Fare memoria, Parini: "Ricordare è resistere"

24/06/2014

Per il sociologo Ercole Giap Parini la memoria è questione di resistenza, non di fiori deposti annualmente sulle tombe: "Ricordare significa rivendicare una nuova identità per sé, per il proprio collettivo, per la propria città". Opponendosi alle narrazioni costruite da un potere a caccia di consenso e impastate dell'oblio delle vittime di 'ndrangheta. Esperto di sociologia della scienza, teoria sociale e sociologia della devianza, con particolare riferimento alla criminalità organizzata di stampo mafioso, in questa intervista a Stopndrangheta.it Parini parla di identità collettiva, ricordo, dimenticanza, e dell'importanza dei simboli, come strade e piazze intitolate alle vittime, "purché non diventino semplici valvole di sfogo per la coscienza". (Nella foto, Salvador Dalì, La persistenza della memoria)

COSENZA - Per Ercole Giap Parini (nella foto accanto), ricercatore di Sociologia generale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università della Calabria, la memoria è questione di resistenza, non di fiori deposti annualmente sulle tombe. E' tensione dolorosa. "Ricordare significa rivendicare una nuova identità per sé, per il proprio collettivo, per la propria città".  Opponendosi alle narrazioni costruite da un potere a caccia di consenso e impastate dell'oblio delle vittime di 'ndrangheta. Esperto di sociologia della scienza, teoria sociale e sociologia della devianza, con particolare riferimento alla criminalità organizzata di stampo mafioso, in questa intervista a Stopndrangheta.it Parini parla di identità collettiva, ricordo, dimenticanza, e dell'importanza dei simboli, come strade e piazze intitolate alle vittime, "purché non diventino semplici valvole di sfogo per la coscienza".

Partiamo dai concetti di "memoria collettiva" e "identità collettiva".

«La memoria e l'identità non sono cose che possediamo. La memoria non è un sacchetto nel quale mettiamo i ricordi, come se fossero oggetti che testimoniano il passato e che devono essere riposti. Allo stesso modo, l'identità non è un contenitore dei nostri dati anagrafici, delle nostre caratteristiche somatiche e di tutte le altre cose che ci costituiscono. Non sono "cose", sono, piuttosto, dei processi. E per definirli mi piace usare il termine "tensione", perché memoria e identità ci attraversano in maniera spesso dolorosa e, a volte, contraddittoria».

Significa che memoria e identità sono mutevoli?

«Noi siamo condannati (o forse beati) a riscrivere continuamente la memoria e l'identità. Quando ricordiamo eventi del passato, lo facciamo alla luce della nostra situazione attuale. Quello che siamo stati ieri, dieci anni fa, vent'anni fa, non siamo oggi e non siamo quello che saremo tra un po' di tempo. Questo non significa certamente negare che le esperienze passate ci hanno plasmato; semplicemente dobbiamo considerarle come parte di un flusso. La memoria è sempre declinata al tempo del presente, ricordiamo ora, in questo momento. Sta proprio qui la possibilità di concepire la memoria come forma di azione, quindi di potere e di resistenza».

Cosa vuol dire "ricordare"?

«Significa esistere, resistere, ma anche desistere. Siamo immancabilmente selettivi con il nostro passato: possiamo ricordare, ma possiamo anche dimenticare. In fondo, dimenticare è una forma di memoria che plasma - nel senso del nascondimento - il percorso con il quale costruiamo la nostra identità. L'identità si nutre di memoria. Ma anche di oblio. In certi momenti riappropriarsi di una memoria significa fare vivere con noi il passato e riscrivere il nostro presente. Significa appropriarsi della possibilità di riscrivere quello che siamo».

Che significato ha ricordare delle vittime di mafia?

«Non significa tanto portare alla luce qualcosa, magari un passato che ci ha visti in maniera differente colpevoli; significa iniettare linfa nei nostri processi identitari e ispirare corsi di azione e di resistenza. Penso naturalmente alla possibilità di (ri)costruire una identità collettiva che si alimenti di un ricordo che qualcuno ha indotto a dimenticare. Perché ricordare significa rivendicare una nuova identità per sé, per il proprio collettivo, per la propria città. Se la città ha vissuto col ricordo dell'oblio, della dimenticanza - è un ossimoro, ma neanche tanto - è perché la città, nel passato, ha voluto dimenticare, ha voluto oscurare. Che poi ha significato rinunciare all'azione e alla resistenza».

Coscientemente?

«Coscientemente e incoscientemente. Per esempio, ha voluto dimenticare le pagine brutte perché non stanno insieme con l'immagine edulcorata che i benpensanti di turno hanno voluto costruire:  Reggio città del divertimento, Reggio città che si culla nel suo passato millenario glorioso, ma incapace di fare i conti con un presente strutturalmente asfittico. Oggi è cruciale riscrivere una storia che si alimenti anche di ricordi scomodi e per qualcuno imbarazzanti. Ricordare, per esempio, i vigili Marino e Macheda significa contribuire a costruire una immagine di Reggio sicuramente meno edulcorata e rassicurante,  ma di città finalmente capace di resistere».

