L'ideale di sovranità declinato in uno scenario geopolitico in chiave post-westfalica

 

La cultura popolare della Russia storica si traduce in un possibile fattore di resistenza al Nuovo Ordine Mondiale.

 

La ristrutturazione capitalistica in chiave de-sovranizzante ed “anti-imperiale” (ossia, principalmente ostile a qualsiasi ipotesi di riaggregazione dello spazio ex-sovietico) del Nuovo Ordine Mondiale Neoliberista fondato sul primato dell'american way of life e del “mercato globale” della mercificazione assoluta, totalitaria e totalizzante, interpreta quale proprio nemico principale ogni forma di resistenza culturale, politica, economica, sociale e militare da interpretarsi come alternativa o comunque in contrasto con gli interessi e gli orientamenti di tale ordine.

La demonizzazione della resistenza è funzionale alla perpetuazione ed alla legittimazione dello status quo capitalistico ed omologante in ambito culturale. Ad Ovest come ad Est, le esperienze socio-politiche di contrapposizione o di controcanto all'estensione illimitata del “mercato globale” finanziarizzato, hanno trovato sulla propria via embarghi imposti dall'Occidente, guerre “umanitarie” targate Nato e strategie di sovversione politica messe in atto dai manutengoli locali delle “fondazioni americane per la promozione della democrazia all'estero” (Ned, Usaid, Freedom House, NDI, IRI, Otpor, Canvas ecc.).

I media aziendali al soldo delle corporations economico-finanziarie multinazionali occidentali sono parte integrante e non osservatori esterni, di tale strategia. E' sufficiente menzionare, a tal proposito, la costante campagna stampa di disinformazione tesa ad equiparare i governi progressisti e patriottici di alcuni Paesi dell'America Latina in cerca di emancipazione e riscatto sociale, dopo decenni di colonizzazione statunitense, diretta o per procura, ad una sorta di riproposizione, sebbene in tono minore, dei cosiddetti “totalitarismi gemelli”, fascista e comunista, novecenteschi, dove il nemico è indicato in qualsiasi forma di governo tesa a stabilire il primato della politica nei confronti del dogma finanziario neoliberista.

Naturalmente, l'antifascismo delle classi dirigenti speculatrici internazionali e del loro braccio armato, la Nato, è del tutto fittizio e strumentale, e quel che sta avvenendo in Ucraina a partire dal dicembre 2013 lo dimostra ampiamente, con uomini politici statunitensi (repubblicani e democratici) ed europei (di destra e di “sinistra”) recatisi personalmente ed a nome delle istituzioni, politiche e statuali, che rappresentavano, ad incitare alla sedizione una piazza egemonizzata da gruppi terroristici neo-nazisti, strumentalizzati da capi-popolo filo-americani ed ultraliberisti, come Anatoliy Hrytsenko, Vitalij Klitschko ed Oleh Tiahnybok, con i quali gli esponenti politici occidentali di cui sopra hanno intrattenuto colloqui e relazioni politiche di ogni tipo, in funzione anti-russa.

Le menzogne dei fautori del Nuovo Ordine Mondiale hanno, come si suol dire, le “gambe corte” e fragili, nonché vita breve, ma non vengono mai smascherate a tempo debito, quando i conflitti neo-coloniali che generano ed agevolano potrebbero essere, attraverso l'ausilio di un'informazione maggiormente corretta ed onesta, evitati.

Fintantoché il nemico è “in campo”, occorre mentire, spargere benzina sul fuoco, lavorare per incidere ed allargare, a scopo di precisi interessi politici delle classi dominanti occidentali, le fratture sociali, politiche, economiche e confessionali presenti in qualunque Stato od entità geopolitica che non sia l'immaginifico “paradiso liberaldemocratico” favolisticamente raccontato dai media mainstream al fine di suscitare consenso pubblico attorno alla strategia di “democratizzazione”, per via politica o militare (la cosiddetta “ingerenza umanitaria”) dei popoli, delle nazioni e degli Stati da ricondurre sotto l'orbita del potere ultracapitalistico e di mercificazione totale del “mercato globale unificato”.

Oggi, ad esempio, è sotto gli occhi di tutti che la guerra d'aggressione condotta dalla Nato contro la Libia nel febbraio-ottobre 2011 fu scatenata per motivi tutt'altro che “umanitari”, ma geopolitici ed economici ben definiti, allo scopo di scardinare un potenziale competitor statale delle compagnie petrolifere multinazionali anglo-franco-americane nel Nordafrica, ed eliminare un sostenitore, laico, dell'integrazione pan-africana e della solidarietà antimperialista dei popoli in lotta contro il dominio neo-coloniale occidentale. Persino la pubblicistica liberale facente riferimento al clero universitario italiano ha dovuto riconoscere, in sede di storicizzazione degli eventi, la realtà di quanto testé affermato.

Ecco cosa si trova scritto, a proposito della situazione libica pre-aggressione Nato, in un volume recentemente edito da una casa editrice italiana di ambito universitario, indubbiamente non tacciabile di condurre una linea ostile al Politicamente Corretto imperante:

 

Lo Stato di Gheddafi si era caratterizzato per essere riuscito a recuperare le ricchezze nazionali, avviare un processo di industrializzazione e sbloccare importanti risorse. Aveva inoltre costruito uno Stato sociale che forniva gratuitamente servizi alla popolazione, come la fornitura di elettricità ed acqua ad uso domestico. La benzina costava appena 10 centesimi di euro; le banche accordavano prestiti con tassi d'interesse molto bassi; i libici non pagavano praticamente tasse; l'imposta sul valore aggiunto non esisteva; il debito pubblico ammontava al 3,3 per cento del Pil nazionale […]. La Libia figurava come il Paese con il più basso tasso di analfabetismo del continente africano e del mondo arabo […]. Il sussidio di disoccupazione era di 730 euro mensili, più che in Francia […]. Gheddafi ha allo stesso tempo migliorato lo status sociale e giuridico delle donne, concedendo loro maggiori diritti […]. Infine, lo Stato sotto Gheddafi tutelava le altre confessioni religiose, tra cui i cattolici, che potevano tranquillamente praticare il loro culto, come confermato da monsignor Martinelli, vicario apostolico di Tripoli […]. Un quotidiano economico marocchino, «L'Economiste», nella sua edizione del 6 giugno 2012, ha scritto le seguenti parole: prima di cadere in rovina sotto i colpi dei bombardamenti intelligenti delle forze Nato, l'economia libica era in buona salute […]. Questa politica di modernizzazione autoritaria ha quindi migliorato le condizioni della maggior parte dei libici […]. La politica economica e sociale dello Stato libico all'epoca di Gheddafi è quindi profondamente differente dall'immagine fornitaci durante la guerra per la democrazia[1]

 

La Libia fu destabilizzata e militarmente distrutta dalla Nato proprio in quanto rappresentava una relativamente funzionante alternativa geopolitica al dominio del “mercato globale”, costantemente alla ricerca di nuove vie di espansione.   E' la stessa pubblicazione sopra menzionata a sostenere una tesi fino a qualche tempo fa appannaggio unicamente di giornalisti, intellettuali e “controinformatori” definiti tout court dalla stampa liberale e dal clero accademico altrettanto uniformato al Pensiero Unico Neo-Liberale e cosmopolita, «complottisti»:

 

[Per la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti] era quindi necessario scardinare quel regime [la Libia, nda]. Le potenze occidentali, che vedevano nel sostegno ai movimenti democratici [della cosiddetta “Primavera Araba”, nda] uno strumento di difesa dei propri interessi economici e geostrategici, non potevano più tollerare un potere autoritario di tale sorta. Per quanto concerne gli Stati Uniti, la guerra era percepita come l'unica soluzione per porre fine al regime di Gheddafi al fine di difendere gli interessi nazionali ed il progetto di ridefinizione del Maghreb, che aveva come scopo principale quello di assicurarsi una presenza nella regione. Secondo questa stessa logica, e considerando anche la posizione strategica dell'Algeria, possiamo formulare l'ipotesi che questo Paese rappresenterà il prossimo regime che le democrazie occidentali – gli Stati Uniti in particolare – tenteranno di scardinare[2].

 

Ex post, i liberali diventano “complottisti”, perché la verità storica non può che essere ricostruita secondo linee documentarie ed interpretative fondate sui fatti e non sulle opinioni dei sostenitori mediatici della cosiddetta «ingerenza umanitaria». Per la Siria il discorso non può che configurarsi come analogo.

Il paradigma pubblicitario della “rivoluzione democratica” della primavera 2011, “tradita” dal «mancato intervento pacificatore» (ossia, militare) dell'«Occidente democratico-liberale», cadrà com'è caduto il teorema mistificatorio, celebrato alla corte televisiva del maitre à penser “democratico” Gad Lerner, da una giornalista di Vanity Fair (Imma Vitelli), dei “giovani rivoluzionari” di Bengasi, animati sa sentimenti «molto liberal» (così disse la giornalista) di promozione individuale e di emancipazione politica. Già oggi sappiamo con certezza che non vi è stato, a Ghouta, alcun «attacco chimico» da parte dell'Esercito nell'agosto 2013[3], ed attendiamo che anche i media a larga tiratura si decidano a riportare la verità su di una manipolazione che avrebbe potuto condurre, in quanto fabbricata ad arte, all'ennesima “guerra umanitaria” dell'Occidente contro un “tiranno da abbattere” (ossia, contro un Paese sovrano, strategicamente alleato all'Iran, alla resistenza libanese ed alla Russia).

La strategia dei media di cui sopra, ovviamente, è quella di riportare la verità su quanto accaduto a Ghouta il 21 agosto 2013, una volta che la Siria sia stata completamente soggiogata agli scherani locali, targati Al Qaeda, dell'Occidente mondialista e dell'Arabia Saudita e sia divenuta un avamposto mediorientale per sferrare un attacco, per procura, mediante un esercito mercenario a guida qaedista e wahhabita, alla Federazione russa[4]. La Russia è infatti, con la Cina, l'obiettivo ultimo dell'espansione illimitata dell'Occidente e della Nato. Quel che sta accadendo in questi giorni in Ucraina lo testimonia alla perfezione. I piani geopolitici russi di riaggregazione di parte dello spazio ex-sovietico nell'Unione eurasiatica, per stessa dichiarazione dell'ex-segretario di Stato Usa Hillary Clinton, debbono essere ostacolati ad ogni costo e con ogni mezzo. Gli Usa impedirebbero allo stesso modo la realizzazione di un'unione europea autenticamente fondata sulla sovranità dei popoli costituenti, militarmente autonoma e strategicamente alleata alla nascente Unione eurasiatica (composta, allo stato attuale, da Federazione russa, Bielorussia, Kazakhstan ed Armenia).

La sinistra politica postmoderna (affascinata dall'elaborazione teorica di Toni Negri) o meglio, quel poco che ne resta in Italia, al 99 per cento culturalmente animata da un sentimentalismo libertario americanocentrico, definisce i sostenitori dell'alleanza europea con la Russia come «fascisti mascherati», preferendo, probabilmente, a tale prospettiva, la perpetuazione dello status quo euratlantico o fantasticando di improbabili “mondi arcobaleno”, sen'armi, senza Stati, senza nazioni, senza differenze di lingua, religione, genere e tradizione, dove a dettar legge sono le mode hippy declinate nell'odierno rampantismo yuppista e tecnologicamente gadgettizzato dei giovani della classe media moscovita in “lotta contro Putin”, tanto graditi ai rimasugli dell'alter-mondialismo postmoderno negrian-bertinottiano-rifondarolo. Non è stato forse, nell'agosto 2012, il post-bertinottiano segretario del morituro Prc, Paolo Ferrero, a firmare un appello, a nome del suo partito, a favore delle «compagne Pussy Riot»? Così, secondo la logica di questa “sinistra virtuale”, ormai politicamente “post” (nel senso di trapassata), coloro i quali si azzardano a difendere il diritto dei popoli ex-sovietici ad un percorso destinale comune, sarebbero «simpatizzanti dell'autoritarismo putiniano», mentre le contestatrici e provocatrici di servizio atlantico Pussy Riot, «compagne». La Storia non assolverà questi rottami di un sessantottismo utile esclusivamente alla causa culturale globalizzatrice e yankee, tesa alla promozione dell'ideologia individualistica dei consumi in ogni angolo del Pianeta.

E' proprio in nome di tale ideologia che oggi la Russia viene demonizzata nel momento in cui il Cremlino pone al centro del dibattito pubblico la valorizzazione della tradizione culturale e storica dell'impero quale elemento di mobilitazione politica teso a far emergere le contraddizioni di un Occidente in cui la cultura edonistica del divertimento e della promozione del proprio “io narcisistico”, di matrice indubbiamente post-moderna e post-sessantottesca, è servita e serve quale ideale forma mentis per la promozione di una “modernizzazione” capitalistica, in chiave speculativo-assoluta, caldeggiata dai settori tecnocratici della destra neoliberista quanto della sinistra liberal.

Le tradizioni basate sul primato del collettivo nei confronti dell'“io narcisistico”, od anche solo la “normalità borghese” di derivazione gaulliana, costituiscono infatti, potenzialmente, un ostacolo, un freno, all'espansione illimitata di un capitalismo predatorio di mercificazione totale. Laddove il progetto di un blocco geopolitico competitore dell'Occidente, denominato Unione eurasiatica, troverà forma, esso sarà declinato in funzione indubbiamente di superamento degli Stati-Nazione di derivazione westfalica, ma non nell'accezione auspicata dalle sinistre postmoderne e dalle destre tecnocratiche neoliberiste, ossia di sostituzione degli Stati con un mercato unificato basato sulla gestione capitalistica dei flussi di desideri, bensì in un'accezione assai più gradita alla sinistra “conservatrice” (Christopher Lasch) ed a una destra “tradizionalista” i cui valori di fondo sono signorili e non di acquisizione; un'accezione di recupero della sovranità geopolitica dei popoli ex-sovietici, caratterizzata non su linee e demarcazioni etnico-confessionali, ma plurinazionali, plurietniche e plurireligiose, dove il fattore di unificazione non potrà più essere il comunismo storico novecentesco, ma una comune volontà da parte dei detti popoli di sentirsi, nella salvaguardia ed anzi nella promozione delle rispettive tradizioni, parte di un impero eurasiatico inevitabilmente aperto anche agli Stati slavi dell'Europa centrorientale, Serbia in primis.

La religione ortodossa, la conciliazione nazionale tra “bianchi” e “rossi” ed il ripristino degli elementi di trasformazione sociale ancora attuali del socialismo nella gestione dell'economia dovranno costituire i riferimenti fondanti del fulcro comunitario slavo (focolare nazionale), attorno al quale dar vita ad un processo di riunificazione delle repubbliche, anche non-slave, un tempo facenti parte dell'Urss (in particolare delle repubbliche dell'Asia Centrale quali il Tagikistan ed il Kirghizistan). Non è forse stato il patriarca Kirill I, non certo un simpatizzante leninista, ad affermare di avere una certa qual nostalgia per l'epoca sovietica in cui i valori etici venivano declinati in senso anticapitalistico, lasciando pertanto più spazio, paradossalmente, alla dimensione spirituale del vivere quotidiano, rispetto alla mercificazione imposta dal capitalismo contemporaneo?

In Russia il Partito comunista, che a differenza dei micro-partiti della sinistra “radicale” italiana è un'organizzazione politica di massa, con 12 milioni e mezzo di elettori al seguito, è il primo sostenitore della necessità storica del ripristino delle tradizioni popolari della nazione in funzione di controcanto alla citata mercificazione ed all'omologazione culturale, ossia dell'americanizzazione di massa e della disarticolazione, su basi individualistiche, della società, dettata dai meccanismi di riproduzione globale del citato capitalismo contemporaneo.

Il presidente del Partito Comunista della Federazione russa (Kprf), Gennadij Zyuganov, ha affermato, sin dal 1994, che «l'impero è la dimensione naturale all'interno della quale doveva collocarsi la proiezione geopolitica del popolo russo». Naturalmente, l'impero tradizionalistico di cui parla Zyuganov non ha nulla a che spartire con l'imperialismo liberaldemocratico americano (o con l'imperialismo razzista del fascismo hitleriano, di cui rappresenta anzi l'opposto), le cui ambizioni sono di omologazione e mercificazione planetaria, di conquista globale di ogni spazio sottrattosi alla dominazione neoliberista. Zyuganov ha infatti affermato che i confini dell'impero non si sarebbero discostati da quelli un tempo riconosciuti, a livello internazionale, all'Urss.

Lo stesso Putin ha sostenuto, in questo distinguendosi dalle velleità egemoniche di Obama, che la Russia non ha alcuna intenzione di proporsi, a livello internazionale, quale «Paese leader», ossia intenzionato ad imporre a nazioni e popoli terzi, il proprio modello politico, culturale e sociale di riferimento.

