Prefazione di Diego Siragusa al libro “ La maledizione dell’Achille Lauro”

 

Lei è Palestinese nei suoi occhi e nel tatuaggio

Palestinese nel suo nome

Palestinese nei suoi sogni e nell’affanno

Palestinese nella sua sciarpa, nei suoi piedi,

nel suo corpo

Palestinese nella sua voce.

Palestinese in nascita e in morte.                  

 

(Mahmoud Darwish)

 

Ho voluto iniziare questa presentazione del libro di Reem al Ni-mer coi versi di Mahmoud Darwish perché descrivono in modo mirabile la donna palestinese che resiste, che non cede al logorio della lotta e afferma la propria identità con orgoglio, un gesto di sfida alnemico storico, il sionismo che ha devastato la Palestina e inflitto al suo popolo una ingiustizia tra le più crudeli, forse unica nella storia.

Reem al Nimer esordisce con questo libro autobiografico e allungala lista delle donne palestinesi scrittrici che con lo strumento della letteratura stanno facendo conoscere al mondo la tragedia del loro popolo. Salwa Salem, Susan Abulhawa, Adania Shibli, Hanan A. Awwad,Suad Amiry, Rula Jebreal sono scrittrici conosciute e tradotte in moltelingue. Nel caso del libro Miral di Rula Jebreal c’è stata anche la trasposizione cinematografica con la regia di Julian Schnabel. Reem è la vedova di uno dei dirigenti più prestigiosi della resistenza palestinese e molto vicino ad Arafat: Abu al Abbas, l’ideatore ed organizzatore del sequestro della nave da crociera italiana AchilleLauro, morto a Bagdad l’8 marzo 2004, mentre languiva da un anno in un carcere sotto custodia americana.

La maledizione dell’Achille Lauro vuole essere una riabilitazione della personalità di Abu al Abbas e della sua storia di combattente che troppi in occidente, sotto l’influsso della propaganda israeliana, hanno voluto liquidare con la stantia parola di “terrorista”. Scrive Reem:

“Sono rimasta accanto ad Abu al-Abbas per ventiquattro anni di sconvolgimenti, dal 1980 fino al suo arresto e alla sua morte sotto custodia americana nel 2004. L’ho visto crescere come marito, come politico e come comandante militare nel corso della nostra vita insieme in Libano, in Siria, in Tunisia e infine in Iraq. Questo libro è il mio modo di dirgli: Addio mio mentore, amico mio, amore mio”.

Ci mancava una biografia di Abu al Abbas ed essa non è meno affidabile, sotto il profilo storico, se l’autrice è la moglie. Il lettore scoprirà che Reem al Nimer, non perde mai la propria capacità critica

descrivendo le vicende vissute accanto agli uomini della sua vita: il primo marito, Abu al Abbas e il proprio padre. La distanza temporale le ha consentito di tenere sotto controllo lo spirito partigiano, di valutare con equilibrio i propri errori e quelli del marito, di raccontarci le drammatiche faide interne nella resistenza palestinese, i tradimenti, gli opportunismi, la codardia e i crimini dei regimi arabi reazionari:

“Nel corso dei cinque anni successivi, la mia dedizione per la liberazione della Palestina rimase ardente, ma la mia ingenuità scomparve poco a poco. Potei vedere dall’interno le tensioni tra le diverse fazioni dell’OLP. Assistetti a scontri personali ed egoistici che sembravano prevalere sull’obiettivo di aiutare i sofferenti e rendere giustizia ai diseredati. Iniziai inoltre a notare che vi erano differenze generazionali. La generazione che aveva vent’anni nel 1948 e aveva assistito all’espulsione dei palestinesi con occhi adulti aveva un orientamento diverso da quello di attivisti come Abu al-Abbas, che erano nati nei campi profughi”.

Perché l’autrice usa la parola “maledizione” per bollare la vicenda dell’Achille Lauro? Perché essa aveva uno scopo ben diverso dal suo esito e fallì miseramente a causa di un incidente, e allo stesso modo, in seguito, fallì l’operazione “Gerusalemme Mare”.

Riassumiamo la vicenda della nave Achille Lauro.

