PALERMO 19 ottobre 1944. UN CRIMINE DI GUERRA: La strage di via Maqueda
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- Scritto da Marcello Russo
19-10-2015
Palermo, 19 ottobre del 1944: la città, come l’intera isola, è allo stremo; mancano vestiario e generi di primi necessità; chi può, ormai pochi, si rifornisce al mercato nero i cui prezzi sono fuori ogni controllo.
In questo contesto viene indetto uno sciopero per giorno 18 ottobre, ma viene sospeso in attesa dei risultati di un incontro con il commissario prefettizio, barone Enrico Merlo, che dà esito negativo in quanto il Comune è senza soldi.
I manifestanti decidono, allora, di ripresentarsi l’indomani per portare avanti le loro rimostranze. Alla mattina del 19 ottobre tra i dimostranti vi sono dipendenti comunali, netturbini, impiegati degli Uffici Razionamento e Consumi, postelegrafonici e ferrovieri, a cui si aggiungono militanti della Lega Giovanile Separatista e semplici cittadini soprattutto donne, bambini e ragazzi.
Verso mezzogiorno si forma un lungo corteo che si diresse verso Palazzo Comitini, in Via Maqueda, sede della Prefettura, con l’intento di chiedere il ricevimento di una delegazione presso il prefetto Paolo D’Antoni e l’Alto Commissario per la Sicilia, Salvatore Aldisio.
I dimostranti richiedono salari adeguati al carovita e pane e pasta per tutti. Nel frattempo la folla incomincia ad ammassarsi di fronte la Prefettura presidiata da una trentina di uomini tra carabinieri e agenti di pubblica sicurezza. Appena si apprende dell’assenza del prefetto e dell’Alto Commissario, si perde la pazienza. Alcuni facinorosi presero a battere con pietre e legni le saracinesche dei negozi chiusi, provocando un forte frastuono.
Preso dal panico, il vice-prefetto Giuseppe Pampillonia, telefona al Comando Militare della Sicilia, chiedendo l’invio urgente di soldati per difendere la prefettura. Dalla caserma “Ciro Scianna” partono, quindi, guidati da Calogero Lo Sardo, un giovane sottotenente originario di Canicattì, cinquanta soldati della 139^ fanteria “Sabauda”, quasi tutti sardi, armati di fucili e bombe a mano. All’arrivo delle camionette, i manifestanti accolsero i militari con lanci di pietre. Il Sottotenente ordina immediatamente di sparare ad altezza d’uomo e lanciare bombe a mano sulla folla. Ventiquattro manifestanti, molti dei quali giovanissimi, rimangono uccisi, mentre altri centocinquantotto sono feriti, alcuni dei quali gravemente. Ecco la “strage del pane”.
Non è finita qui, purtroppo. Il giorno dopo, nella versione ufficiale del Governo, si sosteneva che i manifestanti avessero sparato colpi di pistola; inoltre venivano contati venti vittime e centosei feriti, che erano ritenuti, comunque, un necessario tributo per poter ristabilire l’ordine. Si tentò anche di far ricadere le colpe sui separatisti, ma inutilmente in quanto senza nessuna prova.
Il 20 febbraio 1947 si tenne il processo, presso il Tribunale militare di Taranto, che si concluse in appena due giorni con lo stesso Pubblico Ministero a sostenere che non di delitto di strage si dovesse trattare, ma semmai di «eccesso colposo nell’uso legittimo di armi». La corte riconobbe l’eccesso, ma dichiarò di “non doversi procedere a carico degli imputati per essere tutti i delitti estinti per amnistia”.
Solo nel 1994 si è sentito il dovere di ricordare questa strage dimenticata, o meglio dire tenuta nascosta, con la Provincia che pose una lapide, a onore delle vittime innocenti, nell’atrio di Palazzo Comitini.
L’anno seguente, per la prima volta venne raccontata la strage da uno dei fanti che partecipò all’operazione, Giovanni Pala, dichiarando al giornalista dell’Unità, Giorgio Frasca Polara, che “Per anni, mi sono tenuto dentro un tormento. È vero che non sparai neppure un colpo, ma mi sentivo in colpa per aver partecipato alla congiura del silenzio su quella orribile strage, cancellata dalla memoria storica del Paese.[...] Quando arrivammo, vidi perfettamente che non era in corso alcun assalto. Quando la nostra colonna raggiunse alle spalle la folla, il tenente Lo Sardo diede ordine di scendere dai mezzi e di caricare i fucili. Tutto accadde in pochi istanti. I soldati che erano in testa al convoglio cominciarono a sparare ad altezza d’uomo e a scagliare bombe. Fu il terrore. La gente scappava da tutte le parti, lasciando sulla strada morti e feriti. Una scena bestiale”.
La “strage del pane” è uno di quei fatti – uno dei tanti nella storia della Sicilia italiana – che fanno riflettere su ciò che, per lo Stato Italiano, rappresentano l’Isola ed i suoi abitanti.
Marcello Russo da l’Altra Sicilia