La Russia, attraverso la costruzione di un blocco geopolitico (Unione eurasiatica) contraltare dell'Occidente capitalistico-speculativo, intende unicamente ritrovare un percorso di condivisione destinale con i popoli slavi fratelli (“piccoli russi” e “russi bianchi”) e alcune repubbliche un tempo facenti parte dell'Urss (Kazakhstan, Armenia, Tagikistan, Kirghizistan), decise liberamente e consapevolmente ad associarsi a tale blocco, valorizzando così il proprio potere negoziale sovrano, in ambito internazionale. L'Unione eurasiatica è un blocco geopolitico ed economico (Unione Doganale Eurasiatica), culturalmente sostenuto da un'ideologia volta alla promozione delle tradizioni storiche delle nazioni costituenti, teso a rafforzare la sovranità dei popoli e degli Stati che vi si assoceranno. Insomma, l'esatto opposto dell'attuale Unione europea. L'Unione eurasiatica ha radici che affondano in un passato non privo di contraddizioni ma comunque glorioso (a fronte di un presente costellato da emergenze sociali e politiche le più disparate, di non facile risoluzione), e una proiezione verso un futuro di emancipazione politica collettiva.

L'Unione europea è militarmente una colonia americana, economicamente una preda dei mercati di capitali finanziari privati internazionali, socialmente una terra di disoccupati, precari, indebitati e marginali a fronte di una ristretta ma influentissima minoranza di super-ricchi detentori della pressoché totalità delle risorse private nonché controllore e gestore di quelle pubbliche, culturalmente un immenso mercato individualistico e consumistico di mercificazione assoluta. L'Unione europea è un sistema totalitario non repressivo militarmente al proprio interno (finché le condizioni non lo richiederanno ed in Grecia lo hanno già richiesto), dove l'unica tradizione a non essere stata sacrificata sull'altare del libero mercato è stata quella al profitto speculativo individuale, i cui dirigenti politici, di destra conservatrice e di sinistra liberal e postmoderna, immaginano, per il futuro, un modello istituzionale copiato dalla Turchia, un modello socio-economico copiato dal Messico ed un modello culturale copiato dall'Olanda.

Fintantoché una visione stupidamente americanocentrica, imbevuta di Politicamente Corretto, “antiautoritaria” e non anticapitalistica, consumistica e narcisistica, continuerà a permeare la quasi totalità dei movimenti e delle organizzazioni politiche ed associative che, nei Paesi della Ue, dovrebbero opporsi alle logiche capitalistiche di de-sovranizzazione e de-emancipazione nazionale e sociale, non vi sarà alcuna svolta in positivo per i destini della stragrande maggioranza delle società (tra l'altro in larga parte culturalmente americanizzate) dei detti Paesi. E sarà, di conseguenza, inevitabile che milioni di elettori rivolgeranno le proprie attenzioni e simpatie ad interlocutori politici “altri”, più o meno congruamente avvertiti come “resistenti” dinnanzi al dominio tecnocratico neoliberista di Bruxelles e meno ostili, anzi interessati, almeno a parole, a gettare uno sguardo, finalmente non sospettoso o volgarmente censorio, ad Est invece che ad Ovest.

 

 

Paolo Borgognone, CIVG, dicembre 2013

 



[1]    M. Djaziri, Natura e sfide della transizione democratica in Libia, in M. Campanini, a cura di, Le rivolte arabe e l'Islam. La transizione incompiuta, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 79, 80, 81, 82 e 83.

[2]    Ivi, p. 86.

[3]    Cfr. G. Chiesa, Siria e armi chimiche, chi ha mentito chieda scusa, in «Megachip», http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=95565&typeb=0, 18 gennaio 2014. 

[4]    La verità su quanto accaduto a Timisoara, in Romania, nel dicembre 1989, fu effettivamente riportata dalla stampa mainstream a “giochi fatti”, ossia una volta destituiti ed ammazzati l'autocrate Nicoale Ceausescu e sua moglie Elena Petrescu, da parte di una giunta militar-“democratica” presieduta dalle seconde linee “rampanti” ed in cerca di auto-affermazione politica dell'Esercito e del Partito comunista rumeno. Nel dicembre 1989, prima del golpe che condusse agli esiti sopra descritti, nessun giornale o rete tv occidentale, in merito alla messinscena di Timisoara, scrisse od esclamò parole diverse da «genocidio» ordito dal «regime agonizzante» sotto i colpi di una (inesistente) «protesta di piazza». Per un resoconto dettagliato e veritiero sui fatti occorsi in Romania tra il 17 ed il 26 dicembre 1989, vedasi: V. Vasilescu, La trahison contre Ceausescu, in «Réseau International», http://reseauinternational.net/?s=stanculescu, 14 dicembre 2013.     

 

Il soldato ed il mercante. L'ideologia liberal-capitalista della pace mondiale.

 

"È lo spirito commerciale che non può coesistere con la guerra e che prima o poi si impadronisce d’ogni popolo. Poiché, di tutte le forze subordinate (come mezzi) al potere dello Stato, la forza del denaro sembra la più sicura, avviene che gli Stati si vedono costretti (non certo da motivi morali) a promuovere la nobile pace e, ovunque la guerra minacci di scoppiare nel mondo, a impedirla mediante compromessi, come se gli Stati fossero a tale scopo uniti in alleanze permanenti."

Kant, Per la pace perpetua

 

 

L'argomento che più frequentemente viene fatto valere dagli avversari della sovranità nazionale è che essa condurrebbe inevitabilmente alla guerra. Secondo l'ideologia dominante, un mondo di Stati sovrani non può essere un mondo pacifico, e lo dimostrerebbero gli innumerevoli conflitti che hanno funestato la modernità, ed in particolare le due guerra mondiali. La crisi della sovranità “classica”- causata dalla crescente interdipendenza economica delle diverse regioni del mondo (la cosiddetta “globalizzazione”) e dai processi di integrazione interstatali (particolarmente evidenti nel caso dell’Europa) - andrebbe quindi salutata con favore come l’inizio di un nuovo sistema di relazioni che sostituisca la vecchia politica di potenza con una nuova politica dell’etica e della “responsabilità”, più attenta ai bisogni delle minoranze e degli emarginati che ad obiettivi di tipo militare o geopolitico. Una simile “politica della responsabilità” trova un contenitore ideale non tanto nella formula dello Stato sovrano quanto nella compagine di organizzazioni non governative, organismi internazionali e reti umanitarie. Tesi simili potrebbero essere criticate con facilità. Ad esempio, si potrebbe fare notare che le guerre esistevano ben prima che nascesse il primo Stato modernamente inteso, oppure che la stessa dissoluzione della sovranità in realtà è dissoluzione della sovranità di alcuni Stati a vantaggio di altri, i quali invece mantengono intatte le loro prerogative ed il loro apparato coercitivo. Tuttavia in questa sede vorrei riflettere sulla “logica genetica” che presuppone questo discorso ideologico.

 

 

Ben lungi dall'essere solo il frutto dell'esperienza storica recente, questa logica affonda le radici nel cuore del pensiero dominante, che possiamo chiamare “liberale”. Prima di proseguire, occorre una avvertenza: l’aggettivo “liberale” non verrà usato in questa sede per designare una particolare corrente filosofica, scuola economica o fazione politica, quanto piuttosto un paradigma culturale, che nel corso degli ultimi due secoli ha conquistato l’egemonia in Occidente, unificando al proprio interno fenomeni e posizioni molto differenziate o addirittura opposte, almeno in apparenza. Questo paradigma nel corso della storia ha conosciuto profonde modificazioni, in particolare negli ultimi decenni (come dimostra la sua più recente mutazione, il neoliberalismo[1]); tuttavia credo che il suo nucleo fondante, la sua logica genetica, sia rimasto sostanzialmente costante.

Per capire in che cosa consista questo nucleo credo sia utile rifarsi alle tesi del sociologo francese Jean Michèa.  Secondo l’interpretazione di Michèa la matrice del pensiero liberale risale ai conflitti religiosi che ebbero luogo nell'Europa nel XVI-XVII secolo. Va ricordato che la caratteristica delle cosiddette guerre di religione non fu tanto la loro crudeltà (superata da molti conflitti precedenti e posteriori) quanto la loro natura “anti-sociale” di “guerra di tutti contro tutti”. Le società interessate dai conflitti religiosi (ricordiamo la Germania e l’Inghilterra) si lacerarono in una miriade di fazioni opposte, ognuna delle quali si legittimava richiamandosi ad un Bene superiore, più nello specifico al volere divino.

Il trauma delle guerre di religione portò i precursori del liberalismo a ritenere che qualsiasi idea di bene sovra-individuale, in quanto opinabile e relativa, fosse foriera di divisioni e quindi di conflitti violenti. E’ chiaro infatti che se un individuo o un gruppo di individui ritengono di essere i portatori dell’unica verità assoluta, probabilmente tenteranno di imporre le loro convinzioni al resto della società, anche con la violenza se necessario. In questo senso il paradigma liberale nasce dalla domanda: come è possibile assicurare la coesistenza tra gli individui e i gruppi senza implicare una qualsivoglia idea di bene o di valori condivisi? In contrasto con le concezioni religiose o filosofiche tradizionali, il liberalismo ha risposto elaborando un'antropologia puramente individualistica, secondo la quale l'unica condotta "naturale" per gli esseri umani sarebbe la preservazione dei propri interessi individuali attraverso un calcolo intelligente degli strumenti da impiegare. Così facendo il liberalismo ha delegittimato le pretese di chi invece individuava la corretta condotta individuale e collettiva nella conformazione alla “verità”, al “bene”, alla “giustizia” variamente intesi. Tuttavia a questo punto sorge una nuova domanda: dal momento che gli interessi individuali spesso entrano in contraddizione, come è possibile evitare il riemergere della guerra di tutti contro tutti? Per scongiurare questa eventualità il liberalismo ha individuato un luogo in cui può avvenire la pacifica composizione degli interessi individuali: non una (impossibile) comunità etico-politica, bensì il Mercato. Chiaramente non si tratta del un “luogo” fisico dove avviene lo scambio economico (sebbene nelle civiltà premoderne il significato della parola mercato fosse limitata a questa accezione), ma del luogo ideale dove avviene la riconciliazione degli egoismi individuali in base all’unica costante che accomuna tutti gli uomini, ovvero la propensione ad ottimizzare il proprio interesse, propensione che nel mercato si concretizza nello scambio di merci. Tuttavia nella letteratura liberale (antica e moderna) il Mercato non è una semplice istituzione intesa come costruzione storica, ma come una appendice della natura fisica, una sua estensione: in questo senso il liberalismo ha sancito una vera e propria naturalizzazione del sociale. Allo stesso modo della natura, il Mercato possederebbe delle leggi oggettive e necessarie, “neutre”, che non implicano giudizi di valore e che di conseguenza possono essere accettate da tutti.

A mio parere il modello liberale di società è magnificamente riassunto da un passo riportato da Voltaire nelle sue memorie. Il filosofo francese parlando della Borsa di Londra, da lui visitata durante la sua permanenza nell’Inghilterra degli albori del capitalismo, afferma:

“Entrate nella Borsa di Londra, un luogo più rispettabile di tante Corti: vi vedrete riuniti i deputati di tutte le nazioni per l’utilità degli uomini. Là l’ebreo, il musulmano e il cristiano negoziano come se fossero della stessa religione, e non danno l’appellativo di infedeli se non a coloro che fanno bancarotta; là il presbiteriano si fida dell’anabattista e l’anglicano accetta la cambiale dal quacchero. Uscendo da queste pacifiche e libere assemblee, gli uni si recano in sinagoga, gli altri vanno a bere; l’uno va a farsi battezzare in una grande tinozza nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, l’altro fa tagliare il prepuzio a suo figlio e borbottare sul bambino parole ebraiche che non comprende; altri vanno nella loro chiesa, col cappello in testa, ad aspettare l’ispirazione divina; e tutti sono contenti.”

Troviamo qui perfettamente espressa quella concezione della società come bazar che è stata elaborata in tempi recenti dal pensatore postmoderno americano Richard Rorty: gli individui, atomi individuali che non hanno di per sé nulla in comune, si riuniscono per scambiarsi merci e informazioni, dopodichè ognuno torna alla propria sfera privata ed alla propria legittima, quanto irrilevante, identità religiosa, verso la quale Voltaire fa valere un senso di benevolo disprezzo. Il potenziale conflittuale delle idee religiose (solo pochi decenni prima presbiteriani, anabattisti e anglicani si erano sterminati a vicenda) viene neutralizzato così dalla volontaria e necessaria sottomissione alle leggi dello scambio economico, che lascia sussistere le particolarità individuali e collettive l’una accanto all’altra, senza coinvolgerle in un progetto collettivo che non potrebbe fare a meno dell’idea sovra-individuale e arbitraria di giusto e sbagliato, di desiderabile e indesiderabile.

Il lettore si starà probabilmente chiedendo in che modo la lunga premessa sul paradigma liberale si collega al problema della sovranità e della guerra tra Stati. La risposta è semplice, ed è già contenuta delle righe precedenti. Il modello liberale di società non solo delegittima alla base l’idea stessa di appartenenza sovra-individuale, compresa quella nazionale, ma rende letteralmente in-significante lo stesso concetto di confine, di frontiera. Per lo spirito mercantile (oggi diremmo capitalista) la frontiera tra Stati è esclusivamente un ostacolo da superare in vista di una valorizzazione sempre più spinta, non un delimitatore di una comunità politica e storica (ovvero la nazione). Per il capitalismo le differenze nazionali sono altrettanto irrilevanti delle differenze religiose, e le osservazioni di Voltaire circa presbiteriani, anabattisti e anglicani potrebbero essere estese ai popoli tedesco, francese e inglese. Quanto alle guerre, esse nascono dai pregiudizi legati alle identità nazionali (che vanno così a recitare un ruolo simile alle appartenenze religiose), le quali fanno credere agli individui di essere legati da doveri ed obblighi (in primo luogo la disponibilità al sacrificio) ad una comunità che li trascende, oppure più “materialisticamente” alla difforme distribuzione delle risorse naturali e delle ricchezze. Il Mercato supera tutte e due le cause, rimuovendo l’idea stessa di identità comunitaria e ottimizzando la distribuzione dei beni, il tutto senza bisogno di appellarsi ad una qualsivoglia morale o perfino ad un progetto politico consapevole. In altre parole solo il Mercato, che non conosce nè frontiere nè pregiudizi religiosi o nazionali, può "vaccinare" la società umana tanto dalla guerra interna (tra individui) quanto da quella esterna (tra Stati).

 

 

La teoria liberale sembra essere stata confermata dalla storia del XX secolo, che è stato testimone di due conflitti mondiali in cui gli Stati nazionali ed il concetto di "patria" hanno giocato un ruolo fondamentale. La stessa Seconda guerra mondiale, normalmente interpretata come conflitto ideologico, è stata in gran parte una guerra nazionale classica; perfino la lotta tra nazionalsocialismo tedesco e comunismo sovietico fu vissuta da entrambe le parti come una questione intimamente nazionale, per la precisione di espansione nazionalistica (e razzistica) nel primo caso e di resistenza patriottica nel secondo (è noto che la storiografia sovietica ha utilizzato la dizione di “Grande guerra patriottica” riferita alla seconda guerra mondiale).

Per questo motivo a partire dal 1945 il progetto di pacificazione del mondo mediante l'economia ha conosciuto una netta accelerazione. Sono esemplificative di questa tendenza due grandi personalità del '900, cioè l'economista Friedrich August von Hayek ed il padre dell'Unione Europea Jean Monnet; entrambi ritennero che solo l'abolizione degli Stati nazionali avrebbe scongiurato il pericolo di nuove guerre globali, e che il motore del superamento della sovranità statale sarebbero stati i meccanismi economici.

Jean Monnet è una figura poco conosciuta che però ha recitato un ruolo di primissimo piano nelle vicende del Novecento. Oltre ad avere ricoperto importanti incarichi in diversi istituti finanziari, Monnet è stato un funzionario del governo francese ed inglese; tuttavia è passato alla storia per essere stato il più coerente sostenitore dell’integrazione europea, nonché il padre della Ceca, l’embrione dell’attuale UE. Diffidente verso la democrazia e sostenitore di un modello “tecnocratico”, Monnet fu un tenace avversario dello Stato nazionale. Durante la conferenza della resistenza francese ad Algeri nel 1943, Monnet affermò:

“Non vi sarà pace in Europa se gli Stati saranno ricostituiti sulla base della sovranità nazionale, con tutto ciò che segue in termini di politica di potenza e di protezionismo economico. (…)

E' inoltre importante che esse [le nazioni europee] non utilizzino una frazione considerevole delle loro risorse allo scopo di mantenere delle supposte industrie "chiave" per venire incontro alle esigenze della difesa nazionale, industrie che sono rese obbligatorie dall'attuale forma dello Stato, con la sua "sovranità nazionale" e le tendenze protezioniste, come quelle che abbiamo visto prima del 1939.”

Il passo illustra bene l’equazione tra sovranità, politiche di potenza, protezionismo e guerra. La soluzione prospettata da Monnet è ben nota, e la sua “impronta” è dominante ancora oggi. Se il protezionismo è alla base della guerra, l’apertura dei mercati nazionali renderà impossibile i conflitti violenti; se le politiche di potenza delle nazioni hanno devastato l’Europa, la creazione di organismi sovra-nazionali (o meglio a-nazionali), di tipo sostanzialmente tecnico e “neutrale”, garantirà la pace. Il carattere assiologicamente neutro di un simile progetto è sottolineato da Monnet nella sua corrispondenza privata e nelle sue memorie, dove ribadisce che l’integrazione europea debba avere l’obiettivo di unire non delle nazioni, ma degli individui, e che tale unione non può che fondarsi sulla base degli interessi dei soggetti in causa.