Il 7 ottobre 1985, durante una crociera nel Mediterraneo, un gruppo di quattro palestinesi, appartenenti al FPLP, sequestra il transatlantico italiano “Achille Lauro”, appena salpato da Alessandria, che aveva a bordo 201 passeggeri e 344 membri dell’equipaggio. Lo scopo del sequestro era quello di condurre la nave in un porto israeliano e chiedere per la liberazione dei passeggeri un’analoga liberazione di 52 prigionieri palestinesi. Il presidente dell’OLP, Arafat, contrario a questi atti di pirateria che discreditano la lotta palestinese, si offre come mediatore per convincere i dirottatori a desistere dal loro proposito e consegnarsi alle autorità in cambio dell’immunità.

Arafat manda Abu Abbas, capo del FPLP, e Hani Hassan, uno dei suoi più fedeli collaboratori, per negoziare, assieme al governo egiziano, una incruenta conclusione del sequestro. Hassan convince il gruppo palestinese a desistere ed a consegnarsi. E così avviene. Ma subito dopo si scopre che un passeggero disabile, cittadino americano ed ebreo, Leon Klinghoffer, era stato ucciso e gettato in mare. A quel punto il governo americano, presidente era Reagan, si reputò in diritto di intervenire. L’11 ottobre dei caccia statunitensi intercettarono l’aereo egiziano (un Boeing 737), che, in base agli accordi raggiunti (immunità per i dirottatori e loro trasferimento in un altro paese arabo), era diretto in Tunisia con a bordo i membri del gruppo di dirottatori, lo stesso Abu Abbas, Hani El Hassan oltre a degli agenti dei servizi e diplomatici egiziani, costringendolo a dirigersi verso la base siciliana della NATO di Sigonella, in Italia, dove fu autorizzato ad atterrare poco dopo la mezzanotte. In quel momento il presidente del Consiglio italiano era Bettino Craxi che rifiutò l’atto di forza americano sul territorio italiano e impose il rispetto del diritto internazionale. A Sigonella, i carabinieri e la vigilanza aeronautica militare si opposero ai soldati della Delta Force americana costringendoli a desistere dai loro propositi di impossessarsi dell’aereo e dei passeggeri a bordo che accompagnavano i quattro dirottatori palestinesi. Fu la più grave crisi diplomatica tra Italia e Stati Uniti dalla fine della II Guerra Mondiale, ma fu anche il primo caso in assoluto in cui un governo italiano non piegò la testa davanti alle pretese dell’alleato americano.

I dirottatori furono arrestati e condotti nel carcere di Siracusa in attesa di essere interrogati e processati secondo le leggi italiane. Alla ripartenza dell’aereo con destinazione Ciampino si unirono al velivolo egiziano un velivolo del SISMI (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare), che era nel frattempo giunto con l’ammiraglio Fulvio Martini, e a una piccola scorta di due F-104S decollati dalla base di Gioia del Colle e altri due decollati da Grazzanise, scorta voluta dallo stesso Martini.

Nel frattempo un F-14 statunitense decollò dalla base di Sigonella senza chiedere l’autorizzazione e senza comunicare il piano di volo e cercò di rompere la formazione del Boeing e dei velivoli italiani, sostenendo di voler prendere in consegna il velivolo con Abbas a bordo, venendo però respinto dagli F-104 di scorta.

Appena atterrati a Ciampino, intorno alle 23:00, un secondo aereo statunitense, fingendo un guasto, ottenne l’autorizzazione per un atterraggio di emergenza e si posizionò sulla pista davanti al velivolo egiziano, impedendone un’eventuale ripartenza. Su ordine di Martini al caccia venne allora dato un ultimatum di cinque minuti per liberare la pista, in caso contrario sarebbe stato spinto fuori pista da un Bulldozer; dopo tre minuti il caccia statunitense decollò di nuovo, liberando la pista. Abu Abbas, come dimostrarono le intercettazioni, si rivelò essere uno degli organizzatori del sequestro ed in seguito fu condannato in contumacia all’ergastolo.                                                                    Dopo la conclusione del dirottamento si diresse in Yugoslavia dove fu accolto ed ospitato presso il rappresentante dell’OLP Nemer Hammad il quale, su insistenza delle autorità jugoslave, che si ritenevano danneggiate dalla presenza di un terrorista, si adoperò per far ripartire Abu Abbas per Bagdad dove trovò rifugio.