La scelta dell'oblio, della dimenticanza ha portato alla costituzione di un'identità collettiva non aderente alla realtà, si può dire così?

«Da sociologo rispondo che non esiste un'identità fasulla né un'identità genuina. Esiste, invece, la possibilità di scelta tra un'identità che vuole fare i conti con la propria storia e un'identità che, questi conti, preferisce non farli. Il fatto è che la costruzione di un'identità è spesso in mano al "potere" che elabora la propria storia guardando al consenso. E il consenso si alimenta con immagini edulcorate e rassicuranti. Il potere ha bisogno di costruire una storia celebrativa di sé stesso. Per farlo, può rispolverare miti, riscrivere storie. Da che mondo è mondo, il potere pretende controllo sulla memoria collettiva, quindi sull'identità: noi siamo questa cosa, noi siamo la Reggio dei grandi fasti, noi siamo la Reggio del chilometro più bello d'Italia e via dicendo. Nella ricostruzione celebrativa del passato vi è sempre la rimozione del passato scomodo. In questa logica il ricordo di due vittime di mafia può essere controproducente per alcuni perché dissonante rispetto a quella storia celebrativa».

Una storia a proprio uso e consumo, quindi?

«Faccio l'esempio degli storici di professione per rimarcare l'ineluttabilità di questo processo. Lo storico procede per selezioni: è lui che decide dove puntare la luce della sua torcia. Non può scrivere tutto quello che accade in una certa epoca. Sarebbe, ad un tempo, impossibile, assurdo e inutile. La storia deve essere raccontata necessariamente da un certo punto di vista. E in questo hanno peso i valori di chi la scrive, i suoi interessi e tante altre cose che lo rendono figlio di una certa epoca. Non esiste la storia raccontata oggettivamente, se per oggettività intendiamo la pura attinenza ai fatti. Ogni fatto è fatto interpretato a partire dai nostri valori, che sono come degli occhiali che inforchiamo per guardarlo. Gli storici di professione hanno il dovere deontologico di dichiarare l'ineluttabilità delle scelte fatte. Quando invece la ricostruzione della storia è fatta a fini di autocelebrazione, ecco che si tira fuori l'oggettività di quello che si racconta. Questa è la storia e nessun'altra storia è possibile. Sono espressioni tipiche di chi vuole riprodurre il proprio potere».

Torniamo alle ragioni dell'oblio. Abbiamo visto le ragioni del potere, ma quali sono quelle della "gente comune"?

«L'espressione "gente comune" non mi piace, perché è un'astrazione, una comoda semplificazione. Parliamo di persone non impegnate che sono spesso guidate dal cosiddetto quieto vivere: si è portati ad accettare certe nefandezze perché si fa parte di una grande narrazione collettiva, basata sulla rimozione del ricordo scomodo, in cui ciascuno ha qualche piccolo interesse da tutelare. È la società opaca, vischiosa. I mafiosi - che del potere sono una parte - non fondano la loro presenza soltanto sull'uso della violenza; si alimentano anche di consenso. Parlo di un consenso spesso tacito. Nel contesto in cui sono presenti, i mafiosi cercano di avere rapporti con interlocutori chiave con i quali sanciscono patti oscuri e pericolosi. È così che si costituiscono i gruppi di potere, i potentati. Intorno, c'è una pletora di persone che vive nel riflesso di quei rapporti: non condividono necessariamente le stesse colpe in senso criminale, ma godono di vantaggi riflessi, piccoli favori, insignificanti "entrature" che, in certi contesti, possono fare la differenza. Talvolta anche le cosiddette "brave persone" si adattano e mettono in conto la possibilità che alla tal persona ci si potrà rivolgere quando il figlio avrà bisogno di trovare lavoro. Chiamiamolo pure una sorta di principio di cautela! Lo scenario è una società in cui è diffuso l'oscuramento del concetto di diritto. I diritti vengono privatizzati e trasformati in favori. Questo ci riporta tristemente ad una situazione che i sociologi definiscono pre-moderna, in cui il cittadino diventa suddito del signore di turno. Proprio quel signore che pretende di costruire la memoria e l'identità di una città come di uno Stato».

E allora che fare?

«Raccontare contro-storie, operare resistenze, costruire nuova memoria, bisogna riscrivere la storia e pretendere, in questa lotta per l'egemonia, di essere ascoltati. Una città può anche avere una tendenza alla rimozione, può anche sottostare all'arroganza di un sistema che usurpa i diritti. Tuttavia una città è, anche nei suoi momenti peggiori, un corpo pulsante, in cui c'è sempre qualcuno che non ci sta e che oppone una forma di resistenza. Tali forme di resistenza producono dei cortocircuiti che portano ad innestare il ricordo della dimenticanza. In certi momenti, queste forme di resistenza sono in grado di riscrivere la storia collettiva. E quindi l'identità. Ecco perché è importante che sempre più persone possano riconoscersi in un'altra storia».

