Gli indigeni dell’Ecuador portano la Chevron davanti alla Corte Penale Internazionale

 17/11/2014

Conferenza stampa. Da sinistra a destra: Simón Lucitande Yaiguaje, Luis Piayaguaje Piaguaje, Emilio Lucitante Auguaje, Humberto Piaguaje, Pablo Fajardo, Mario Melo.

Una sentenza storica. Così, nel febbraio del 2011, tutti i media mondiali avevano commentato il provvedimento di una corte dell’Ecuador che condannava la Chevron a pagare un risarcimento di 9,5 miliardi di dollari. La multinazionale petrolifera statunitense era stata infatti dichiarata responsabile di inaudite violazioni ambientali durante gli oltre due decenni di attività estrattiva nella provincia amazzonica di Sucumbios. Fra il 1967 e il 1990 la Texaco, successivamente acquistata da Chevron, aveva violato anche i più minimi standard di tutela dell’ambiente.

Il 12 novembre del 2013 la Corte Nazionale di Giustizia del Paese latino americano ha ratificato la sentenza, rendendola esecutiva, ma ha eliminato la clausola che prevedeva il raddoppio dell’importo nel caso non fossero presentate delle scuse formali. La somma ammonta a 8,6 miliardi di dollari, cui va aggiunto un ulteriore 10% come risarcimento al Frente de Defensa de la Amazonía. La Chevron non solo non ha alcuna intenzione di presentare le sue scuse, ma non vuole pagare nemmeno un dollaro.

L’Union de Afectados y Afectadas por las Operaciones de Texaco, ovvero l’organizzazione che raggruppa le popolazioni indigene che hanno subito le conseguenze delle operazioni della multinazionale statunitense, sta continuando la sua annosa lotta non lasciando intentata alcuna azione. Poco meno di un mese fa, l’organizzazione ha presentato ricorso contro la Chevron presso il Tribunale Penale Internazionale de L’Aja, sostenendo che il mancato risarcimento dei danni causati è una violazione dei diritti umani della popolazione dell’Ecuador.

All’epoca dei fatti contestati alla Texaco-Chevron, la corporation ha scaricato nel suolo senza alcun trattamento oltre 60mila milioni di litri d’acqua, inquinando i fiumi e distruggendo la fauna e la vegetazione della regione. In questo modo hanno distrutto tutte le fonti primarie di alimentazione dei popoli indigeni, in particolare il pesce. Ovviamente la popolazione locale ha patito tantissimo le conseguenze di una condotta del genere. Secondo uno studio, i casi di tumore nell’area sarebbero superiori del 150 per cento rispetto alla media nazionale.

Per capirne di più su questa storia che a tratti ha dell’incredibile, alcuni mesi fa abbiamo incontrato l’avvocato Pablo Fajardo. vincitore nel 2008 del Goldman Prize per l’ecologia. Fajardo segue il caso fin dagli anni Novanta, quando la causa fu istruita a New York, per poi essere spostata in Ecuador.

“Quando la causa è stata spostata in Ecuador, la Chevron si era impegnata per iscritto a rispettare la sentenza, qualsiasi essa fosse. Ora ha venduto tutti i suoi beni nel Paese per non assolvere ai suoi obblighi pecuniari e sta facendo di tutto per screditare il provvedimento, rivolgendosi a giudici americani compiacenti”.

L’ultimo in ordine di tempo è il ricorso presentato a fine 2013 a una Corte di New York. Basandosi su una legge federale degli anni ’70, pensata per combattere la mafia e il crimine organizzato – il cosiddetto RICO Act – Chevron ha denunciato i firmatari della class action e i loro avvocati, tra cui Fajardo, accusandoli di essere a capo di un’organizzazione a delinquere che ha corrotto giudici e autorità locali al fine di ottenere una sentenza favorevole. Una situazione a dir poco kafkiana. Le comunità non si arrendono e hanno già messo in piedi altre cause nei paesi in cui è attiva la Chevron, dall’Argentina al Canada, per ottenere il pagamento delle compensazioni. Come visto, ora è stato tirato in ballo anche la Corte Penale Internazionale, il quale con un suo pronunciamento a favore delle comunità indigene potrebbe fissare un precedente di fondamentale importanza.

Da recommon