Il mese dopo, a Genova, si svolse il processo con rito direttissimo contro i quattro dirottatori della “Achille Lauro”. L’accusa era: detenzione e trasporto di armi ed esplosivi “a fine terroristico”. Il processo ebbe uno svolgimento particolarmente comprensivo nei confronti dei dirottatori.

Il Pubblico Ministero, Luigi Carli, chiese clemenza alla corte con la motivazione che i palestinesi combattono per una causa giusta, hanno confessato le loro colpe ed hanno collaborato con le autorità italiane per la conclusione dell’inchiesta. Uno dei dirottatori, in particolare, Ahmad Marrouf al Assadi, di ventitrè anni, si era distinto per la sua umanità verso gli ostaggi, circostanza confermata da undici testimoni chiamati a deporre. Ad altri due dirottatori: il diciannovenne Bassam al Ashker e Jbrahim Fatayer Abdelatif, di vent’anni, chiamato “Rambo” dagli uomini dell’equipaggio, furono riconosciute le attenuanti generiche, in quanto “costoro furono costretti a prendere le armi e a farne uso ancor prima di quando avrebbero dovuto, secondo il piano originario” suggerisce il pubblico ministero. Quindi pena di sette anni, tre mesi e quindici giorni ad Abdelatif e sei anni e sei mesi per Al Ashker. Diverse le colpe di Maged Moussef al Molqi, ventitre anni, che si dichiarò “responsabile” del gruppo che dirottò la nave italiana e diede l’ordine di usare le armi. L’accusa chiese nove anni di reclusione ma il tribunale gliene inflisse otto.

Un altro personaggio dell’intera operazione è Issa Abbas, parente di Abu Abbas. La Guardia di Finanza lo arresta alla dogana del porto di Genova, il 28 settembre. Ha due passaporti falsi. Fino a pochi giorni prima si faceva chiamare Mohammed Zhalaf.

Secondo l’accusa sarebbe il sovrintendente “a questo tipo di attività particolarmente pericolosa”. Nove anni anche a lui chiede il PM, perché in fin dei conti ha trasportato dalla Tunisia all’Italia, con due complici le armi nascoste in una Renault 9. E il tribunale mitiga con una condanna di otto anni, quello che appare come il più duro del gruppo, giacché nel corso del processo, Issa Abbas non solo rifiuta l’etichetta di essere uno che parla, ma ritratta parecchie dichiarazioni rese in istruttoria.

Tutti i testimoni hanno riconosciuto però il “buon comportamento” dei terroristi.

Ascoltiamo un ufficiale: “Siamo stati trattati bene, tranne all’inizio quando hanno diviso l’equipaggio dai passeggeri”.

Il comandante in seconda: “E’ vero, hanno discriminato i passeggeri. Chi è stato il migliore? Quello lì con la maglia rossa” dice, indicando Al Assadi, che sorride. Il commissario di bordo Cataldo Accardi: “Atti di violenza io non ne ho visti. Sembra incredibile, ma è la verità, sono stati umani con noi”.

C’è qualcuno che va oltre. È Costantino Miletti, cameriere: “Questi palestinesi sono venuti a bordo con un piano predisposto, avevano le idee chiare. Si sono comportati bene, questi poveri combattenti si sono comportati da patrioti, miravano con questo dirottamento alla liberazione di cinquanta ostaggi che stavano nelle mani degli ebrei, è in questo modo che propagandano nel mondo la loro lotta”.

Persino un maggiore dei carabinieri, Francesco Guarrata, ribadisce che il più buono della compagnia è stato il riccioluto Al Assadi, al quale si deve la vita di una donna, un’austriaca che avrebbe dovuto essere la seconda vittima. Alla fine del processo, i palestinesi sono stati condannati complessivamente a 34 anni, 9 mesi e 15 giorni di reclusione, contro i 37 e mezzo richiesti dall’accusa.