Ancora più interessante è l’analisi del pensiero di Hayek, uno dei più influenti economisti del Novecento, considerato a torto o a ragione il maestro della scuola neoliberale egemone nei paesi anglosassoni a partire dagli anni ’80.  Rigoroso sostenitore del liberoscambismo e del libero mercato, Hayek è autore nel 1939 di un saggio intitolato Le condizioni economiche del federalismo interstatale, dove caldeggia l’abolizione degli Stati nazionali in favore di un modello federale. Hayek prende le mosse proprio dal problema della guerra tra Stati:

“Uno dei difetti principali del liberalismo del diciannovesimo secolo è che i suoi sostenitori non realizzarono chiaramente che l'armonia tra gli interessi degli abitanti di diversi stati era possibile solo in un contesto di sicurezza internazionale.”

In altre parole, solo la pace mondiale può garantire quella realizzazione individuale che è lo scopo del progetto liberale.

In secondo luogo, Hayek tocca la questione del protezionismo e della politica di potenza nazionali quali cause delle guerre, andando però più in profondità di Monnet:

“Nell'attuale Stato nazionale le ideologie correnti rendono relativamente semplice convincere il resto della comunità che è nel suo interesse proteggere la "sua" industria dell'acciaio o la "sua" produzione di grano e così via. Un elemento di orgoglio nazionale verso la "loro" industria e considerazioni legate alla potenza nazionale in caso di guerra generalmente inducono le persone al sacrificio. La convinzione decisiva è che il sacrificio vada a vantaggio dei propri compatrioti, i cui interessi sono sentiti come vicini ai propri.”

Hayek riconosce che la dimensione nazionale non si riduce alla semplice esistenza di un apparato statale che esercita un potere territoriale, ma che comporta una sorta di “simpatia”, un sentimento di “sentire-con” che crea un legame psicologico tra gli appartenenti alla stessa nazione. In altre parole, Hayek riconosce l’esistenza della nazione come comunità, una comunità che si fonda su una storia comune e su costanti culturali e geografiche; chiaramente Hayek sottolinea l’incompatibilità di questa “simpatia” comunitaria con il liberalismo, che invece riconosce il primato della dimensione puramente individuale. Tuttavia non cade nell’errore commesso dai nazionalisti (coloro che hanno una concezione mitologica della nazione) e dai cosmopoliti, e riconosce che la comunità nazionale non è un blocco compatto, essendo solcata da conflitti tra gruppi sociali:

“Frontiere economiche di questo tipo [ovvero legate all'esistenza di Stati nazionali sovrani, nota mia] creano comunità di interesse su base regionale, di carattere più profondo: esse fanno sì che tutti i conflitti di interesse tendano a diventare conflitti tra gli stessi gruppi di persone, invece di essere conflitti tra gruppi con una composizione variabile, e di conseguenza si avranno conflitti permanenti tra individui che appartengono ad uno stesso Stato, invece che tra individui diversi, che si trovano una volta ad essere schierati a fianco un gruppo di persone contro un altro, la volta successiva a fianco del secondo gruppo contro il primo in merito ad una diversa questione.”

L’espressione corretta, che Hayek non usa forse per prevenzione ideologica, è “lotta di classe”. Nella dimensione nazionale la lotta di classe assume un carattere più definito, meglio delineato e più determinante. Non si può non pensare ad un fondamentale quanto negletto passo del Manifesto del partito comunista, che recita:

“La lotta del proletariato contro la borghesia è in un primo tempo lotta nazionale, anche se non sostanzialmente, certo formalmente. E` naturale che il proletariato di ciascun paese debba anzitutto sbrigarsela con la propria borghesia.”

Al contrario, in uno spazio sovranazionale unificato solo dai flussi mercantili, la lotta di classe sarà più confusa, incorporerà troppe variabili e si segmenterà in un insieme eterogeneo e mutevole di singole rivendicazioni. In questo modo il superamento della sovranità nazionale garantirà anche la pace sociale (ovviamente “pace” nel senso liberale del termine). Dopo aver dimostrato che solo con il superamento della nazione il modello liberale può inverarsi appieno, Hayek si domanda come verranno gestite le prerogative normalmente affinate allo Stato:

“Vista la differenza degli stili di vita, delle tradizioni e dell'educazione che esisterebbe in una simile federazione, certamente sarebbe impossibile raggiungere un consenso democratico intorno ai problemi centrali [della pianificazione economica]. (...) Il risultato è che in una federazione i poteri economici che ora sono generalmente gestiti dagli Stati nazionali non sarebbero esercitati né dalla federazione né dai singoli Stati.”

In altre parole, le prerogative economiche dello Stato sarebbero semplicemente demandate al Mercato. Hayek ci sta dicendo che la democrazia è incompatibile con il pieno dispiegamento del liberalismo economico, e che essa è legata proprio alla comunità nazionale, al di fuori della quale l’eccessiva eterogeneità culturale impedisce la costruzione di un consenso popolare.

 

 

E’ senza dubbio curioso che queste tesi siano state portate avanti da un economista usualmente ritenuto “di destra” e non dalle forze politiche eredi del socialismo e del comunismo, forze che al contrario oggi appaiono in prevalenza ancorate ai più retrivi pregiudizi cosmopoliti.

Il paradosso può essere spiegato ricorrendo al concetto di “paradigma liberale”. Spesso il liberalismo è considerato sinonimo di conservatorismo e quindi di “destra”. Questo giudizio è stato smentito dallo stesso Hayek, che nel saggio Perché non sono un conservatore respinse recisamente una simile etichetta. I conservatori - argomentava l’economista austriaco – sono coloro che vorrebbero il liberalismo economico mantenendo però i “valori tradizionali” quali la famiglia, la religione e la nazione. Al contrario un liberale autentico (e tale si considerava Hayek) non può che deprecare il “protezionismo dei valori” tanto quanto quello economico.

 La sinistra occidentale rappresenta un esempio speculare: essa vorrebbe l’emancipazione dai pregiudizi religiosi, sessuali e culturali, rifiutando però (anche se sempre meno spesso) il liberalismo economico. Tuttavia la sinistra occidentale riferisce la parola “pregiudizio” non solo al razzismo, all’omofobia e allo sciovinismo (che come tali vanno effettivamente condannati), ma in generale a qualsiasi appartenenza sovra-individuale: ogni identità collettiva, perfino quella biologica della differenza di genere sessuale, deve essere respinta in quanto rappresenta una “discriminazione” semi-religiosa, qualcosa di puramente opinabile che va relegato alla sfera privata e lasciato all’arbitrio dei singoli. Il punto è capire che liberalismo economico e liberalismo dei costumi sono due facce della stessa medaglia, sono due determinazioni dello stesso paradigma culturale, il quale postula un individuo-atomo che regola i rapporti (improntanti alla competizione) con i propri simili sulla base dello scambio mercantile e del diritto astratto. Questa semplice verità è stata colta alla perfezione dallo scrittore francese Michel Houellebecq, che nel romanzo Estensione del dominio della lotta sostiene attraverso la voce narrante:

“Il liberalismo economico è l’estensione del dominio della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi sociali. Ugualmente, il liberalismo sessuale [e più in generale dei costumi, nota mia] è l’estensione del dominio della lotta a tutte le età della vita e a tutte le classi sociali.”

L’unificazione della cultura di destra e di sinistra ad opera dello stesso paradigma spiega l’esistenza di una “estrema sinistra liberale”, anti-capitalista a parole ma in realtà dedita prevalentemente a battaglie “di costume”, che nella migliore delle ipotesi sono innocue per lo status quo e nella peggiore lo rafforzano, eliminando qualsiasi istanza politica o culturale esterna al Mercato. Le modalità con le quali è storicamente maturata una tale “convergenza degli opposti” non possono essere affrontate in questa sede, ma dovrebbero essere oggetto di riflessione per chiunque si ponga in un’ottica realmente antagonistica rispetto al sistema politico ed economico dominante.

 

 

Nonostante l'egemonia del pensiero liberale di destra e di sinistra, possiamo dire che esso non ha realizzato la promessa della pace mondiale, e che la dissoluzione delle sovranità abbia provocato più conflitti di quanti non ne abbia prevenuti. Il fallimento della promessa liberal-capitalista di un mondo pacificato dall'economia apre nuove prospettive per chi intende riscoprire l'intreccio tra sovranità, identità nazionale e liberazione sociale. Per mantenere vitale questo intreccio, la questione nazionale non dovrà essere impostata in modo da fare con la nazione quello che il liberalismo fa con il Mercato, ovvero “naturalizzarla” e trasformarla in un ente intrascendibile. Questo punto è fondamentale, visto che effettivamente la nazione è stato utilizzato per legittimare le mire imperialistiche delle grandi potenze e per occultare l’esistenza delle classi sociali con ipocriti richiami all’“unità nazionale”. Al contrario, la nazione è una costruzione storica, la sua genesi non è stata uniforme in tutto il mondo e non ha mancato di creare profonde contraddizioni (comprese quelle di classe). La nazione andrà considerata piuttosto come la cornice di senso all’interno della quale coltivare pratiche di lotta sociale e di resistenza alle strategie dell’imperialismo. La stessa democrazia, se non vuole rimanere un semplice contenitore di individui-atomi, non potrà ignorare la simpatia che le è associata, il “sentire-con” che è indispensabile per qualsiasi progetto di trasformazione collettiva. In quest’ottica, la valorizzazione della particolarità nazionale non è per nulla incompatibile con l’universalismo dell’emancipazione umana, anzi ne rappresenta il fondamento necessario, senza il quale l’universalismo si pietrifica in una dimensione astratta. Quello che può suonare come un paradosso non è altro che la giusta concezione dell’inter-nazionalismo, così come lo hanno storicamente inteso i movimenti rivoluzionari del Novecento, da Cuba alla Cina al Vietnam. Per questi motivi ritengo che anche oggi, all’indomani del tramonto della tradizione anti-coloniale e anti-imperialista novecentesca, la sintesi tra liberazione nazionale e liberazione sociale rimanga l’orizzonte privilegiato della critica e della prassi trasformativa.

 

 

 

Per approfondire:

 

Michèa Jean Claude, L'impero del male minore. Saggio sulla civiltà liberale. Libri Scheiwiller, 2008.

 

Hayek Friedrich August, The Economic Conditions of Interstate Federalism. In: Individualism and Economic Order, The University of Chicago Press, 1948, p. 255-282. Da www.mises.org

 

Monnet Jean, Jean Monnet's thought on the future (Algiers, 5 August 1943). Da www.cvce.eu

http://www.youtube.com/watch?v=xwCOGG918N4 (intervista a Michèa, sottotitoli in italiano)

 

Alain de Benoist: Michèa, basta con la sinistra. Avanti col socialismo! http://ideeinoltre.blogspot.it/2014/01/alain-de-benoist-michea-basta-con-la.html

 



[1] Per le differenze tra liberalismo classico e neoliberalismo si veda il volume di Giovanni Leghissa Neoliberalismo, 2012 Mimesis. In sintesi, Leghissa individua la discontinuità in tre punti:

a)       Il liberalismo classico, pur relegando alla sfera privata i valori ed in generale tutti gli elementi non riconducibili alla dimensione del calcolo economico, sosteneva la loro legittimità e la loro necessità per il funzionamento della società e la felicità individuale. Al contrario il neoliberalismo estende la logica del calcolo utilitario anche alla sfera privata.

b)       Il liberalismo classico era scettico circa la possibilità di conoscere le leggi del Mercato, il neoliberalismo invece ne postula la completa trasparenza.

c)       Il neoliberalismo sostiene un ruolo attivo dello Stato nell’estensione della logica del mercato a tutti gli ambiti della società.  In questo senso quindi esso si fonda su una simbiosi tra sfera politica e sfera economica, che invece nel liberalismo classico erano distinte.

 

L’euro come metodo di governo. Il ciclo di Frenkel, le ragioni degli squilibri dell’eurozona e la mezzogiornificazione delle periferie europee

 

1. Nella produzione di un ordine del discorso dominante, le notizie vengono selezionate, accorpate, differenziate: alcuni casi di cronaca vengono messi in risalto, altri lasciati in ombra o taciuti. Tutto si muove all’interno di una dinamica che sta a noi comprendere e districare, per non farci travolgere da un’ingiusta lettura del presente.

C'è oggi nel mondo un discorso dominante, o che piuttosto si avvia a diventare dominante, relativo all’attuale crisi. Nella sostanza esso sostiene che l’odierna condizione di precarietà economica che caratterizza il continente europeo dipenda dai debiti pubblici, dalla loro quantità troppo elevata, dall'eccessivo rapporto fra debito e Pil.

Il problema viene presentato come “crisi dei debiti sovrani”, in particolare di alcuni membri (i cosiddetti PIIGS) ordinariamente descritti come incapaci di controllare l'eccesso di spesa pubblica e la conseguente spirale debitoria; questo dato spaventerebbe gli investitori, determinando una diminuzione della fiducia del mercato azionario che – per questo motivo – comincerebbe a richiedere interessi sempre più alti.

Per "tranquillizzare i mercati" occorrerebbero dunque drastiche scelte che migliorino il bilancio pubblico: aumento delle tasse e riduzione delle uscite (ergo tagli alla spesa sociale), privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici, e una riforma del mercato del lavoro che introduca maggiore flessibilità, diminuzione delle tutele sindacali, facilità di licenziamento, in modo da favorire la riduzione del rischio d'impresa e l'aumento della produttività.

La forza di questi ragionamenti sta nel senso di mortificazione che stimolano negli individui, e nello sfondo di “naturalezza” che danno a qualsiasi avvenimento negativo. In questo breve testo cercheremo di gettare luce su alcuni meccanismi del discorso dominante, nel tentativo di proporre un cambio di prospettiva.

 

2. Occorre innanzitutto mettere a fuoco cosa accade quando si riuniscono Paesi diversi in una unione monetaria. Questo tipo di analisi è stata egregiamente svolta da Roberto Frenkel e Martin Rapetti, due economisti argentini che hanno preso in esame vari episodi di crisi economico-finanziaria (dal Cile della fine degli anni ‘70, alla crisi asiatiche della seconda parte degli anni ‘90, sino alla crisi Argentina dell'inizio degli anni 2000), e ne hanno estratto uno schema comune.

Sostanzialmente la vicenda ha due protagonisti: un paese sviluppato (il “centro”), con una forte base finanziaria e industriale, e un paese, o un gruppo di paesi, relativamente arretrato (la “periferia”).

Il centro “suggerisce” alla periferia la liberalizzazione dei movimenti di capitale e l’adozione di un tasso di cambio fisso. In tal modo ottiene due vantaggi: in periferia i tassi di interesse sono più alti che in patria[1], e il centro può prestarle i propri capitali (i movimenti di capitali sono stati infatti liberalizzati) lucrando la differenza senza patire rischio di cambio (il cambio è fisso); inoltre, drogando coi propri capitali la crescita dei redditi della periferia, il centro si assicura un mercato di sbocco per i propri beni.

Le economie periferiche perdono competitività rispetto a quelle del Centro, e questo si traduce in un peggioramento della bilancia commerciale: nella competizione con i paesi più forti, che presentano inflazione più bassa, gli Stati periferici vedono ridursi le esportazioni e aumentare le importazioni.

La periferia si gonfia così come una bolla: l’accesso al credito facile fa salire l’inflazione, e se all’inizio ci si rivolgeva all’estero essenzialmente per comprare beni di lusso, col tempo i prodotti esteri diventano competitivi anche sulle fasce più basse, il deficit commerciale si approfondisce, e occorrono nuovi capitali esteri per finanziarlo. Questo fa sì che l'economia, nonostante la crescita, diventi più fragile.

A un certo punto per un motivo X (ad esempio lo scoppio di una recessione) il centro comincia a dubitare della capacità della periferia di rimborsarlo: esige il pagamento di interessi più alti a copertura del rischio, lo spread decolla, e i paesi periferici vedono le proprie economie crollare e precipitare verso una spirale distruttiva da cui faticano sempre più a uscire[2].

 

3. All'interno di un’unione monetaria ci sono infatti degli elementi che impediscono il normale riequilibrio delle situazioni di crisi.

Facciamo un esempio pratico, per chiarire: immaginiamo che Italia e Germania abbiano le loro monete nazionali, e che in un dato momento il cambio lira-marco sia uno a uno (un marco per una lira). Immaginiamo poi che, pian piano, la Germania accresca la sua competitività e quindi le sue merci vengano richieste maggiormente. Assieme alle merci verranno richiesti anche i marchi per pagarle, e quindi aumenterà anche la domanda di moneta tedesca. La valuta è infatti una merce, e in quanto tale è sottoposta alla legge della domanda e dell'offerta: attraversi tale meccanismo si determinerà dunque un aggiustamento del cambio, cioè un apprezzamento del marco e/o una svalutazione della lira.

