I cuori e le menti

dicembre 2015

            A Milano e a Roma poco più di un migliaio di persone hanno partecipato sabato 21 novembre scorso alla manifestazione nazionale delle comunità islamiche italiane Not in my name contro il terrorismo. Le cifre sulla partecipazione fornite dalle questure sono impietose. Un flop colossale, tenendo conto che i fedeli musulmani in Italia sono all'incirca due milioni. Tranne i pochi benestanti integrati e coloro che dovevano essere presenti per dovere d’ufficio, quasi tutti gli islamici sono rimasti a casa. Dire che non sono andati alla manifestazione per via del tempo inclemente o per impegni di lavoro è ridicolo.

            I musulmani hanno disertato le manifestazioni perché hanno  ben compreso che a loro è richiesto assai di più che una semplice condanna del terrorismo cosiddetto “islamico”. Da loro si pretende il riconoscimento della superiorità della religione, della cultura, dei “valori” dell'Occidente. Ai musulmani viene chiesto di adeguarsi allo stile di vita occidentale, di rinnegare le loro tradizioni, ma soprattutto, non detto, ma sottinteso, di cancellare dalla memoria secoli di colonialismo e imperialismo occidentale genocida. Un atto di sottomissione totale insomma che, mutatis mutandis, è più o meno simile a ciò che l’ISIS impone, pena anche la morte, agli abitanti dei territori conquistati dal Califfato.

            Il silenzio che la maggioranza degli arabi, dei musulmani si impongono di fronte all'argomento “terrorismo”, o l'attenersi strettamente al testo coranico astenendosi da qualsiasi commento politico,è dovuto alla paura delle conseguenze. Perché, discostandosi dal politicamente corretto, potrebbero finire come quel ragazzo maghrebino che a una cronista ha dichiarato di condannare gli attentati del 13 novembre, ma si è detto d'accordo con quelli contro Charlie Hebdo del gennaio scorso perché i redattori avevano offeso ripetutamente il Profeta. Individuato dalla polizia, il ragazzo è stato espulso dall'Italia non in quanto spacciatore al dettaglio di sostanze stupefacenti, come sarebbe stato giusto, ma per le dichiarazioni rilasciate.

            Questo tentativo di colonizzazione dei “cuori e delle menti” dei musulmani è stato ben esplicitato sul Corriere della Sera del 23 novembre scorso in un articolo dall'eloquente titolo “E' arrivato il momento di una 'guerra culturale'” firmato da Pierluigi Battista. Il quale in sostanza propone un lavaggio del cervello degli islamici, una sorta di “guerra culturale fredda” simile a quella che la CIA ingaggiò contro l'URSS per dimostrare “quanto fosse più attraente il modello della libertà americana sull'oppressione del totalitarismo comunista. Una guerra per la conquista dei cuori e delle menti di chi stava dall'altra parte della cortina di ferro”.

            Questo obiettivo di neocolonizzazione dei cuori e delle menti è, a mio avviso, destinato a fallire. Perché non siamo più negli anni della Guerra Fredda quando, proprio grazie all'esistenza dell'URSS, il capitalismo era costretto a dimostrare ogni giorno  alle classi subalterne la sua superiorità in fatto di libertà, di democrazia, di benessere, rispetto ai non certo esaltanti esempi dell'Est europeo. Perché non viviamo più nel capitalismo opulento del welfare, e si sono conclusi nel 1975 i cosiddetti “trent'anni gloriosi del capitalismo”. La nuova fase del capitalismo prevede  sempre minore libertà per tutti i popoli, finta democrazia, agonia del welfare, ricchezza concentrata in un'élite sempre più ristretta di persone, povertà per sempre crescenti strati di popolazione, guerre d'aggressione  per  i “diritti umani”contro quei popoli o quei regimi che non vogliono adeguarsi ai cosiddetti “valori dell'Occidente”. Insomma, l'Europa non ha più nulla da offrire, neanche la sicurezza dell'incolumità personale.

            Gli eventi di Parigi del 13 novembre scorso ci dicono infatti che, nella guerra contro i suoi nemici, l'ISIS si è oramai adeguato a standard genuinamente occidentali riguardo ai bersagli da colpire: non più obiettivi simbolici, ma la popolazione civile. La Storia ci racconta appunto  che, perlomeno dal bombardamento di Guernica, per intaccare il morale del nemico, per creare il caos sul fronte interno, la popolazione civile è diventata il bersaglio preferito di tutte le guerre promosse dagli occidentali. I feroci bombardamenti nazisti su Coventry, quelli altrettanto gratuiti anglo-statunitensi su Dresda e le due bombe atomiche che la “migliore nazione della Terra, la più piena d'amore” ha sganciato sulla popolazione civile di Hiroshima e Nagasaki sono gli esempi più conosciuti di questa strategia bellica in vigore ormai da 80 anni a questa parte. I numeri parlano chiaro: nelle guerre moderne, il rapporto dei morti militari/civili è di uno a nove.