Rimane una domanda insoluta: chi uccise Leon Klinghoffer? Chi fu punito per la sua uccisione?

Reem mi dice che nessuno dei quattro militanti afferma di aver premuto il grilletto. Klinghoffer urlava e sbraitava, furono sparati dei colpi in aria e una pallottola vagante colpì l’ebreo americano, che, poco dopo, morì. Una spiegazione che non convince e che, ancora oggi, non ha una verità giudiziaria.

Il fallimento del sequestro, oltre a danneggiare la causa palestinese, danneggiò la reputazione di Abu al Abbas e divenne la “sua maledizione”, come un marchio d’infamia che gli rimase sempre addosso.

Le pagine del libro abbondano di notizie, pubbliche e private, e la cronaca del sequestro della nave “Achille Lauro” qui esposta, corrisponde alle pagine che ad esso ho dedicato nel mio libro Il terrorismo impunito, pagg. 232-234, Zambon editore, 2012. Integrano la letteratura esistente sul Medioriente e la causa palestinese. Ma oltre alla figura del combattente Abu al Abbas, ci affascina e ci coinvolge la combattente Reem al Nimer sullo sfondo di una società araba legata a pregiudizi, arretratezze e codici patriarcali. Reem diventa comunista, Che Guevara è il suo modello di comunista puro, studia, si emancipa intellettualmente ed ha il coraggio di sfidare i rigidi canoni familiari che tengono la donna in subordine. Il padre, direttore di banca, è un notabile benestante di Beirut e proibisce alla figlia il matrimonio con l’uomo che ama ma che ha la colpa di essere povero.

Reem disobbedisce, sposa Mohammad, il primo marito e fuggono nella Repubblica Democratica Tedesca:

“Il prestigio di mio padre ne fu danneggiato, almeno un po’, sia nella buona società di Beirut sia nell’ambito della comunità creditizia. E vi furono ripercussioni anche all’interno di una famiglia conservatrice come i Nimer. Suo fratello maggiore Rashed, che aveva allevato mio padre da bambino, venne a sapere del mio matrimonio e quindi, tutt’a un tratto, ebbe un infarto e morì. La mia famiglia mi incolpò per sempre della sua morte. Per la tradizione famigliare dei Nimer, era già inaudito che un uomo si sposasse al di fuori della nostra casta – nemmeno da pensare che lo facesse una donna. E che dire di una donna della famiglia che fuggisse con un uomo?

Be’, era semplicemente inconcepibile”.

Questa è la donna Reem al Nimer, rivoluzionaria e disposta al rischio fino a imitare le imprese di Robin Hood con azioni azzardate che compie assieme ai suoi compagni:

“Per raccogliere denaro sufficiente all’acquisto della dinamite, rapinammo due banche, una a Sidone e l’altra a Tiro”.

Nella seconda parte del libro, centrata sulla fuga e la clandestinità di Abu al Abbas fino alla sua morte, la narrazione assume un ritmo incalzante, intenso, appassionato e doloroso.

La cornice storica è costantemente presente, in ogni sua fase, e coniuga le sconfitte individuali con le sconfitte e le disillusioni della resistenza palestinese finita in un vicolo cieco a causa dell’intransigenza e delle false promesse dei sionisti e dei loro alleati e a causa dei tradimenti dei regimi arabi corrotti dai quali Abu al Abbas, spesso, dovette guardarsi le spalle.

Nonostante l’orizzonte buio della lotta, l’amore per la Palestina percorre il racconto con accenti dolenti e malinconici. In tutta la memorialistica palestinese, a cominciare dai racconti dei profughi sopravvissuti, ricorre costantemente il ricordo dei villaggi in cui si è nati e cresciuti. Abu al Abbas, in un nodo davvero insolito, riverbera quel sentimento:

“Durante quegli anni, Abu al-Abbas aveva pagato alcuni palestinesi locali perché scattassero fotografie della sua città d’origine, Tiret Haifa sul monte Carmelo, e gliele inviassero. Spesso costoro chiedevano in cambio somme assurdamente elevate. Ma lui era sempre felice di pagare. Abu al-Abbas trascorreva lunghe ore mettendo le foto una accanto all’altra, montandole insieme come le tessere di un puzzle, nel tentativo di creare una visuale panoramica del paesaggio. Imparava a memoria la posizione di ogni albero, balcone o angolo di strada..”.