Ora vediamo cosa accade all'interno dell'euro. Italia e Germania hanno la stessa moneta, e quindi il cambio è sempre uno a uno (un euro per un euro). Nonostante i divari di inflazione e di competitività, il cambio resta fisso, anche quando, in realtà, la moneta italiana dovrebbe perdere valore rispetto a quella tedesca. Se il rapporto di cambio corretto, dati gli sbilanci commerciali, sarebbe due a uno (due lire per un marco), allora restare nell'euro (mantenendo un rapporto di cambio uno a uno) significa frenare l'apprezzamento del marco, e mantenere la divisa tedesca al di sotto del valore che dovrebbe avere, aumentandone la competitività[3]. Questa – come vedremo – è la logica del “regime di accumulazione” sulla quale si basa l'UE.

 

4. Il discorso dell’attuale crisi – dominante nei media come nell’accademia – sembrerebbe suggerire la tesi secondo cui il successo della Germania sia essenzialmente dovuto alla sua “capacità di innovare”, che le permetterebbe di vincere la “sfida della globalizzazione”.

I dati tuttavia raccontano una storia diversa. Dal 1999 al 2007 la Germania ha avuto un deficit crescente verso i paesi emergenti e in particolare nei confronti dei BRIC (quello verso la Cina è ad esempio aumentato di circa 20 miliardi di dollari), mentre i 239 miliardi di aumento del surplus tedesco da inizio secolo sono spiegati per due terzi dagli scambi con i paesi europei[4].

L'innovazione c'entra ben poco: queste dinamiche sono spiegate dalla competitività di prezzo. E la dinamica favorevole dei prezzi in Germania è dovuta soprattutto al fatto che – negli ultimi dieci anni – gli aumenti di produttività non sono finiti nelle tasche dei lavoratori. In sostanza il segreto della “locomotiva tedesca” è una politica di moderazione/deflazione salariale, per cui a produttività crescente corrispondono salari reali calanti[5].

Non è dunque un problema di paesi “virtuosi” contro paesi "”cattivi”, come i tutori dell’ordine simbolico cercano ideologicamente di contrabbandare. La Germania ha infatti realizzato politiche del lavoro che hanno tenuto relativamente bassa la propria inflazione[6], e grazie a ciò è riuscita a impedire l'aumento dei propri prezzi, aumentando tuttavia a dismisura i problemi dei partner più deboli.

La Germania ha pertanto immensamente squilibrato l’eurozona con la sua politica di depressione della domanda interna[7]. Di qui discende la necessità di una politica di compressione salariale in tutti i PIIGS: se non si copia quello che ha fatto la Germania, si continuano ad accumulare deficit commerciali, finanziati con afflussi di capitali (cioè con debiti), e si tratta di una situazione chiaramente insostenibile[8].

 

5.Ha però senso accettare tali sacrifici? La nostra risposta è un secco NO.

Una politica d'austerità e moderazione salariale generalizzata a tutta l'Europa farebbe cadere l'intero continente nella stagnazione, a causa dell'indebolimento della domanda. Se tutti paesi dell’eurozona adottassero le stesse politiche depressive, chi potrebbe infatti comprare le loro merci[9]?

L'austerità non appare più dunque come un passaggio necessario per superare la crisi, ma si palesa come un meccanismo mirato a scaricare i costi della crisi sui soggetti deboli, siano essi i ceti popolari europei (che si vedono privati di diritti conquistati decenni addietro e che mano a mano si avvezzano alla nuova realtà di impoverimento diffuso) o i “capitalismi deboli” dei PIIGS. L’indebolimento causato dalle politiche di austerità potrà infatti rivelarsi la premessa per una politica di acquisizioni da parte dei soggetti forti del continente.

Si è a proposito parlato di vera e propria «Mezzogiornificazione» europea[10]. Secondo questa ipotesi i PIIGS sono destinati a diventare zone depresse, così come avvenne paradigmaticamente al sud Italia nel corso del XIX e XX secolo: le leve di comando del capitale si concentreranno sempre più nelle aree centrali dell'unione, le periferie saranno colpite da fenomeni di desertificazione produttiva e migrazione di massa e le loro economie si conserveranno esclusivamente in funzione degli interessi e dei fini dei paesi forti del Nord.

 

6. Queste osservazioni permettono di rispondere a una possibile obiezione: si potrebbe infatti pensare che la Germania – con l’imposizione delle sopracitate politiche di austerità – stia segando il ramo sul quale è seduta, poiché in tal modo starebbe inevitabilmente restringendo la capacità di assorbimento delle merci alemanne da parte dei propri mercati di sbocco.

È tuttavia ragionevole ritenere che essa abbia intrapreso questo percorso proprio perché tali politiche di austerità renderanno sempre più facile la conquista economica dell'euro-periferia da parte dei paesi centrali. Queste dinamiche, certamente ben note ai ceti dirigenti tedeschi, probabilmente rappresentano uno degli elementi su cui essi contano: la possibilità di investire acquisendo imprese locali a costi di saldo potendo operare con lavoratori privati di tutele e diritti, al fine di ridurre l'intera periferia del continente a una specie di “Cina dell'Europa”.

 

7.1 Cerchiamo ora di sintetizzare. Come si è visto, l'Ue è stata creata per imporre la massima apertura degli Stati alla libera circolazione di merci e capitali e per impedire ogni intervento statale che ostacoli la concorrenza e protegga le economie interne. È la decisione di aprire l'economia alla libera circolazione di merci, servizi e capitali che determina la necessità di regimi a cambi fissi, o ancor meglio di unioni monetarie. Senza di essi gli investimenti internazionali a medio-lungo termine sarebbero stati scoraggiati dal rischio di cambio[11], fattore assai limitante e inviso ai propugnatori del principio ideologico della “libera circolazione”.

 

7.2 L'unione europea non è che una realtà giuridica nata da circa un paio di decenni grazie all'adesione di alcuni Stati a determinati trattati internazionali. Sono questi documenti specifici (dal trattato di Maastricht – il cui spirito costitutivo e costituzionale è chiaro: meno Stato, ergo più mercato – al recentissimo Fiscal Compact) a definire cosa è l'Ue.

Le politiche antipopolari, neoliberiste e iper-capitalistiche sono pertanto iscritte nei trattati stessi che definiscono l'Unione europea. Questi aspetti non sono linee di politica economica scelte da una maggioranza politica, che possono quindi cambiare in base al diverso colore politico dei governi.

Essi sono il fondamento stesso dei trattati che definiscono l'Ue, ne permeano ogni pagina, e rappresentano l'intima essenza dell'Unione, delle sue istituzioni, della sua ragion d'essere. Decidendo di entrare a far parte della Ue (o di non uscirne), è alla teoria politico-economica liberista che si aderisce.

Non c'è infatti nessuna possibilità all'interno del suo quadro istituzionale – interamente intriso dell'ideologia liberista – di realizzare politiche di segno diverso[12].

 

7.3 L'offerta di prestiti da parte di banche desiderose di collocare eccedenze finanziarie (risultato come visto dei surplus commerciali drogati dall'euro) ha indiscutibilmente favorito la “domanda” delle merci del centro. Banche che – consapevoli dell’esistenza di un rischio di insolvenza – hanno comunque indotto i cittadini e le imprese dei PIIGS a indebitarsi.

 Non sono stati dunque i cittadini greci, spagnoli o portoghesi a vivere al di sopra dei propri mezzi. Sono state le banche tedesche a farlo. Non sono stati i cittadini greci, spagnoli, portoghesi o italiani a pensare che qualcuno avrebbe pagato per loro: sono state le banche tedesche a sapere che qualcuno avrebbe comunque pagato per loro.

 

7.4 L'euro ha creato le condizioni di un afflusso di capitali che ha portato ad un forte indebitamento privato. Il fattore causale della crisi non è dunque la politica fiscale dello Stato, ma il peggioramento dei rapporti economici con l'estero[13]. Le misure di austerità non risolveranno pertanto nulla, dato che non determinano nessun miglioramento rispetto ai problemi strutturali dell'eurozona.

 

8. La nostra tesi è che l'uscita dall'euro sia condizione necessaria per impostare politiche economiche di giustizia sociale e sostenibilità ecologica.

Non intendiamo tuttavia asserire che essa sia condizione sufficiente: non vogliamo cioè sostenere che l'uscita dall'euro comporti, di per sé, una maggiore giustizia sociale o l'inversione delle tendenze distruttive che il capitalismo sta mostrando.

Sosteniamo però che tali problemi sono impossibili da risolvere, ed anzi sono certamente destinati ad aggravarsi di continuo, se si rimane nell'euro[14].

 



[1] «Nella periferia normalmente i tassi di interesse sono più alti e questo per un dato fisiologico dell’economia, perché un’economia che è un po’ più arretrata, se vogliamo, offre delle importanti opportunità di investimento. Insomma, se in un’economia ci sono le autostrade, tutti i porti, tutte le strutture, le fabbriche, eccetera, e in un’altra ancora non ci sono, è chiaro che il capitale si dirigerà verso dove ancora non ci sono perché lì sarà più produttivo. Questo è un po’ la situazione così come te la racconterebbe un economista di estrema ortodossia» [A. Bagnai, Ce lo chiede l’Europa. Intervista a Alberto Bagnai a cura di Claudio Messora, http://www.byoblu.com/post/2012/07/06/alberto-bagnai-ce-lo-chiede-leuropa.aspx].

[3] «Da tutto ciò si evince che è la struttura dell'euro a rappresentare, essa sì, una svalutazione competitiva: la svalutazione competitiva della Germania contro i paesi più deboli di lei, contro i PIIGS e la Francia. […] la nostra proposta non è finalizzata a rilanciare le svalutazioni competitive, bensì a difendere il nostro paese dalla svalutazione competitiva operata dalla Germania grazie all'euro» [M.Badiale, F.Tringali, La trappola dell'euro. La crisi, le cause, le conseguenze, la via d'uscita, Asterios,Trieste 2012, p. 106].

[5] In una cornice di coordinamento e collaborazione tra i paesi europei, la maggiore domanda a favore dei beni e del lavoro dell'industria tedesca avrebbe dovuto condurre a corrispondenti aumenti salariali. Questi si sarebbero trasferiti agli altri comparti che non hanno sperimentato rialzi di efficienza, determinando un'accelerazione delle dinamiche inflazionistiche rispetto a quelle dei partner: il rialzo delle retribuzioni, arrivato dal settore beneficiario del boom di produttività, sarebbe stato il motore del riequilibrio complessivo. Le cose, in Germania, sono andate in senso esattamente opposto. Il salario industriale, lungi dall'aumentare con la produttività, è bensì sceso: del 14,5 per cento in rapporto al valore del prodotto medio del lavoro tra il 2002 e il 2007. cfr. http://archivio.lavoce.info/articoli/-europa/pagina1001966.html; http://goofynomics.blogspot.it/2012/08/i-salari-reali-alamanni-sono-scesi-del-6.html.

[6] Sul rapporto tra moneta, inflazione e conflitto sull’attribuzione delle risorse cfr. http://www.youtube.com/watch?v=hhwtFGuvmvs

[7] Il punto decisivo non è il livello dei prezzi e dei salari, ma la loro variazione. I costi unitari della manodopera (ossia i salari rettificati in base alla produttività) sono aumentati del 35% nell'Europa meridionale, contro un aumento del 9% in Germania. Il nucleo si è alimentato così a spese della periferia, causandone il dissesto finanziario, e accumulando crediti esteri per oltre 1000 miliardi di dollari dal 1999 al 2009. Il problema di fondo del eurozona è pertanto quello della competizione interna, con la Germania e i paesi forti del Nord che accumulano surplus commerciali nei confronti di quelli del sud. Cfr. http://www.voxeu.org/article/should-we-believe-german-labour-market-miracle ; http://orizzonte48.blogspot.it/2012/12/per-chinon-guardasse-solo-google-e.html .

[8] La teoria delle aree valutari ottimali insegna che per evitare problemi, l'abbandono della flessibilità del cambio deve essere compensato introducendo altre flessibilità, come una maggiore mobilità dei fattori di produzione, una maggiore flessibilità dei salari e una maggiore diversificazione produttiva (che aiuta a superare difficoltà specifiche in un determinato settore). Occorre inoltre che i tassi di inflazione fra i paesi membri convergano, e se questo non si riesce ad ottenere diviene necessario progettare istituzioni per ovviare “a valle” a tali squilibri. Questo obiettivo si può raggiungere innanzitutto apportando un sistema di trasferimento di risorse dalle zone in espansione a quelle in recessione (integrazione fiscale) e inducendo a politiche espansive chi accumulato risorse tramite surplus, affinché agisca da locomotiva per il resto dell’unione (il cosiddetto coordinamento delle politiche fiscali). Non si può infatti essere in surplus se nessuno in deficit, e ai tagli nei paesi in deficit deve accompagnarsi un'espansione della domanda nei paesi in surplus. Su questi temi e sulla proposta avanzata da E. Brancaccio riguardo uno “standard retributivo europeo” per ridurre lo sbilanciamento tra paesi in surplus e paesi in deficit commerciale si veda http://csdle.lex.unict.it/archive/uploads/up_680855042.pdf

[9] Una Europa "germanizzata" non potrebbe generare al proprio interno la domanda a sostegno della produzione, mentre – almeno nel medio termine – non ci si può aspettare che tale domanda provenga dall'esterno.

[10] Cfr. E. Brancaccio e M. Passarella, L'austerità è di destra. E sta distruggendo l'Europa, Il Saggiatore, Milano 2012, pp. 89 ss.; http://www.emilianobrancaccio.it/2012/11/30/dalla-crisi-della-moneta-unica-alla-critica-del-liberoscambismo-europeo-brevi-note-sulla-mmt/

[12] «L'Ue è l'unione degli Stati europei definita dai trattati di Maastricht e di Lisbona, di cui il "fiscal compact" del 2012 è la naturale evoluzione. Chi vi aderisce accetta quella "Europa". Pensare di aderire ad essa e contemporaneamente chiederne il rivolgimento sarebbe come aderire ad un'associazione di tiro con l'arco e poi chiedere di buttare via archi e frecce per dedicarsi agli scacchi. È ovvia l'insensatezza. Chi desidera giocare a scacchi farà bene a entrare in una associazione di scacchisti» [M.Badiale, F.Tringali, La trappola dell'euro, cit., p. 111].

[13] «Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 la crisi avrebbe colpito prima la Grecia (debito al 110% del Pil), e poi l'Italia (106%), Belgio (89%), Francia (67%) e Germania (66%). Gli altri paesi dell'eurozona avevano debiti pubblici inferiori. Ma la crisi è esplosa prima in Irlanda (debito pubblico al 44% del Pil), Spagna (40%), Portogallo (65%), e solo dopo Grecia e Italia. Cosa accomuna questi paesi? Non il debito pubblico (minimo nei primi paesi colpiti, altissimo negli ultimi), ma l'inflazione» e l’indebitamento privato [cfr. http://goofynomics.blogspot.it/2011/11/luscita-delleuro-redux-la-realpolitik.html].

[14] «L'approccio "neo-mercantilista" tedesco sfrutta la moneta unica e la maggiore competitività delle proprie industrie per rubare quote di mercato agli altri paesi, non è così diverso dalla politica inglese dell'ottocento, che sfruttando la superiorità della propria produzione meccanizzata, si faceva alfiere del libero scambio (che permetteva alle sue merci di arrivare dappertutto) e del "gold standard" (che assicurava stabilità ai cambi) perché in quelle condizioni essi rappresentavano dei vantaggi per l'industria inglese. Ma il predominio dell'industria inglese rendeva difficile lo sviluppo industriale di paesi ad essa legati. In questo modo il predominio economico britannico durante l'ottocento ha contribuito alla creazione di ciò che più tardi si è chiamato "Terzo Mondo".  Non è un caso che gli Stati Uniti abbiano adottato, per tutto o quasi l'ottocento, politiche di tipo protezionistico, proprio per proteggere la propria nascente industria dalla concorrenza inglese. Gli storici dell'economia hanno coniato, per la politica inglese ottocentesca nei confronti dei paesi sotto la propria influenza, ma non controllati politicamente in modo diretto, l'espressione "imperialismo del libero scambio» [M.Badiale, F.Tringali, La trappola dell'euro, cit., p. 53].

 

Verso la NATO economica Il trattato di libero scambio USA-UE (TAFTA)

 

Nei primi di Luglio 2013 sono iniziate ufficialmente le trattative diplomatiche per la costituzione della cosiddetta TAFTA (Trans-Atlantic Free Trade Area), le quali in linea teorica dovrebbero concludersi entro un paio d’anni, così da istituire la più grande area economica del mondo.

