impossibile capire dove si siano dirette, quanti fossero i tedeschi e quanti gli sloveni, i croati o i serbi. Un dato certo piccolo, ma significativo: su una classe di 40 ragazze del liceo femminile tedesco, ne resta a Trieste una sola. Negli anni Venti la comunità tedesca è ridotta a stento a mille unità.
Se ripulire la città dai tedeschi era relativamente semplice, ben diverse stanno le cose con la più numerosa comunità slava. La chiusura del liceo tedesco provoca anche un esodo di studenti sloveni e croati: almeno un terzo degli studenti erano di lingua slava perché a Trieste non esisteva un liceo sloveno, ma solo scuole tecniche.

Si colpiscono con l’internamento le personalità più in vista: sacerdoti (colonna di tutti i nazionalismi), insegnanti, professionisti; in tutto sono 500 persone, non moltissime, ma costituiscono un esempio e determinano un decisivo incentivo alla partenza per gli appartenenti al medesimo gruppo etnico.
Nel marzo del 1919 gli emigrati dalla Venezia Giulia – quindi non soltanto da Trieste – alla Jugoslavia assommano a 30-40 mila. Nella sola Lubiana un campo ospita 5 mila profughi provenienti dal Litorale.

Di pari passo con le espulsioni, procede l’italianizzazione del territorio: Roma manda nella Venezia Giulia 47 mila tra militari, poliziotti e agenti di custodia, 9 mila circa solo a Trieste. Tanto per fare un raffronto, Vienna teneva nella medesima area 25 mila persone in divisa, ma 17 mila erano in servizio a Pola, la principale base della Marina da guerra austroungarica. I 40 mila neo arrivati dall’Italia di cui si è parlato sopra, si sommano ai 47 mila militari. L’immigrazione economica si ferma negli anni Venti a causa della devastante crisi che colpisce Trieste: la città si ritrova a essere declassata da unico porto della parte austriaca dell’impero (l’Ungheria aveva come riferimento Fiume) a porto del tutto marginale del regno d’Italia.

Il fascismo, ovviamente, porterà al parossismo l’opera di italianizzazione: intere parti di Trieste saranno demolite e ricostruite in stile littorio, si procede alla snazionalizzazione dei toponimi (Opicina diventa Poggioreale del Carso, tanto per dirne una) e dei cognomi. Si calcola che tra il 1919 e il 1945 siano stati italianizzati circa mezzo milione di cognomi della Venezia Giulia, 100 mila dei quali a Trieste. Italianizzazione che avviene, ovviamente, all’italiana: se eri ricco e potente, nessuno ti toccava. Gli armatori Cosulich si tengono il loro bel cognome lussignano (anche se italianizzato nella grafia, altrimenti sarebbe Kozulić).

Le partenze di sloveni e croati etnici vengono incentivate dalle sistematiche violenze squadriste, culminate nell’incendio dell’hotel Balkan, sede delle istituzioni culturali slovene triestine, il 13 luglio 1920. Il censimento del 1921 fotografa nella Venezia Giulia una situazione radicalmente diversa rispetto a quella del 1911: gli slavi passano da 466.730 a 349.206, gli italiani da 354.908 a 467.308.

Con l’ascesa del fascismo la violenza si intensifica e si parla apertamente di «bonifica etnica», termine che rispecchia nella forma e nella sostanza la «pulizia etnica» di anni più recenti. E proprio quando si parla della pulizia etnica attuata da altri, non sarebbe male guardare anche a quel che è successo in casa propria.
 

Da www.linkiesta.it