            Ciò che non permette di conquistare i cuori e le menti degli arabi, dei musulmani, è il genetico razzismo che domina l'Occidente capitalistico. Non si vuole qui parlare del razzismo spicciolo, artigianale. Come ad esempio la battuta sui calciatori neri mangiatori di banane: in questi casi non si può neanche parlare di razzismo, trattandosi più che altro di ignoranza e coglionaggine. Né si vuol parlare di quel razzismo da campagna elettorale su cui giornalmente si sono azzuffati per un mese  in tutti i talk show reazionari di ogni specie e finti antirazzisti di "sinistra".

            La più odiosa discriminazione razziale che pervade l'Occidente è quella per cui non solo i vivi, ma pure i morti hanno un peso assai differente fra loro. Ad esempio, alcuni quotidiani italiani hanno pubblicato le foto di tutte le vittime degli attentati di Parigi, con i dati essenziali: nome e cognome, età, attività svolta, stato di famiglia. Per ciascuna delle vittime di Parigi sono stati osservati minuti di silenzio, celebrati funerali di Stato, indette manifestazioni pubbliche. Qualcuno ricorda invece  anche solo un nome, un volto, dei più dei duecento passeggeri dell'aereo russo fatto esplodere sul Sinai? Non si sono mai saputi, eppure anche costoro sono stati vittime del “terrorismo” dell'ISIS. O almeno i nomi, pazienza per le foto, di quella quarantina di libanesi vittime dell'attentato di Beirut sempre ad opera della “fanteria americana” operante in Medio Oriente e conosciuta come ISIS? Si sa che nella classifica delle razze gli slavi stanno nelle ultime posizioni, mentre gli arabi, come gli africani, sono fuori classifica, in quanto non ritenuti neanche appartenenti al genere umano.

            Ma c'è di più. Esiste anche una classifica, ovviamente stilata dai popoli eletti,  sui genocidi perpetrati dopo la seconda guerra mondiale. Naturalmente in questa lista di colpevoli di grandi misfatti figurano solo popoli barbari, razze inferiori, mentre l'Occidente, essendo notoriamente portatore di pace, propugnatore dei diritti umani, il bene per antonomasia, è totalmente assente da questa classifica. Che vede  in testa i famigerati khmer rossi cambogiani con più di due milioni di connazionali uccisi, seguiti a distanza dal milione di Tutsi massacrati dagli Hutu in Ruanda e al terzo posto, a molte lunghezze, la strage di circa diecimila musulmani bosniaci di Srebrenica ad opera delle milizie serbo bosniache di Mladic. Questa classifica compare sempre quando si tratta di giustificare l'aggressione al "dittatore sanguinario" di turno, da eliminare in quanto non gradito alle potenze occidentali; mentre non compare mai quando i massacri (Bahrein 2011, Yemen 2015) sono perpetrati da regimi arabi cosiddetti "moderati" in quanto alleati dell'Occidente, come l'Arabia Saudita.

            Come detto, in questa classifica degli orrori non figurano mai le potenze imperialiste occidentali. Non troveremo mai, ad esempio, l'embargo decretato contro l'Iraq, il più crudele della storia, che in dodici anni (1991-2003) causò due milioni di morti perché impediva alla popolazione civile di procurarsi cibo e medicinali. L'intento dichiarato era quello di portare all'esasperazione la popolazione civile per provocare una ribellione contro Saddam Hussein. Nonostante le incredibili sofferenze inferte a quel popolo, l'embargo non sortì l'effetto sperato. L'unico risultato dell'embargo fu una catastrofe umanitaria di proporzioni gigantesche, che nel 1998 l'irlandese Dennis Halliday, vicesegretario generale dell'ONU e coordinatore del programma umanitario ONU in Iraq, definì "di fatto un genocidio". Invece, nel maggio 1996,  nel corso del programma televisivo 60 minutes, una giornalista pose all'allora ambasciatrice all'ONU della "migliore nazione della Terra, la più piena d'amore", signora Madeleine Albright, la seguente domanda: "Abbiamo sentito che sono morti mezzo milione di bambini iracheni per l'embargo. E' un numero superiore a quello dei bambini di Hiroshima. E' possibile pagare tale prezzo?". La Albright rispose: "E' una scelta molto dura, ma credo che ne valga la pena". Le potenze occidentali che con l'etichetta ONU privarono allora i cittadini iracheni di tutti i diritti previsti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo sono le stesse  che in tempi più recenti promuovono guerre d'aggressione, bombardano altre popolazioni con la scusa di voler affermare tali diritti.

            Per tali crimini sono del tutto insufficienti le finte scuse di Tony Blair per la seconda guerra all'Iraq del 2003. Bisognerebbe chiedere ufficialmente perdono a tutti quei popoli che sono stati e sono tuttora al centro delle amorevoli attenzioni degli USA e dei suoi alleati, e promettere che fatti simili non succederanno mai più. Sarebbe un gesto dovuto, un atto di giustizia, questo sì un atto di grande civiltà e da grande civiltà.