Apparentemente potrebbe sembrare che si tratti di tratti di un progetto di ideazione recente, coincidente con la pronuncia del discorso del febbraio scorso di Barack Obama, in cui in riferimento all'Unione Europea, manifestava la necessità di "forgiare un'alleanza economica forte come le nostre alleanze diplomatiche e di sicurezza''.
De facto non è così. Henry Kissinger, già nel maggio 1995 scrisse che “le condizioni sono propizie” per “la creazione di una North Atlantic Free Trade Area” in grado di sostenere globalmente il principio del libero scambio e che, “nel medesimo tempo, favorirebbe la cooperazione” tra Stati Uniti ed Europa.
In dicembre, pochi mesi più tardi, il Presidente americano Bill Clinton e quello della Commissione Europea Jacque Santer reputarono saggio osservare il consiglio di Kissinger e adottarono  la New Transatlantic Agenda, memorandum che tra i suoi cardini auspicava proprio la creazione di una New Transatlantic Marketplace, la quale avrebbe esteso “le opportunità di commercio e di investimento e moltiplicato i posti di lavoro su entrambe le sponde dell’Atlantico”. Non ancora un’area di libero scambio compiuta, ma si iniziarono a porre le basi per l'avvio di un processo di integrazione.
L'iter riprese nel 1998 con la sottoscrizione dell’accordo per l’avvio della Transatlantic Economic Partnership (TEP). La particolare congiuntura internazionale, caratterizzata da una forte diffidenza da parte dell'opionione pubblica (soprattutto americana) e l'impegno statunitense nell'utilizzare il WTO come strumento di promozione degli interessi economici occidentali, portarono a un congelamento del programma, nonostante l'istituzione nell’aprile 2007 a Washington del Transatlantic Economic Council (TEC), volto a “rafforzare gli scambi e gli investimenti e la capacità di entrambe le economie di innovare e competere sui mercati”.
L'insorgere delle crisi globale, unito al progressivo emergere nello scacchiere internazionale di nuove potenze concorrenti, ha imposto agli USA una vera e propria riformulazione della loro dottrina stragica. La globalizzazione, se nella sua prima fase dispiegatasi conseguentemente al crollo dell'URSS è apparsa come occidentalocentrica, con estrema rapidità ha poi favorito la crescita dei paesi emergenti, Cina in testa, attraverso un meccanismo di traino delle esportazioni che presuppone un regime di bassi salari all’interno, un’elevata domanda di importazioni da parte dei paesi avanzati e che richiede una politica di controllo dei cambi volta ad impedirne una sistematica rivalutazione rispetto al Dollaro. Il PIL nominale dei BRIC è arrivato a contare circa 21.000 miliardi di dollari, mentre quello dei G7 poco più di 30.000. Calcolando il tasso di crescita del PIL delle due compagini, si evince facilmente che, se il tasso di crescita dovesse rimanere invariato, nel giro di 6/7 anni il PIL di Brasile, Russia, India e Cina raggiungerebbe e poi supererebbe il PIL delle 7 attuali “potenze mondiali”.
A mettere in discussione il dominio unipolare statunitense più che essere la nuova capacità militare di molti paesi, è l'instaurarsi di importanti relazioni economiche fra i paesi tradizionalmente complementari alla catena di dominio imperialista e le nuove economie in ascesa. Basti pensare per esempio ai volumi di scambio fra Germania e Russia, i quali hanno ormai superato i 46 miliardi di euro. I rapporti economici, infatti, quando superano un certo livello e toccano certi settori strategici, diventano il volano per più strette relazioni politiche.
La struttura militare NATO, non basta quindi più a mantenere saldamente cesellato il dominio di Washington sul vecchio continente, visto oltretutto il rischio che l'unione monetaria si frantumi sotto il peso delle sue contraddizioni. A tal proposito l'instaurazione effettiva di un'area di libero scambio imperniata su principi iperliberisti come la TAFTA, risulterebbe particolarmente congeniale agli interessi atlantici assolvendo a un duplice scopo: favorire l'economia statunitense in crisi a scapito di quella europea già fortemente provata (gli esisti della concorrenza fra grandi gruppi multinazionali e piccole medie imprese avrà ovviamente esiti devastanti) e legare indissolubilmente il mercato europeo con quello nordamericano, arrivando a una piena sovrapposizione di interessi politici, militari ed economici.



Bibliografia:

www.bloglobal.net/2013/07/ttip-tafta-stati-uniti-ed-europa-alla-prova-dellarea-di-libero-scambio-transatlantica.html
www.eurasia-rivista.org/ttip-e-tpp-strumenti-di-dominio-statunitense/19977/

www.eurasia-rivista.org/un-nuovo-patto-atlantico/18553/
www.globalresearch.ca/the-us-eu-transatlantic-free-trade-agreement-tafta-big-business-corporate-power-grab/5352885
http://polemos-war.blogspot.it/2013/11/laccordo-relativo-al-mercato.html
www.statopotenza.eu/5949/tafta-una-nato-economica-contro-leurasia

 

 

La dipendenza italiana dal dopoguerra a oggi

 

Le radici della dipendenza italiana vanno ricercate nell’ultima fase della Seconda Guerra Mondiale, quando con lo sbarco alleato in Sicilia vennero poste le premesse per la futura collocazione geopolitica del nostro paese, nell’ambito dello scenario determinato dalla Guerra Fredda.
Negli anni che seguirono la fine del conflitto gli Stati Uniti si assicurarono il controllo sul campo occidentale sia attraverso l’adesione dei paesi “alleati” (in realtà subalterni) alla NATO e al Piano Marshall –la cui necessità, contrariamente a quanto sostenuto dalla vulgata comune, fu indotta dagli stessi USA–, sia attraverso la pesante ingerenza sulle vicende politiche interne dei singoli stati, perseguita grazie all’opera della CIA e dei servizi segreti locali.

 

Il Piano Marshall

L’interpretazione ormai consolidata propagandata dagli ambienti filo-atlantici descrive il Piano Marshall come frutto della generosità dell’alleato americano e come lo strumento indispensabile per dare il via al boom economico che i paesi dell’Europa Occidentale conobbero nel dopoguerra.
La realtà si rivela però assai diversa, a cominciare dalla genesi. Diversi studiosi hanno mostrato come tra il 1945 e il 1947 paesi quali Francia, Gran Bretagna, Belgio e la stessa Italia diedero avvio a un intenso programma di ripresa industriale. A tale programma si affiancò una politica di sicurezza fondata su trattati difensivi classici, come il Trattato franco-britannico di Dunkerque (1947), mirante al controllo di una eventuale rinascita di una politica aggressiva da parte della Germania Ovest. La ripresa della produzione fu talmente soddisfacente che diversi paesi europei prevedevano addirittura di riuscire a rimborsare i propri debiti di guerra contratti con gli Stati Uniti. Nel 1947 una crisi finanziaria li mise però in ginocchio: gli USA manovrarono per alzare drammaticamente i prezzi dei propri prodotti, facendo in modo che i paesi europei si trovassero improvvisamente alle prese con una grave mancanza di dollari, per poi proporre loro la soluzione.[1]
Il 5 giugno 1947 il Segretario di Stato americano George Marshall annunciò dall’Università di Harvard la decisione degli USA di elaborare e varare quello che sarebbe passato alla storia come il Piano Marshall. Molteplici le finalità del piano, a cominciare da quella di permettere la ricostruzione del capitalismo occidentale, favorendo al contempo l’integrazione politica ed economica dell’Europa occidentale (ovviamente in funzione degli interessi statunitensi), e sancendo così la fine della cooperazione antifascista con i partiti di ispirazione comunista.

Non è azzardato affermare che fu proprio il Piano Marshall a costituire un momento fondamentale dell’avvio della Guerra Fredda, dal momento che analoghe iniziative nel campo sovietico furono di natura strettamente reattiva rispetto a quanto accadeva nel blocco occidentale. Nel settembre dello stesso anno, nella cittadina polacca di Szklarska Poręba venne costituito il Cominform. Nei documenti preparatori alla Conferenza di Costituzione del nuovo organismo (datati agosto 1947), il Segretario del Comitato Centrale del PCUS Andrej Zdanov illustrò le linee ispiratrici del Cominform, ovvero la necessità di transnazionalizzare la difesa dell’URSS e quella di mobilitare le organizzazioni democratiche contro il Piano Marshall. Non è azzardato quindi affermare che il  Cominform costituì una risposta tutto sommato debole ai più ambiziosi programmi occidentali: non offriva aiuti economici, ma si incentrava sulla pura e semplice contrapposizione ideologica e politica. 

Tale debolezza trova un riscontro nell’atteggiamento del PCI in seguito alla svolta di Salerno: già nell’agosto 1945 Togliatti si dichiarò scettico sulla pianificazione economica, ovvero sulla possibilità di dare vita a una forma di socialismo, in un paese occidentale. Si trattava più realisticamente di puntare a un compromesso col modello capitalistico, una sorta di democrazia progressiva. Non sfugge la natura squisitamente tattica di queste affermazioni, ma allo stesso tempo è evidente che questa sostanziale accettazione del quadro capitalista non può non aver giocato un ruolo determinante nel favorire l’involuzione politica del PCI nei decenni successivi, i cui nefasti effetti sono quanto mai di attualità.

A caratterizzare la condizione di tutti i paesi satelliti nel sistema bipolare che andava delineandosi vi era pertanto il problema della doppia lealtà, che investiva tutti i partiti. Non si trattava di ambiguità o di sotterfugi, bensì del fatto che l’interesse nazionale non era più da considerarsi come un assoluto, ma doveva essere perseguito (da un democristiano così come da un comunista) in relazione all’interesse del campo di appartenenza. Nel caso specifico italiano, per la DC la doppia lealtà significava mediare tra le aspirazioni italiane e quelle dell’area capitalistica, ovvero gli interessi geo-strategici degli Stati Uniti. In questo senso vanno lette le misure, alcune delle quali anche socialmente avanzate, che caratterizzarono l’azione politica democristiana nel dopoguerra e che avevano come scopo la nazionalizzazione della classe operaia e dei braccianti attraverso “l’integrazione negativa”, ovvero isolando politicamente i partiti e movimenti che li rappresentavano ed erodendone in questo modo il consenso. In linea quindi con le necessità strategiche fissate a Washington, occorreva scongiurare il rischio che in Europa Occidentale il modello socialista potesse diventare troppo attrattivo, e a tal fine si rendeva necessario coniugare il capitalismo con misure sociali progressiste e concedere limitati spazi di autonomia alle classi dirigenti (ovviamente fedeli all’alleato americano) dei paesi interessati. A tale proposito, va rilevato che un peso determinante nelle scelte degli Stati satelliti derivava non tanto dalle imposizioni degli Stati Uniti quanto dai diversi orientamenti delle stesse classi dirigenti in relazione alla gestione della dipendenza e di quei limitati spazi di autonomia che Washington concedeva. Al loro interno infatti potevano coesistere sensibilità più stataliste o più liberiste, più o meno attente all’interesse nazionale, sia pure in quadro capitalista e da una posizione assolutamente subalterna e dipendente in ambito geo-politico.

È importante ricordare che in occasione delle Conferenze di Teheran e Mosca il compito di promuovere e gestire la ricostruzione dell’Europa Occidentale era stato assunto dalla Gran Bretagna, ma ben presto fu chiaro che Londra non sarebbe stata in grado di sostenere l’onere economico che una tale operazione avrebbe comportato. Quando gli USA lo capirono, si fecero trovare pronti nel sostituire gli inglesi, utilizzando così la ricostruzione come veicolo per legare gli Stati dell’Europa Occidentale al proprio sistema di potere, facendo leva sulla dipendenza economica per intensificare quella politica, con una speciale attenzione all’aspetto militare.

La volontà di risollevare le sorti economiche e finanziarie dei paesi subalterni aveva infatti come finalità quella di liberare risorse per le politiche di riarmo, che fino ad allora erano gravate solo sulle spalle americane. Non a caso dopo il 1951 l’ERP (European Recovery Program, il nome ufficiale di quello che è conosciuto universalmente come Piano Marshall) cessò di esistere e gli aiuti divennero esclusivamente di tipo militare.

L’enfatizzare la minaccia comunista molto pragmaticamente serviva anche a depotenziare la minaccia fascista, dal momento che si creava un obiettivo in comune e in questo modo si apriva la strada all’integrazione di elementi della fascisteria (ex-membri della polizia politica, ecc) nella NATO e nelle strutture più o meno segrete ad essa collegate (Gladio, Anello), coinvolte in azioni di “guerra sporca”, infiltrazione politica, ecc.

Con una Direttiva Presidenziale il 4 aprile 1951 veniva istituito il Psychological Strategy Board (PSB), un organismo composto da direttore della CIA, Vicesegretario della Difesa e Sottosegretario di Stato. L’obiettivo era definire le linee guida e le modalità di conduzione della lotta ideologica al comunismo. Italia e Francia vennero individuate come terreni di elezione della sua attività e l’Italia in particolare fungerà da laboratorio.

 

I contenuti dell’ERP

Con la Conferenza di Washington  il Dipartimento di Stato americano scopriva le carte e rivelò che il Governo avrebbe erogato agli Stati interessati gli aiuti promessi da Marshall in misura e qualità inferiore rispetto alle speranze europee e solo a condizione che i paesi sottoscrivessero dei pesanti trattati bilaterali in cui si ribadissero in modo stringente gli obblighi già elencati da Clayton in occasione della Conferenza di Parigi (luglio-settembre 1947), ma rimasti sino allora nel vago. 

Nell’ottobre del 1947 il Dipartimento di Stato USA dichiarò che il Congresso era disponibile a erogare solo aiuti in merci, per di più quasi esclusivamente surplus (invenduto e di qualità inferiore). Man mano che se ne chiarivano i termini gli aiuti apparvero sempre più inadeguati ai bisogni dei paesi europei. La strategia USA consisteva infatti nel guidare la ricostruzione occidentale verso una espansione della produzione ma senza lasciare grandi margini di autonomia ai paesi assistiti. Imponendo le merci, gli americani avrebbero influenzato i prezzi e distorto i canali commerciali dei paesi assistiti. Tra gli esempi in tal senso relativi all’Italia si possono citare l’obbligo di acquistare grano -che avrebbe comportato (e comportò) un aumento del prezzo al consumo dello stesso, con la conseguente generazione di una spirale inflattiva- o l’obbligo di acquistare il carbone, in virtù del quale lo Stato non era  più in grado di utilizzare risorse per finanziare i progetti volti al conseguimento di una produzione energetica indipendente. Risulta evidente cosa ciò abbia significato in termini di dipendenza e assenza di sovranità nella sfera economica. Ormai trascinati nella Guerra Fredda, i paesi dell’Europa occidentale si trovarono a essere implicitamente ricattati dal Dipartimento di Stato americano che, sfruttando la loro dipendenza dal dollar-gap, reclamava un’apertura immediata delle frontiere, l’eliminazione dei cartelli, regole di libero mercato e controlli sull’uso degli aiuti.

Una delle finalità del Piano Marshall consisteva nell’obbligare i paesi coinvolti a entrare nel circuito del Fondo Monetario e della Banca Mondiale. Ciò allo scopo di legarli in maniera sempre più stringente ai meccanismi del sistema capitalista a egemonia statunitense. 

Uno strumento fondamentale di tale progetto era rappresentato dai fondi di contropartita in valuta locale sotto controllo statunitense, i quali costituivano la chiave di volta del tentativo americano di controllo sulle finanze e sul mercato europeo in vista dell’attuazione degli impegni di Bretton Woods. Si trattava di un conto presso la Banca Centrale USA, dove avrebbero dovuto essere depositati fondi in valuta locale pari al valore in dollari delle merci che gli usa avrebbero regalato.
Chiedendo di depositare tale somma automaticamente, prima o comunque a prescindere dalla loro vendita sul mercato, il Dipartimento di Stato mirava a eliminare la rete di doppi prezzi e sovvenzioni in vigore in tutti i paesi europei, soprattutto per i generi di prima necessità come grano e carbone, che influivano sul livello generale dei prezzi. Clayton e le altre teste d’uovo dell’amministrazione Truman si proponevano di porre i fondi di contropartita sotto il diretto controllo del Dipartimento di Stato, ed influenzare così direttamente gli investimenti e la politica finanziaria del paese assistito. In questo modo gli americani avrebbero trattato l’OEEC (Organisation for European Economic Cooperation) come un’area economica integrata, orientandola verso la stabilizzazione finanziaria e un’ideale divisione del lavoro.
Alcuni di questi propositi rimasero solo sulla carta, dovendo fare i conti con resistenze e differenti strategie in merito, sia nell’amministrazione USA che tra le classi dirigenti dei paesi alleati. Il Piano Marshall più che un vero piano era infatti un progetto, teso ad elaborare una politica estera che coagulasse visioni diverse dell’interesse statunitense. L’esistenza di contraddizioni e ripensamenti non solo non deve stupire ma non deve essere rimossa dall’analisi storica a causa di una lettura a senso unico e astratta degli interessi americani, in merito ai quali coesistevano invece differenti letture e posizioni.

Per poco tempo, l’unico paese che assunse posizioni critiche e si fece portatore delle istanze in difesa della sovranità (anche degli altri Stati) fu la Gran Bretagna, nel frattempo passata a un governo laburista, la quale arrivò addirittura a che minacciare di uscire dall’ERP. Gli Stati Uniti furono però abili a mostrarsi flessibili di fronte a queste resistenze, permettendo che i vari paesi si relazionassero in modo diverso tra loro, sulla base delle rispettive aspirazioni ed esigenze di politica interna.

I sei punti della bozza Piano Marshall (quelli validi per tutti i paesi) erano i seguenti:

- consultazioni  obbligatorie con il FMI, col diritto degli USA a proporre variazioni dei tassi di cambio, il che avrebbe significato potere imporre svalutazione ai paesi europei;

- politiche economiche più coordinate

- abolizione di pratiche restrittive e introduzione del libero commercio, con l’estensione della clausola della nazione più favorita ai paesi occupati da truppe statunitensi (Corea, Giappone Germania)

- abolizione delle discriminazioni contro le esportazioni di materiali strategici

- garanzie a favore degli investimenti esteri

- creazione di un fondo di contropartita da impiegare per la stabilizzazione finanziaria o per gli investimenti, in accordo tra il paese assistito e gli USA

Si trattava di misure che nei fatti costituivano una evidente limitazione della sovranità e dell’indipendenza dei paesi interessati, e che pertanto non da tutti potevano essere facilmente “digeriti”. Per questa ragione nei trattati formulati tra maggio e giugno ‘48 non furono ufficializzati ma vennero riformulati con una maggiore ambiguità interpretativa, rinviando così le autentiche decisioni ai successivi negoziati bilaterali tra le amministrazioni.