La memoria, che gli ebrei sionisti hanno voluto uccidere con la pulizia etnica e la distruzione dei villaggi, si sublima nello struggimento per la separazione violenta da una comunità che per secoli ha vissuto radicata nella Palestina storica, con le sue tradizioni e i riti collettivi sullo sfondo di paesaggi pittoreschi pervasi di serenità rurale. Così, i militanti della resistenza si abbandonano alla nostalgia del proprio genius loci e desiderano il ritorno, il contatto col luogo dell’infanzia, la contemplazione dello scenario familiare in cui ritrovare la gioia e le lacrime della loro piccola patria. Come il mio amico Nemer Hammad  quando ritornò al suo villaggio di Al Kabri e ci ha raccontato l’emozione di aver trovato fragili tracce del luogo della propria infanzia, allo stesso modo Abu al Abbas ritorna a visitare la sua piccola patria assieme a Reem. Che cosa vede?

“Ciò che ci colpì mentre la attraversavamo in macchina fu una piccola capanna su una stradina, accanto al punto in cui sorgeva un tempo la casa della famiglia di Abu al-Abbas, subito dopo un incrocio con due grandi alberi che lui conosceva dalle fotografie di al-Tira che aveva raccolto nel corso degli anni. Quegli alberi erano chiaramente molto più antichi dello Stato di Israele. Ora lì viveva un ebreo israeliano ortodosso, tra mosche, immondizia e alcune galline luride e malnutrite. Vestito di nero, con lunghi riccioli, aveva l’aspetto del tipico fondamentalista ebraico – o almeno, dello stereotipo che ci eravamo formati di loro nel corso di molti anni. (…) Ci fermammo vicino a lui per chiedergli indicazioni. Abu al-Abbas, naturalmente, parlava con accento iracheno. Gli occhi dell’anziano ebreo si illuminarono, e chiese: “Lei, signore... viene dall’Iraq?”. Abu al-Abbas annuì, sorpreso che un israeliano riconoscesse il marcato accento iracheno. “Io sono originario di Mosul”, spiegò orgogliosamente l’ebreo (…). La celebre e unita comunità ebraica di Mosul era stata composta perlopiù da braccianti e bottegai, e da pochi grossi mercanti. Tutti e quattromila erano emigrati in Israele nel 1951. (…) Per lui, quel paese significava più del cumulo di rifiuti in cui aveva finito per vivere in Israele. Cominciò a fare domande precise riguardo a Mosul, naturalmente parlando con accento iracheno, e a sua volta Abu al-Abbas gli pose domande specifiche su al-Tira. Quei due uomini dalle origini diverse avevano scoperto un legame. Ciascuno dei due faceva ricordare all’altro un’epoca ormai passata. Di fronte al palestinese, stanco di vivere di Iraq e desideroso di ritornare in Palestina, c’era un ebreo israeliano, stanco di vivere in Palestina e desideroso di ritornare in Iraq. Ciascuno dei due aveva pagato il prezzo delle circostanze che la vita aveva loro imposto.”.

Questo insolito incontro ci appare come una metafora della convivenza possibile e necessaria: l’ebreo e il palestinese, liberi entrambi da intossicazioni nazionalistiche, che si incontrano e rimpiangono due piccole patrie diverse in cui avevano ben vissuto, ma che ci mostrano la possibilità dell’integrazione, della tolleranza e della convivenza che sono sempre esistite in Palestina fino alla vigilia dell’impresa sionista che ha fatto calare su tutto il Medioriente una lunga notte di violenza e di barbarie che, tuttora, non accenna a finire.

 

Dicembre 2015,  Diego Siragusa, ( Comitato scientifico del CIVG)

La maledizione dell’Achille Lauro. La storia di Abu al-AbbasDi REEM AL-NIMER

Introduzione di Diego Siragusa, pp. 287, euro 18,00   - Zambon editore

Il libro è disponibile presso il CIVG: info@civg.it