Esistono delle forme dannose di ricordo per la memoria e l'identità collettive?

«La commemorazione/celebrazione della morte può essere un "gioco" pericoloso, perché è sempre presente il pericolo che quella resistenza si trasformi in una sorta di prosecuzione della morte. Io questa la chiamo l'"antimafia reliquiaria". I mafiosi ottengono la morte fisica delle persone, la loro celebrazione ne può sancire la morte sociale. Pensiamo a quelli che oggi sono diventati degli eroi indiscussi, Falcone e Borsellino: intorno a loro c'è poca memoria critica (non critica nei loro confronti, ma critica nei confronti del sistema che ha prodotto quella strage) e c'è molta memoria celebrativa. Le persone che un tempo consideravano Falcone e Borsellino, nel migliore dei casi, dei "rompiscatole" oggi si appuntano una virtuale spilletta di Falcone e Borsellino al bavero della giacca. Ho l'impressione che l'aver fatto degli eroi di Falcone e Borsellino abbia contribuito a smussarne l'affilatezza delle armi, trasformandoli in comode valvole di sfogo per la coscienza collettiva. Quindi il modo reliquiario di intendere la memoria ha delle controindicazioni piuttosto serie. Per evitarle bisogna non commemorare o, peggio, celebrare la morte, ma tenere vivo quell'esempio perché sia ispiratore di nuove azioni. Se accanto alla produzione di nuova memoria non è scritto anche un corso d'azioni, un simbolo diventa soltanto un luogo in cui deporre dei fiori ogni anno. Sarebbe un pessimo servizio. E poi, fammi aggiungere un'altra cosa: la memoria ha senso se un pochino ci fa sentire in colpa, nel quotidiano, nel presente, nel mentre pensiamo a come agire».

I segni tangibili di memoria in una città fissano un'immagine precisa nella sua storia?

«Ciò che una città come Reggio e una regione come la Calabria devono combattere è proprio l'immagine di contesti omertosi che hanno proiettato in tutto il mondo. All'esterno l'immagine che passa è che i reggini, i calabresi non sono capaci di denunciare i propri mali. Le generalizzazioni sono sempre stupide, e degli stereotipi non ci si deve fidare. Però ho imparato, da sociologo, che dietro a ogni stereotipo c'è una radice sociale. Forse bisogna fare in modo che una reazione a questi stereotipi passi attraverso una contro-narrazione critica della propria storia. Quando amiamo qualcosa (una persona come una città) dobbiamo essere anche capaci di spietatezza.  L'amore passa per la spietatezza e la nostra storia di calabresi non è una storia bella. Ma siamo in buona compagnia, perché, in fondo, non esistono storie inequivocabilmente belle. C'è chi ribatte che si rischia di fare un danno al turismo a parlare di mafia. Io rispondo che i turisti si debbono attrarre attraverso azioni orientate a rendere la Calabria più vivibile e anche più credibile. E questo implica di non nascondere scomode verità sotto il tappeto della coscienza. Altrimenti, ci si accontenti di un altro turismo, quello che io chiamo da Bbc (ricordando certi documentari ad uso del turista britannico in cerca di facili emozioni esotiche), che dipingono Reggio Calabria, ma è anche il caso di Palermo, come contesti di una mafia da souvenir, alimentata da una memorialistica cinematografica e letteraria che non fa che contribuire alla riproduzione del fenomeno».

In questi processi di continua ricostruzione della memoria e dell'identità, la lotta per imporre dei segni tangibili in città da parte di associazioni (l'intitolazione di strade o palazzi a vittime di mafia, ad esempio) è una forma di "resistenza", è il racconto di una "contro-storia"?

«Bisogna resistere raccontando altre storie possibili, contro un modo totalitario di esercizio del potere. E la presenza delle organizzazioni mafiose in certi ambienti - come ha messo in evidenza Renate Siebert - impone una forma di totalitarismo. Dove la mafia è presente, spesso i cittadini sono spinti a diventare sudditi; si tratta di un potere che si impiccia di tutto, che pretende di avere controllo sui corpi denudati dei diritti che la Costituzione garantisce. Proprio in questi contesti è importante una lotta di resistenza che produca anche simboli, ma sottraendoli al pericolo di diventare semplici valvole di sfogo per la coscienza. Come è avvenuto qualche tempo fa con quelle iscrizioni poste - pur probabilmente in ottima fede - alle porte dei comuni "Qui la mafia non entra". Considero quella operazione un modo per rendere inoffensiva la resistenza. La storia dev'essere fatta a più voci. Quanto più questo percorso è collettivo, partecipato, plurale, tanto più approssimiamo quell'ideale di oggettività che, nel nostro caso, deve coincidere con il sapere critico e diffidente nei confronti di ricostruzioni storiche a uso e consumo del potere, quello mafioso compreso. E le associazioni hanno un ruolo importante in questa forma di resistenza».

Da stop’ndragheta.it