I paesi, come già detto, si relazionano in modo diverso: la Gran Bretagna ad esempio mantenne la possibilità di continuare le politiche imperniate i deficit del bilancio e rifiutò la clausola della nazione più favorita in quanto occupata; l’Italia al contrario preferì sfruttare fino in fondo la dipendenza dagli USA, in quanto si riteneva che una corresponsabilizzazione degli americani nella ricostruzione avrebbe significato una maggiore stabilità per il governo anticomunista di De Gasperi.

Non sarebbe stato più possibile parlare di un interesse nazionale separato da quello dell’area di appartenenza. Una volta accettata la supremazia americana, i governi europei dovevano cercare  di influenzarne i processi decisionali per poterli indirizzare a proprio vantaggio. La funzione preminente della classe dirigente di ciascun paese diventava da un lato quella di rappresentare la propria nazione all’interno del melting-pot statunitense e degli organismi internazionali, dall’altro di rendere compatibili con i bisogni nazionali i nuovi e più pressanti vincoli di stabilizzazione capitalista imposti dal centro. Nonostante questi obblighi, restava comunque decisiva l’interpretazione che ciascuna classe dirigente avrebbe dato della sua funzione. Sebbene le scelte fossero talvolta obbligate, i modi di attuazione delle politiche comuni all’area capitalista ricadevano quindi nella piena responsabilità dei governi. È pertanto a questo livello che va giudicata la responsabilità di ciascun governo, sin dalle manovre di stabilizzazione effettuate per ottemperare agli impegni assunti a Washington.

Alla base dei trattati bilaterali (articolo 1 comma 1) si faceva discretamente riferimento alla legge americana del 3 aprile 1948 (Foreign Assistance Act), vincolando così indirettamente i firmatari dell’ERP agli obblighi che il Congresso aveva imposto per l’erogazione degli aiuti.
Si trattava di quattro principi, apparentemente generici, ma di fatto vincolanti nel senso di un’economia capitalista: un grande sforzo produttivo, l’espansione commercio estero, la creazione e il mantenimento della stabilità finanziaria interna e lo sviluppo della cooperazione economica.

Questi principi erano seguiti dalla seguente espressione: “incluse tutte le misure possibili per mantenere equi assi di cambio ed eliminare progressivamente le barriere commerciali”.
L’articolo 2 comma 1 dei trattati bilaterali prevedeva inoltre che il governo del paese firmatario avrebbe adottato “tutte le misure necessarie per assicurare che le merci e i servizi ottenuti con l’assistenza fornita ai sensi di quest’Accordo vengano usati per scopi che siano in armonia con il presente accordo”. Per lo Stato italiano l’obbligo era quello di adottare misure volte a prevenire intralci alla concorrenza nel commercio internazionale.

L’invio delle merci seguiva un complesso iter. Una volta che queste venivano assegnate vi era l’obbligo per il paese assistito di pagarle, sebbene ne avesse beneficiato soltanto in un secondo tempo. C’era inoltre una sensibile disparità tra le allocations (proposta di aiuti) e quanto veniva effettivamente stanziato (shipments). Chi si rifà alla propaganda fa riferimento alle allocations, tuttavia le shipments totali ammontavano a 10, 4 miliardi di dollari nel giugno del 1951, per arrivare 11,4 miliardi di dollari nel giugno del 1952, quando ci furono gli ultimi invii. Anche considerando tutti gli aiuti militari la cifra totale non supererebbe i 22,4 miliardi.[2]

Va sottolineato che nel ’47 e nel 48  l’ERP non risultò essere l’aiuto più consistente in Italia, essendo superato da IA (Interim Aid) e UNRRA .

I costi e i benefici dell’ERP variarono sensibilmente: alla fine del ’48 il ricavo lordo per il governo italiano non arrivò a un decimo del valore ufficiale degli aiuti, mentre alla fine del giugno ’49 raggiunse la metà. Il massimo ricavo, il 90%, venne raggiunto nel 1950 per poi ridiscendere a circa il 70% dei fondi ufficiali alla fine del 1951. Così, a causa della differenza tra prezzi statunitensi e prezzi italiani, l’Italia co-finanziò i fondi di contropartita ufficiali in media per quasi un terzo del totale.[3]

 

L’integrazione europea come dipendenza

Il processo di integrazione europea, che prende avvio ufficialmente con la fondazione della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), va inserita anch’essa nel contesto storico e geo-politico del dopoguerra, rivelandosi così come un tassello fondamentale di quell’operazione volta a legare in modo indissolubile gli Stati europei agli USA, attraverso rapporti di natura neo-coloniale in tutti gli ambiti: politico, economico, culturale, militare. Prendiamo appunto la fondazione della CECA negli anni Cinquanta. Salutato come un accordo teso a superare divisioni e contenziosi in Europa, in realtà nacque sotto supervisione USA al fine della produzione di armamenti destinati alla NATO. Carbone ed acciaio, infatti, erano e tuttora sono materie prime indispensabili per la produzione bellica. In nome della “pace” e della “sicurezza” del Continente si operò quindi sotto traccia, in direzione di una stretta dipendenza dai centri politici statunitensi.

È pertanto da smentire con forza l’idea secondo cui l’Unione Europea costituirebbe almeno potenzialmente la conditio sine qua non per la creazione di un polo geo-politico autonomo e alternativo agli Stati Uniti. Ripercorrendo la storia dell’integrazione europea, risulta evidente chel’avanzamentodei processi unitari procede di pari passo con l’intensificarsi del legame nei confronti di Washington. I freni e i parziali ripensamenti che, tra la seconda metà degli anni Sessanta e gli anni Settanta, arrivarono da Oltreoceano rispetto all’integrazione furono di carattere meramente contingente e non mutarono nella sostanza le finalità del processo, né tantomeno lo rimisero in discussione. In tal senso va considerata l’uscita della Francia di De Gaulle dal Comando integrato NATO (non dalla NATO tout court, come spesso si crede, dal momento che il paese d’Oltralpe rimase nel Patto Atlantico a tutti gli effetti) nel 1966. Il fatto che i francesi avessero dato vita a una propria forza di deterrenza atomica, sia pure limitata, provocò certo il malumore di Washington, ma non bisogna dimenticare che questa era rivolta comunque contro l’URSS, a dimostrazione che l’intendimento di De Gaulle era quello di ritagliarsi una posizione di partner privilegiato degli USA, ma sempre nell’ambito del blocco occidentale, non certo di rimettere in discussione la collocazione della Francia nell’area atlantica. Analogamente, la Ostpolitik di Willy Brandt suscitò qualche preoccupazione negli USA, ma è evidente che mai la Germania pensò di riorientare la propria politica estera in ottica pro-sovietica. Lo stesso asse franco-tedesco, il cui fondamento risale al Trattato dell’Eliseo del 1963, funzionò a dovere quando entrambi i paesi si trovavano in perfetta sintonia con Washington, e difatti la dottrina tedesca in materia di sicurezza si basava (e si basa) sul doppio pilastro tedesco-statunitense e franco-tedesco[4].
Lo storico e giornalista Joshua Paul, attualmente collaboratore del U.S. Army Force Development Directorate, ha mostrato, grazie a documenti declassificati dell’Amministrazione USA, come l’integrazione europea sia stata di fatto una creatura del Dipartimento di Stato USA e della CIA. Al fine di promuovere infatti “l’ideale europeo”, gli Stati Uniti si avvalsero dell’ACUE (American Committee for United Europe), creato nel 1948, un anno dopo il varo del Piano Marshall e un anno prima di quello della NATO. Dell’ACUE facevano parte politici, giuristi, banchieri e sindacalisti, ma il nerbo centrale era costituito da uomini dei servizi segreti, come il primo presidente William Donovan (a capo dell’OSS durante la Seconda Guerra Mondiale, l’organizzazione precorritricedella CIA), Allen Dulles (direttore della CIA dal 1953 al 1961), Walter Bedell (primo direttore della CIA), Paul Hoffmann (ex ufficiale dell’OSS, capo dell’amministrazione del Piano Marshall e presidente della Fondazione Ford).

Significativo il fatto che fu proprio Donovan, con un memorandum del 26 luglio 1950, a dare istruzioni per una campagna a favore del Parlamento Europeo, ma lo è ancora di più una comunicazione del Dipartimento di Stato USA datata 11 giugno 1965 e inviata al vice presidente della Comunità Economica Europea (CEE), Robert Marjolin, con la quale si invitava a portare avanti in segreto il progetto dell’unione monetaria: non se ne sarebbe dovuto parlare fino a che l’adozione di proposte del genere non fosse divenuta praticamente inevitabile. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è stata la nascita dell’euro, considerato dagli USA uno strumento di dominio sulle economie degli Stati europei, essendo più semplice controllare un’unica valuta emessa da una Banca Centrale svincolata da esigenze politiche, anziché una pluralità di valute sovrane ed istituti di emissione soggetti al controllo politico dei governi dei singoli Stati.

L’ACUE fu il principale finanziatore del Movimento Europeo, una piattaforma di organizzazioni europeiste creata formalmente dopo il congresso dell'Aia del 7-11 maggio 1948. Già in quell’occasione veniva delineato l’obiettivo del processo di integrazione, ovvero l’Unione Europea politica ed economica, caratterizzata da liberalizzazione dei movimenti di capitale, unificazione valutaria e coordinamento delle politiche di bilancio e del credito. Se le prime due tappe sono già state raggiunte per mezzo dell’euro e, prima ancora, dei vari trattati europei che a partire dagli anni Ottanta hanno smantellato il controllo politico da parte degli Stati sui propri sistemi finanziari, non sfugge agli sguardi più attenti che la centralizzazione delle politiche di bilancio si vada delineando come lo sbocco naturale del processo innescatosi con l’attuale crisi (indotta) del debito. Da più parti (le forze politiche e i media di ispirazione liberista ed atlantista) si insiste infatti nel dire che per uscire dalla crisi ci vuole “più Europa”, in altre parole un avanzamento nel processo di centralizzazione delle decisioni in ambito economico in vista della costruzione degli Stati Uniti d’Europa. In questa direzione si inscrivono tra l’altro alcuni recenti provvedimenti come il Fiscal Compact, nonché l’istituzione del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità).
Il Movimento Europeo ha giocato un ruolo essenziale nel processo di integrazione europea, esercitando la propria influenza sulle istituzioni nazionali e comunitarie fino ai giorni nostri. Tuttavia è stato l’ACUE a gestire i programmi del Movimento e a dirigerne i leader, erogando i fondi solo a condizione che l’esecuzione proposta fosse precedentemente approvata e agendo in modo tale da impedire la raccolta dei fondi stessi in Europa, mantenendo così il Movimento dipendente dall’America.

I finanziamenti ai federalisti europei avvenivano tramite canali come la Fondazione Ford, la Fondazione Rockfeller e uomini d’affari legati agli Stati Uniti. I leader del Movimento Europeo erano considerati dalla Commissione Americana per l’Europa Unitaaddirittura come “suoi uomini”. Si trattava del Primo Ministro e Ministro degli Esteri belga Paul-Henri Spaak (uno dei firmatari dei Trattati CECA ed Euratom del 1957), del Ministro degli Esteri francese Robert Schumann, di Jean Monnet (Presidente dell’Alta Autorità della CECA). Tra i principali interlocutori dell’ACUE figuravano anche personalitàcome quella di Giovanni Agnelli, di Giovanni Malagodi (ex segretario del Partito Liberale), di Ugo La Malfa (ex segretario del Partito Repubblicano) e di Franco Malfatti, sottosegretario DC di vari governi dal 1958 al 1960 e Presidente della Commissione Europea dal giugno del 1970 al marzo del 1972[5].

Va sottolineato che l’integrazione politica europea è stata sin da principio (ed è tuttora) indissolubilmente legata all’integrazione militare, ovviamente entro la cornice atlantista della NATO. I differenti atteggiamenti prodottisi storicamente da parte delle amministrazioni USA vanno anche in questo caso letti come il frutto di differenti visioni sia dell’interesse americano sia della modalità ottimale di portare avanti il processo di integrazione: si va perciò dai più convinti sostenitori del federalismo europeo a coloro i quali pongono l’accento soprattutto sulla necessità di creare una difesa comune europea, dal momento che ciò esigerebbe una maggiore partecipazione dei paesi europei alle spese militari dell’Alleanza Atlantica, per arrivare a chi invece ritiene indispensabile mantenere un certo protagonismo statunitense nel processo di integrazione, al fine di intervenire e creare dissenso tra i paesi membri qualora si presentasse l’eventualità di una leadership europea ostile agli interessi americani[6]. Una posizione, questa, diffusa per lo più negli ambienti repubblicani (mentre i democratici al contrario risultano spesso tra i più strenui sostenitori del federalismo europeo) e che costituisce la sponda politica privilegiata oltreoceano per quegli “euroscettici” di matrice liberal-conservatrice, proiettati verso una rinegoziazione dei contenuti della dipendenza con il proposito di strappare condizioni più vantaggiose, in cambio dell’assoluta fedeltà all’atlantismo.

È significativo comunque che dopo la caduta del Muro di Berlino il processo di allargamento verso est dell’Europa sia andato di pari passo col processo di allargamento verso est della NATO. Di più: per ogni nuovo paese membro l’adesione all’Unione Europea è stata sempre preceduta dall’adesione alla NATO, a testimonianza del fatto che non esiste alcuna autonomia geopolitica dell’Europa rispetto agli USA. A tale proposito, non è un caso che le sporadiche voci di (parziale) dissenso nei confronti di Washington siano state storicamente espressione unicamente di singoli governi nazionali. Al contrario, le prese di posizione degli organi comunitari dell’Unione Europea, quando sono arrivate, si sono sempre rivelate più che allineate con quelle dell’alleato/padrone d’oltreoceano.

 

L’accelerazione del processo di integrazione europea a partire dalla seconda metà degli Anni Settanta.

Gli Anni Settanta sono un decennio cruciale sotto molti aspetti: la crisi petrolifera del 1973, la fine della convertibilità aurea e degli accordi di Bretton Woods nel 1971 sono tutti fattori che concorrono a determinare quella svolta liberista teorizzata dalla Scuola di Chicago, il cui principale esponente, Milton Friedman, riceve il Nobel per l’economia proprio nel 1976.
Tra la fine degli Anni Settanta e l’inizio degli Anni Ottanta assistiamo a fenomeni di indubbia rilevanza, che segnano un passaggio epocale: la fine della stagione di grande conflitto sociale e politico avviatasi nel 1968 e gli anni del cosiddetto “riflusso” (la ritirata nel privato dopo i “botti finali” del ’77 che chiudono un decennio alquanto turbolento), le elezioni di Margareth Thatcher e Ronald Reagan e l’ascesa al soglio pontificio di Giovanni Paolo II. A ciò si devono aggiungere le vicende del blocco socialista, il quale continua a crescere economicamente nella prima metà del decennio per poi iniziare manifestare evidenti segnali di crisi, sia sul piano economico che su quello politico. In questo quadro va collocata l’accelerazione del processo di integrazione europea, che si accompagna indissolubilmente a misure di segno ultra-liberista.

Nel 1979 viene creato lo SME (Sistema Monetario Europeo), il quale prevedeva per i cambi monetari una banda di oscillazione massima fissata al 2,5% (con l’eccezione dell’Italia, per la quale il tetto era del 6%), il cui scopo era quello di promuovere un sistema di cambi fissi tra i paesi europei. Una sorta di anticipazione, in forme più blande e flessibili, del sistema-euro. Questo meccanismo obbligava ad adottare una politica di tassi d’interessi elevati al fine di compensare il minore afflusso di valuta dovuto al passivo dei movimenti di merci. Lo SME costituiva un passo preliminare per la creazione di uno spazio europeo integrato dal punto di vista finanziario e basato sui principi della libera concorrenza e della totale liberalizzazione dei movimenti di capitale. Obiettivi su cui ci si impegna con la sottoscrizione dell’Atto Unico Europeo nel 1986 e che poi verranno formalizzati col Trattato di Maastricht nel 1992. Durante gli Anni Ottanta vengono poi smantellati ad uno ad uno tutti gli strumenti della cosiddetta repressione della rendita finanziaria, sino ad allora fondamento indiscusso della politica economica italiana. Attraverso questi strumenti il risparmio dei residenti (cittadini o stranieri, famiglie o imprese) non poteva uscire liberamente dai confini nazionali, ma era spinto ad essere investito e depositato nel nostro paese e ad essere trasformato in obbligazioni, pubbliche e private, emesse in Italia.

Erano infatti in vigore i divieti di esportazione della moneta, di acquistare quote di società aventi sede fuori dal territorio della Repubblica Italiana, di acquistare ed esportare titoli emessi all’estero e pagabili all’estero. La necessità di autorizzazioni amministrative e la possibilità che esse venissero negate spingevano il risparmio italiano verso investimenti e prestiti ad attività produttive che si svolgevano in Italia, verso l’acquisto di titoli, azionari e obbligazionari, pubblici e privati, emessi in Italia, nonché verso l’effettuazione di depositi in filiali di banche aventi sedi in Italia. Già per questa ragione si creava una domanda di titoli obbligazionari che altrimenti non vi sarebbe stata, con la conseguenza che direttamente (per la domanda di titoli del debito pubblico) e indirettamente (per la generale domanda di titoli obbligazionari) tendevano a scendere i tassi di interesse sui titoli del debito pubblico. Se il risparmiatore è libero (e i gestori del risparmio sono liberi) di investire in ogni luogo del mondo, sovrano è il risparmiatore (e i gestori) ma non lo Stato e quindi il popolo, che deve alzare interessi per attirare i “prestiti” dei cittadini e dei residenti e non soltanto dei risparmiatori stranieri. Esisteva poi il vincolo di portafoglio, attraverso cui le banche commerciali erano obbligate ad acquistare obbligazioni in una “rosa” indicata dalla Banca d’Italia, che disciplinava anche come amministrare il portafoglio. Si trattava in parte di uno strumento di politica industriale, poiché consentiva di far affluire il risparmio verso particolari settori reputati importanti.

Lo smantellamento del protezionismo finanziario ha un passaggio assolutamente fondamentale nel 1981, quando viene sancito il divorzio tra la Banca d’Italia (presieduta al tempo da Carlo Azeglio Ciampi) e il Ministero del Tesoro (in mano allora a Beniamino Andreatta): da quel momento la Banca d’Italia non garantisce più la sottoscrizione dei titoli rimasti invenduti.Diminuirà così progressivamente il finanziamento monetario delle esigenze del Tesoro, costretto ad alzare i tassi d’interesse sulle emissioni di titoli per poterli piazzare. Nel 1983 viene accantonato il massimale sugli impieghi, strumento della politica creditizia consistente nel fissare un limite massimo all’espansione degli impieghi bancari, al fine di determinare una diminuzione dei tassi d’interesse sul mercato finanziario. Nello stesso anno cadono anche gli ultimi vincoli di portafoglio, mentre nel 1984 vengono allentate le restrizioni nell’assegnazione di valuta per i viaggi all’estero. È del 1987 invece l’abolizione del deposito vincolato infruttifero sull’acquisto di attività estere, mentre nel 1990 entra in vigore la direttiva CEE sulla liberalizzazione dei movimenti di capitali a breve termine. Liberalizzazione che come detto verrà completata (estendendola ai tutti i movimenti di capitale) dal Trattato di Maastricht del 1992.

Nel 1993 cade poi lo scoperto del conto corrente di Tesoreria presso la Banca d’Italia, in vigore dal 1948. Il Tesoro aveva sino ad allora goduto di questo credito automatico, verificato con riscontro mensile. Lo scoperto aveva il limite del 15% (poi 14%) delle spese risultanti dal bilancio di competenza (la disposizione è stata formalmente abrogata nel dicembre 2010, ma era inapplicata dal 1994, dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, che, nell’art. 104, ora 123 del TFUE, ha vietato ogni forma di anticipazione della banca centrale verso gli Stati membri della UE). Lo Stato italiano pagava l’interesse dell’1% e spese basse e forfettarie, qualsiasi fosse il livello d’inflazione.

Attraverso questo strumento si consentiva allo Stato di introdurre moneta in base alle esigenze necessarie a promuovere la piena occupazione e a fornire i servizi pubblici essenziali, oltre che a finanziare le funzioni pubbliche. Il regime di finanziamento del fabbisogno pubblico sottraeva il finanziamento pubblico alla concorrenza dei mercati finanziari.  Lo scoperto del conto corrente di Tesoreria era parte essenziale di quel regime. A tal fine era necessario che parte del denaro depositato presso le banche commerciali dai residenti – cittadini e stranieri, imprese con sede in Italia e famiglie – andasse a finanziare il debito pubblico, ponendo vincoli alle banche che esercitano la raccolta dei depositi: l’intermediazione finanziaria doveva essere posta al servizio della collettività. Il risultato si poteva ottenere, e durante la prima Repubblica fu ottenuto, mediante il ricorso ad una elevata riserva obbligatoria, quale strumento per convogliare parte rilevante del risparmio dei residenti – soprattutto i piccoli e i piccolissimi depositi effettuati presso le filiali delle banche commerciali – verso l’acquisto di titoli del debito pubblico.

Tra le rilevanti conseguenze dell’abolizione di queste norme vi è il fatto che viene meno l’obbligo di utilizzare il sistema bancario per i rapporti economici con l’estero. L’incanalamento di tutte le transazioni con l’estero nel sistema bancario, fino ad allora prevalentemente statale, consentiva a Tesoro e Banca d’Italia di attuare controlli coercitivi sui flussi valutari e sui cambi. Si rinuncia così a cuor leggero a strumenti decisivi per l’esercizio della sovranità monetaria e finanziaria.

Il sistema delineato da questa gigantesca opera di deregolamentazione dei flussi finanziari costituisce l’impalcatura al sistema dell’euro, il quale non sarebbe stato altrimenti concepibile ed i cui effetti nefasti sono sotto gli occhi di tutti. In primo luogo il fatto che lo Stato non possa esercitare alcun controllo sulla politica monetaria danneggia in maniera letale un sistema produttivo da sempre legato all’esportazione (e quindi alla svalutazione); in secondo luogo l’unificazione valutaria beneficia – come sempre in questi casi – unicamente il “centro” (la Germania), che esporta merci e capitali nei paesi della periferia, con l’effetto di desertificare il loro sistema produttivo e di innescare una crescita esponenziale del debito, il quale ha cambiato completamente natura rispetto al passato. Se un tempo esso veniva infatti contratto con i cittadini risparmiatori, oggi lo Stato deve invece finanziarsi sul mercato, attraverso la vendita di titoli a tassi d’interesse sempre più alti per attrarre i capitali (esteri soprattutto).

 

Conclusioni

Il processo d’integrazione europea si inserisce, sin dai suoi primi passi, nel quadro della dipendenza atlantica, la quale si è dispiegata nel nostro paese attraverso una pluralità di canali a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Non solo è stato fortemente voluto dagli USA (a dispetto delle teorie di una certa vulgata che vedono nella UE un – quantomeno potenziale – concorrente geopolitico degli Stati Uniti), ma gli obiettivi fino ad ora raggiunti erano stati fissati già nei primi anni del Dopoguerra. Una conferma in tal senso ce la fornisce l’assoluta centralità che l’adesione alla NATO rappresenta come requisito per ogni paese che si candidi a entrare nell’Unione Europea.

La crisi prima e l’implosione poi del blocco sovietico hanno fatto venir meno le ragioni che giustificavano nei paesi dell’Europa occidentale quel compromesso fra capitale e lavoro di matrice keynesiana che aveva contraddistinto i cosiddetti “trent’anni gloriosi”, e lo stesso discorso vale per la sia pur limitata autonomia concessa dagli USA ai propri alleati/subalterni in politica estera negli stessi anni. La spinta decisa verso il modello neo-liberista (avviata già a partire dagli Anni Settanta) e la riaffermazione della propria egemonia nel campo occidentale contro eventuali concorrenti sul piano economico (in primis la Germania) sono stati i cardini della strategia statunitense dopo la caduta del Muro di Berlino. In questo senso va letta l’accelerazione del processo d’integrazione, la cui tappa successiva sarà rappresentata dall’integrazione euro-atlantica. Primo passo in tal senso dovrebbe essere rappresentato dal TAFTA, acronimo TransAtlantic Free Trade Area. Obiettivo:  i capitalismi potenzialmente concorrenti, su tutti quello tedesco. La Germania – si ricorderà – non era inizialmente entusiasta riguardo la prospettiva dell’euro, ma è stata “allettata” attraverso la possibilità concessale di sfruttare la moneta unica a proprio vantaggio contro i suoi competitors continentali e attraverso il beneplacito alla riunificazione. Ora però siamo di fronte ad un bivio, con gli USA che premono per centralizzazione delle politiche di bilancio e del credito – al fine di imbrigliare definitivamente la Germania – e quest’ultima che comprensibilmente tenta di smarcarsi. L’esito della confliggenza d’interessi tra Washington e Berlino determinerà o un’ulteriore avanzamento verso gli United States of Europe o lo scenario di un’Europa a due velocità, con i paesi della periferia che potrebbero uscire dalla moneta unica e dar vita a un euro del sud o a forme di aggancio al dollaro sul modello di quanto sperimentato in altre aree del pianeta soggette all’egemonia statunitense.

In entrambi i casi ciò che non muterebbe sarebbe il regime di dipendenza, l’assenza di sovranità e il progressivo impoverimento materiale di larghi strati della popolazione, dovuto all’applicazione inesorabile dei dogmi liberisti. Alla luce di questo legame inscindibile tra dipendenza atlantica, Unione Europea, liberismo ed euro, appare quindi sempre più ineludibile la (ri)conquista della sovranità nazionale, la rottura con UE ed euro e la ricollocazione geopolitica dell’Italia. Si tratta di passaggi irrinunciabili per poter anche solo pensare una trasformazione dei rapporti economici e sociali, in Italia come in qualsiasi altro paese del continente.

 

Dario Romeo

 



[1] Giorgio Fodor, Perché nel 1947 l’Europa ha avuto bisogno del Piano Marshall, “Rivista di storia economica”, n..s., 2, 1985, n. 1; Marcello De Cecco, Economia e Costituzione, in E. Cianci, Nascita dello Stato imprenditore in Italia, Mursia, Milano 1977; Alan Milward, The Reconstruction of Western Europe, 1945-51, Meuthen, Londra 1984.

[2] David A. Baldwin, “Foreign Aid and american  foreign policy. A documentary analysis” Praeger, New York-Washington-London, 1966, pp. 30-31.

[3] Carlo Spagnolo, La stabilizzazione incompiuta. Il Piano Marshall in Italia: 1947-1952, Carocci, Roma 2001.

[4] Alessio Testa, Gli Stati Uniti e l’integrazione europea. Washington e la politica comune europea in materia di sicurezza e difesa, in “Indipendenza”, nuova serie, anno IX, n. 17, gennaio/febbraio 2005, pp. 24-26; Georges H. Soutotu, L’Alliance incertaine, Fayard, Parigi 1996; Peter Schmidt, Le couple franco-allemande et la sécurité dans les années 1990, UFO, Istitutodi studi sulla sicurezza, Parigi 1993; Bruno Colson, La stratégie américaine et l’Europe, ED. Economica, Parigi 1997.

[5] Si veda Agostino Santisi, L’Unione Europea a stelle e strisce. Integrazione economica e militareeuropea nelle strategie USA, in “Indipendenza”, nuova serie, anno X, n. 19-20, febbraio/maggio 2006, pp. 23-24.
Un resoconto delle ricerche di Joshua Paul è contenuto nell’articolo di Ambrose Evans-Pritchard, Euro-federalists financed by US Spy Chiefs, “Daily Telegraph”, 19 settembre 2000, http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/europe/1356047/Euro-federalists-financed-by-US-spy-chiefs.html

[6] Alessio Testa, Gli Stati Uniti e l’integrazione europea. Washington e la politica comune europea in materia di sicurezza e difesa, in "Indipendenza", nuova serie, anno IX, n. 17, gennaio/febbraio 2005, pp. 24-26.

 



Ruolo dei servizi, trame occulte, doppio livello

 

Sin dai primissimi anni del dopoguerra, un ambito di cruciale importanza nel quale il vincolo di dipendenza dell’Italia dagli USA si è rivelato particolarmente stringente è stato quello dei servizi segreti, con effetti assolutamente deleteri per la vita democratica del nostro paese.

Per avere un’idea di come sin da subito il grado di ingerenza e di condizionamento da parte statunitense fosse intenso, basti ricordare che i servizi informativi italiani di fatto non esistevano nel 1946 e ripresero timidamente a funzionare nel 1947, svolgendo però un’attività meramente assistenziale. Soltanto dopo le elezioni del 18 aprile 1948, che sancirono –grazie alla vittoria democristiana– la collocazione dell’Italia nella sfera d’influenza USAe l’adesione al Patto Atlantico, Washington acconsentì alla ricostituzione di un servizio segreto.[1]

È importante infatti tenere presente che la NATO non era soltanto un’organizzazione militare ma, analogamente ad altre alleanze che gli Stati Uniti promossero e imposero in quegli anni (OAS, SEATO, CENTO, Patto di Colombo), aveva come scopo anche e soprattutto quello di conservare lo status quo politico nei paesi aderenti.[2] A tal fine non si esitò a reclutare elementi provenienti dalle fila fasciste, in ragione della loro provata fede anti-comunista. Non bisogna inoltre dimenticare l’esistenza dei protocolli aggiuntivi segreti, stipulati nel 1949 contestualmente alla firma del Patto Atlantico, i quali prevedevano l’istituzione di un organismo non ufficiale, giuridicamente inesistente, preposto a garantire con ogni mezzo la collocazione internazionale dell’Italia all’interno dello schieramento atlantico, anche nel caso l’elettorato si fosse orientato in maniera differente.[3] Tra i vari obblighi assunti dall’Italia con l’adesione al Patto molti riguardavano in modo specifico i servizi nostrani, i quali erano tenuti a passare notizie e ricevere istruzioni da una centrale apposita della CIA che dipendeva direttamente dalla Presidenza degli Stati Uniti. Non stupisce quindi che i servizi segreti italiani venissero riorganizzati contemporaneamente alla fondazione dell’alleanza atlantica: il 30 marzo 1949 fu decisa la ricostituzione del servizio, il 4 aprile veniva firmato il Patto Atlantico, il 1° agosto il Parlamento ratificava l’adesione italiana al Patto, il 24 agosto il trattato diventava operativo e il 1° settembre veniva attivato il SIFAR (il servizio segreto militare).[4]

 

Operazioni e strutture stay-behind
Qualsiasi mezzo era buono pur di frenare l’avanzata comunista in quei paesi che –come l’Italia– facevano parte dal blocco occidentale, incluso il supporto finanziario a organizzazioni italiane di destra (oltre dieci milioni di dollari in armamenti per la campagna elettorale del 1948, destinati a movimenti reazionari con caratteristiche anticomuniste, nell’ambito del cosiddetto Piano X). Secondo i rapporti del Foreign Office, l'intelligence USA, procedendo alla ‘schedatura’ dei gruppi, premevaaffinché si creasse un rapporto di stretta collaborazione tra questi e l’Arma dei Carabinieri, la quale si era contraddistinta per via del fatto che diversi sui ufficiali si erano a suo tempo schierati con la Repubblica di Salò. Nel 1952 fu poi siglato il Piano Demagnetize, il quale prevedeva –neanche a dirlo– una stretta collaborazione tra SIFAR e CIA per il definitivo affossamento con ogni mezzo dell’attività comunista nel paese, per spezzare “l’attrazione magnetica” che esercitava sulle popolazioni.[5]

In questa prospettiva va letta anche la costituzione –analogamente a quanto avvenne in diversi paesi dell’Europa occidentale– di strutture para-militari di tipo stay-behind (s/b). Con questa espressione (che in inglese vuol dire letteralmente «rimanere indietro», nel senso di dietro le linee nemiche) si identifica quel complesso di organizzazioni, reti e strutture capaci di attivarsi per operare nel proprio paese in caso di occupazione. Si trattava in realtà di «strutture di guerra non ortodossa direttamente riferibili agli Stati Uniti e operanti sul territorio nazionale».[6]Esemplare in tal senso la vicenda dell’organizzazione Gladio: la versione ufficiale, quella cioè fornita dall’allora Presidente del Consiglio Giulio Andreotti (agosto 1990) alla Commissione Stragi, la dipingeva come un’organizzazione stabile, fissa, formata da 622 patrioti (gladiatori) pronti a entrare in azione per difendere i confini da un’eventuale invasione sovietica. Secondo la relazione Dini e Roberti, inviata al Parlamento nell’ottobre 1994, esisteva un livello superficiale dell’organizzazione (la famosa lista dei 622 resa pubblica dal SISMI e dal governo Andreotti) –la quale aveva funzione di resistenza in caso di occupazione da parte delle truppe del Patto di Varsavia ed era inquadrata in ambito NATO– e un livello occulto, vero cuore e nocciolo degli interessi statunitensi in Italia, che dipendeva in modo assoluto direttamente dalla CIA.[7] La funzione di questo organismo non ufficiale consisteva nella conduzione della guerra non ortodossa, attraverso la penetrazione silenziosa dell’avversario, «azioni segrete, infiltrazione, atti di provocazione, anche attentati».[8] Per scongiurare la vittoria del nemico ed evitare che un paese uscisse da una certa area di influenza occorreva cioè destabilizzarlo di continuo, e a tal fine non erano sufficienti i militari ma c’era bisogno di un vero e proprio esercito segreto in grado di insinuarsi nella società. È esistita una vasta “Gladio popolare”, costituita da civili (alcuni espressione di organizzazioni politiche, altri semplici cittadini) reclutati per i compiti più svariati, e sostenuta finanziariamente da esponenti di spicco del potere economico. Nel corso degli anni furono reclutate centinaia di persone, genericamente nazionalisti, ex carabinieri o ex poliziotti, tutti accomunati da un viscerale anticomunismo. È impossibile oggi stabilire la consistenza numerica di questo fenomeno, dal momento che Gladio, lungi dall’essere quell’organismo immobile propagandato dalle versioni ufficiali, fu invece un grande contenitore in cui entravano e da cui uscivano molte persone, la maggior parte delle quali non conoscevano né la struttura né contenuto e portata effettivi delle sue attività.[9]

 

Il connubio fascismo-mafia-atlantismo

L’inserimento di fascisti nei gangli vitali della neonata Repubblica fu studiato e messo a punto congiuntamente dai supervisori dell’amministrazione statunitense e dalla DC italiana. Alcide De Gasperi aveva coniato la formula della «superiore continuità dello Stato», al fine di giustificare la nomina di persone legate al fascismo (ma compiacenti con la DC, l’atlantismo e la fede anti-comunista) nei ministeri, nelle prefetture, nelle amministrazioni comunali a maggioranza democristiana, e in numerosi altri enti. Fu sempre De Gasperi, durante il suo primo governo (estate 1946), a ‘riconvertire’ oltre 150 spie fasciste che vennero così assoldate e collocate nell’amministrazione statale.[10]

Non fu questa la sola eredità del passato regime: i principali organi dello spionaggio poliziesco passarono direttamente alle dipendenze della Presidenza del Consiglio e non casualmente a dirigere la “Divisione Affari Generali e Riservati” del Ministero degli Interni fu chiamato nel 1946 il questore Gesualdo Barletta (che restò in carica fino al 1958), affiancato da Domenico Rotondano. Entrambi erano ex funzionari dell’OVRA, la polizia politica fascista.[11] 

Il recupero di esponenti dei vecchi regimi nazifascisti era un elemento cardine della strategia nordamericana non soltanto in Italia, sulla base del convincimento che ci si dovesse avvalere degli uomini più capaci che erano stati al servizio di Hitler e Mussolini, principalmente in chiave anti-comunista. Non si trattava peraltro di semplice cooptazione nel nuovo sistema politico, ma di utilizzare i fascisti anche per operazioni ‘sporche’, il cui obiettivo politico era quello di frenare l’ascesa del PCI e scongiurare così il pericolo di una presenza comunista al governo. Governo che –come è facile immaginare– avrebbe potuto costituire un fattore di grande instabilità rispetto all’ordine mondiale delineato dalle grandi potenze nelle conferenze di Teheran, Jalta e Potsdam, tra il 1943 e il 1945.

In tal senso le politiche sociali dei governi democristiani –che se paragonate all’odierna dittatura dei dogmi liberisti, ci appaiono molto avanzate– non possono essere disgiunte (in quanto a significato politico) dall’alleanza con la mafia in meridione, il cui scopo era quello di garantire allo scudo crociato un consistente serbatoio di voti e conseguentemente la supremazia a livello nazionale rispetto al PCI. Alleanze –quelle con fascisti e mafie– che produssero numerose operazioni ascrivibili alla cosiddetta “strategia della tensione” (in realtà della stabilizzazione atlantica e anti-comunista), la prima delle quali fu la strage di Portella della Ginestra, avvenuta il Primo Maggio del 1947. L’alleanza con la mafia siciliana risaliva allo sbarco del 1943 e si era manifestato anche con l’appoggio che gli Stati Uniti diedero alla nascita del MIS (Movimento Indipendentista Siciliano), attivo dal 1943 al 1951, nel quale confluirono diversi esponenti di Cosa Nostra, fra cui Calogero Vizzini, Francesco Paolo Bontate, Michele Navarra, Giuseppe Genco Russo e Gaetano Filippone. In una fase di incertezza gli USA volevano infatti assicurarsi almeno la Sicilia qualora non fosse stato possibile controllare in modo sicuro ed efficace l’Italia.[12] Non a caso il Movimento godeva dell’appoggio di monarchici e latifondisti, e non mancò chi al suo interno arrivò a rivendicare per l’isola lo status di ‘49° Stato’ degli USA. Il MIS era dotato anche di un braccio militare, l’EVIS (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia), nel quale a partire dal 1945 fu inquadrato come colonnello Salvatore Giuliano.

 

Servizi occulti

Accanto –e al di sopra– ai servizi segreti ufficialmente riconosciuti, negli anni della Guerra Fredda operarono in Italia diverse organizzazioni parallele, la cui natura “occulta” era motivata dal fatto che rispondevano più o meno direttamente a interessi ed esigenze geo-strategiche della super-potenza statunitense.
Tra queste figurava la Rosa dei Venti, sorta di filiale nostrana di un servizio di intelligence NATO, la cui funzione era di «garantire il rispetto del potere vigente e dei patti NATO sottoscritti riservatamente, nonché del regime sociale ed economico indotto da tali strutture. La filosofia ispiratrice è quella dell’appartenenza dell’Italia al blocco occidentale inteso come immutabile, mobilitato permanentemente contro il comunismo e finalizzato ad impedire l’ascesa alla direzione del paese da parte delle sinistre» (Amos Spiazzi, verbale 4 e 12 maggio 1974)[13].Tale organismo non si identificava con il SID, e ne facevano parte non solo militari ma anche civili, industriali, politicinonché vari personaggi di spicco dell’estremismo di destra.

Ad essere legata a doppio filo con l’area neo-fascistaera ancheun’organizzazione assai ambigua, di cui per lungo tempo non si è conosciuto neanche il nome, e a cui spesso ci si riferiva con l’appellativo di “noto servizio” o “Anello” (nome che secondo alcuni apparirebbe soltanto nei primi Anni Settanta). Si trattava di un servizio di informazioni, il quale operava in Italia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e che era stato creato per volontà del Generale Roatta (ex capo del SIM, il servizio segreto fascista). Formato in origine da uomini provenienti dai ranghi militari del defunto regime, aveva come compito principale quello di ostacolare l’avanzata dei comunisti in Italia, comunquedi impedire una sostanziale modifica della situazione politica italiana e della posizione geo-politica del nostro paese. Non a caso sarà al centro ditutti gli eventi più controversi della storia di quegli anni.

Denominatori comuni di questi e altri organismi (come Gladio per esempio) sono ad ogni modo sempre gli stessi: il ruolo stabilizzatore (nel senso di rendere stabile la collocazione geo-politica dell’Italia), il legame con le organizzazioni neo-fasciste, l’operare in una dimensione occulta, l’agire rispondendo più a Washington che a Roma e l’ampio ricorso alle strategie del “doppio livello” e della “guerra non ortodossa”.

 

La nascita della strategia del doppio livello

Il connubio di ferro tra fascismo e atlantismo non fu circoscritto in quegli anni soltanto agli apparati dello Stato e dei servizi segreti, ma coinvolse in maniera capillare le organizzazioni politiche dell’estrema destra. Se il MSI potè godere di finanziamenti da parte delle amministrazioni statunitensi (come dichiarato da un suo illustre esponente dell’epoca, Giulio Caradonna, nell’ultima intervista concessa prima di morire[14]), formazioni come Ordine Nuovo (ON) e Avanguardia Nazionale (AN) si caratterizzarono per costituire sostanzialmente delle false flag a tutti gli effetti.

Il Centro Studi Ordine Nuovo fu fondato nel 1956 da Pino Rauti e si presentava all’opinione pubblica come un’organizzazione politico-culturale caratterizzata da un radicale anti-atlantismo. In realtà, più che un movimento politico, ON è stato un vero e proprio servizio segreto clandestino (sia pure all’insaputa della maggioranza dei suoi iscritti), in linea con quanto teorizzato dallo stesso Rauti nel suo intervento al convegno del maggio 1965 (organizzato dal SID all’Istituto Pollio) delle forze militari italiane e atlantiche. Una conferma in tal senso arriva anche dalla scheda di adesione a Ordine Nuovo, documento che figura agli atti del processo di Catanzaro sulla strage di Piazza Fontana. A chi intendeva aderire veniva chiesto se era in possesso del porto d’armi, se aveva assolto gli obblighi militari e con quale grado e specializzazione o notizie sulla conoscenza di “discipline sportive” orientali. Secondo la scheda compilata da Carlo Maria Maggi (reggente di ON del Triveneto) ai vertici del movimento interessava sapere inoltre: l’orientamento politico del datore di lavoro; il possesso della patente automobilistica, motociclisticae nautica o il brevetto aeronautico; il possesso di autovetture, moto, imbarcazioni o velivoli; in caso affermativo, il tipo e la targa; il possesso della patente di caccia o del porto d’armi; il possesso del passaporto e di quali paesi; l’eventuale pratica di sport e presso quali associazioni, in qualiorari, nonché l’orientamento politico delle associazioni in questione; l’eventuale appartenenza alle forze armate prima dell’8 settembre 1943, e in quali reparti; l’eventuale partecipazione a campagne di guerra, le ferite riportate e le decorazioni ricevute; l’eventuale appartenenza ad associazioni d’arma. In pratica, chi  aderiva ad Ordine Nuovo, se veniva scelto dai suoi vertici doveva essere preparato a portare avanti la guerra controrivoluzionaria, dal momento che ON era in ultima istanza un centro di reclutamento che insegnava a usare tutte le armi contro il nemico comunista. Anche l’ideologia tuttavia ricopriva un ruolo rilevante nella formazione dei militanti ordinovisti. La principale figura ispiratrice era quella del filosofo neopagano Julius Evola, il quale negli articoli apparsi sul mensile “Ordine Nuovo” direto da Pino Rauti teorizzava quella che doveva essere la natura «dell’indistruttibile nucleo, un piccolo, ascetico ordine monastico-cavalleresco, devoto all’ordine e all’élite, opposto al partito, e con una ‘nuova’ concezione di patria». L’Ordine infatti doveva essere inteso come «la (mistica) unione di uomini superiori (un’élite, una specie di “guardia armata dello Stato”), accomunati dalla fedeltà ai dei principi, testimoni di una superiore autorità e legittimazione, procedenti dall’idea: “nell’idea va riconosciuta la nostra vera patria”». Ordine Nuovo ebbe un particolare radicamento nel Nordest, all’ombra delle numerose basi USA attorno alle quali venivano addestrati i militanti.
In particolare, all’ombra di Gladio operarono tra il 1967 e il 1972-'73 i Nuclei per la Difesa dello Stato (NDS), strutture in grado di assicurare l’addestramento militare dei civili e fortemente legate agli ambienti ordinovisti e a settori dell’Arma dei Carabinieri, che fornivano le armi.[15]

Fenomeno prettamente romano (sia pure con una certa capacità di radicamento nel meridione) fu invece Avanguardia Nazionale, fondata da Stefano Delle Chiaie nel 1960 per scissione dallo stesso ON. AN non aveva l’ambizione della ricerca mistica del concetto di militanza, ma era caratterizzata da un orientamento squadristico e brutale, sia nelle parole che nei fatti. Il movimento di Delle Chiaie infatti si rivelò come il principale protagonista della violenza fascista negli Anni Sessanta. Fin dalla sua nascita, i gruppi giovanili di Avanguardia Nazionale si legarono all’Arma dei Carabinieri, che spesso faceva ricorso all’ultilizzo dei movimenti neofascisti nei cosiddetti casi di emergenza.[16]

Il coinvolgimento di queste due formazioni in quella che è conosciuta come strategia della tensione fu sistematico, attraverso forme di provocazione e di operazioni false flag che dovevano apparire come opera di gruppi di sinistra. Il tutto con la compiacenza dello Stato e la direzione più o meno occulta da parte di una catena di comando che attraverso i servizi italiani, la CIA e la NATO faceva capo direttamente a Washington.

A fungere da cameradi compensazione, da collante silenzioso e discreto della sinergia tra politici, servizi segreti (di entrambi i paesi), uomini d’apparato, mafiosi e terroristi neo-fascisti, fu la fratellanza massonica italo-americana. La massoneria statunitense ebbe infatti un ruolo cruciale negli eventi che caratterizzarono gli anni della Guerra Fredda in Italia e riuscì a impiantare, agli inizi del 1961, ben sette logge in altrettante basi NATO della penisola.[17] A dimostrazione di come la massoneria vada considerata non come una novella Spectre, indipendente da condizionamenti politici, bensì come uno strumento utilizzato dal potere politico (in questo caso da quello egemonico degli USA), finalizzato a coordinare nella maniera maniera più efficace possibile le sinergie con altri poteri (politici, economici, militari, dell’informazione, ecc., anche dei paesi subalterni) nel perseguimento dei propri interessi e delle proprie direttive strategiche.

In questo quadro si inscrive perfettamente la parabola della Loggia P2, fondata da Licio Gelli con gli auspici della massoneria statunitense, interessata alla riunificazione del mondo massonico italiano, diviso nelle due logge di Palazzo Giustiniani e di Piazza del Gesù. Particolarmente significativo, per quanto concerne i vincoli di dipendenza con gli Stati Uniti, era che il capo stazione CIA in Italia negli anni della strategia della tensione, Howard E. Stone (detto Rocky), fosse iscritto alla P2, la quale divenne sostanzialmente un’agenzia della CIA in Italia.[18]

Al di là del coinvolgimento diretto nella strage dell’Italicus del 4 agosto 1974, delle sinergie con la destra eversiva, del coordinamento e del finanziamento delle operazioni Stay Behind, la P2 si distinse sul piano strettamente politico per il Piano di Rinascita Democratica (detto anche Programma di Rinascita Nazionale o più semplicemente il Piano). Tra suoi punti principali figuravano la semplificazione del quadro politico in senso bipolarecon la nascita di due grandi partiti, il controllo dei quotidiani, la liberalizzazione delle emittenze televisive, la privatizzazione della RAI, la ripartizione delle competenze tra i due rami del Parlamento, la riforma della magistratura con la differenziazione dei ruoli del Pubblico Ministero e del magistrato, la responsbilità del CSM nei confronti del Parlamento, la riduzione del numero dei parlamentari, l’abolizione delle province, l’abolizione del valore legale dei titoli di studio, la limitazione del ruolo dei sindacati e del diritto di sciopero. Colpisce come si tratti di temi che per la maggior parte o si sono concretizzati o sono parte dell’agenda politica odierna.

 

Dario Romeo



[1] Giuseppe De Lutiis, Storia dei servizi segreti in Italia, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 38.

[2] Id., p. 40.

[3] Id., p. 128.

[4] Id., p. 42. Il SIFAR (Servizio Informazioni Forze Armate) fu sostituito nel 1966 dal SID (Servizio Informazioni Difesa), il quale fu sciolto nel 1977 quando vennero create due strutture, una civile (il SISDE, Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica) e l’altra militare (il SISMI, Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare).

[5] Stefania Limiti, L’Anello della Repubblica. La scoperta di un nuovo servizio segreto. Dal fascismo alle Brigate Rosse, Chiarelettere, Milano 2009, pp. 43-45.

[6] Stefania Limiti, Doppio livello. Come si organizza la destabilizzazione in Italia, Chiarelettere, Milano 2013, p. 142.

[7] Id., pp. 161-167.

[8] Intervista al maggiore Amos Spiazzi, in Sandro Neri, Segreti di Stato, Aliberti, Reggio Emilia 2008, p. 221

[9] Stefania Limiti, Doppio livello. Come si organizza la destabilizzazione in Italia, op. cit., pp. 172-179.

[10] Stefania Limiti, L’Anello della Repubblica. La scoperta di un nuovo servizio segreto. Dal fascismo alle Brigate Rosse, op. cit., p. 47.

[11] Giuseppe De Lutiis, op. cit., p.47-48.

[12] Deborah Paci, Fausto Pietrancosta, Il separatismo siciliano (1943-1947), in Diacroni. Studi di Storia Contemporanea. DOSSIER: Luoghi e non luoghi della Sicilia contemporanea: istituzioni, culture politiche e potere mafioso, n. 3, 2/2010, http://www.studistorici.com/wp-content/uploads/2010/07/PACI-PIETRANCOSTA_Separatismo_dossier_3.pdf

 

[13] Mimmo Franzinelli, La sottile linea nera, Rizzoli, Milano 2008, p. 234.

[14] La storia siamo noi, puntata del 20/06/2013. Caradonna affermò in quella sede che l’amministrazione Nixon pilotò e sostenne finanziariamente l’alleanza con i monarchici e la svolta  Destra Nazionale risalente all’inizio degli Anni ’70, allo scopo di creare una destra più moderna e di erodere il consenso della DC, giudicata in quella fase troppo sbilanciata a sinistra. Il denaro fu consegnato dall’allora capo del SID, Vito Miceli nelle mani di Almirante stesso, dopo averlo ricevuto dall’imprenditore italo-americano, Pier Francesco Talenti, uomo di fiducia di Nixon. Nell’ambito della stessa puntata la testimonianza di Caradonna venne tra l’altro confermata dalle parole di Giulio Andreotti.

[15] Stefania Limiti, Doppio livello. Come si organizza la destabilizzazione in Italia, op. cit., p.145.

[16] Id., pp. 73-78.

[17] Ferdinando Imposimato, La Repubblica delle stragi impunite, Newton Compton, Roma 2012, pp. 29-35.

[18] Stefania Limiti, Doppio livello. Come si organizza la destabilizzazione in Italia, op. cit., pp. 208-216.