Medio Oriente: Mutamenti profondi e forse irreversibili

Comincia con questa riflessione, la collaborazione di Angelo Travaglini, ex Ambasciatore, sancendo così l’adesione al CIVG di cui entra a far parte nel Comitato Scientifico.

Premessa

Gli eventi in corso di svolgimento in Iraq rivestono un’importanza primordiale nella misura in cui potrebbero rivelarsi portatori di mutamenti irreversibili nella mappa del Medio Oriente quale noi conosciamo.

La proclamazione, da parte dell’ISIL (Stato islamico in Iraq e nel Levante), di un Califfato su un’area che va dall’est della Siria all’ovest dell’Iraq, dall’alto significato simbolico seppur dalla portata effettiva tutta da verificare, avvenuta lo scorso 29 giugno, primo giorno del sacro mese del Ramadan, suona conferma degli intendimenti dello schieramento estremista, sorto in Iraq, di conferire tratti di legittimità e credibilità internazionale alla sua azione destabilizzante volta ad alterare la configurazione territoriale concordata agli inizi del secolo scorso dalle diplomazie di Francia e Gran Bretagna.

Con la proclamazione del Califfato la formazione jihadista ha ridato vita ad una forma di potere politico venuta meno nell’universo islamico con la scomparsa dell’Impero ottomano all’indomani della prima guerra mondiale.

L’ISIL, divenuto ora I.S. (Islamic State), trae la sua origine dalla branca irachena di Al-Qaeda. (A.Q.I., Al-Qaeda in Iraq), nata come forza di contrapposizione all’occupazione americana di quel Paese conseguente all’aggressione del 2003, sull’onda della rivolta sunnita esplosa nel 2004 contro gli invasori. La repressione di cui fu oggetto, appoggiata dagli USA e realizzata congiuntamente dal Governo di Baghdad e dalle tribù sunnite, fonte di stragi a matrice settaria che insanguinarono il Paese nel 2006 e 2007, spinse l’organizzazione a un ripiegamento strategico alla ricerca di altri approdi dove sviluppare la propria azione terroristica. La guerra civile nella Siria di Bashar al Assad si rivelò la sponda ideale per una rinascita del movimento che, a partire dalla primavera del 2013, perse la sua esclusiva connotazione irachena per interagire con formazioni estremiste islamiche nate in Siria ed affiliate ad Al-Qaeda, operanti principalmente all’interno del cosiddetto “Fronte di Al Nusra”.

Il risultato di tale osmosi è stato l’occupazione militare jihadista di larghi spazi della Siria nord-orientale prospicienti la frontiera occidentale dell’Iraq. La sinergia tra le due matrici irachena e siriana si è nondimeno rivelata tutt’altro che idilliaca, portando a conflitti tra le due formazioni, tuttora in essere, mentre anche dalla stessa centrale di Al-Qaeda, ora governata dal successore del defunto Bin Laden, l’egiziano Ayman al-Zawahiri, sono partite aspre critiche nei confronti dell’ISIL iracheno, peraltro stranamente assente dalla pletora dei movimenti islamici per i quali Israele resta il nemico principale da abbattere. Tale critica gli viene mossa anche da schieramenti islamisti più moderati, tra cui l’Esercito libero siriano, filo-occidentale, pronti a prendere le distanze, oltre che le armi, da una formazione che suscita al momento un senso di comprensibile sconcerto nell’universo arabo, includendovi anche settori della galassia jihadista.

Questo costituisce il retroterra di quel che è avvenuto in maniera fulminante poche settimane orsono in Iraq. Questo costituisce altresì la prova del fallimento di una politica statunitense che dall’inizio dell’attacco a Saddam Hussein nel 2003 ha fatto esplodere le tensioni settarie, covanti in ogni realtà araba, alimentate dal contrasto implacabile tra le due principali branche dell’Islam, il verbo sunnita, propagato dall’Arabia saudita, e quello sciita, divulgato dalla Repubblica islamica dell’Iran.

Ciò ha consentito alle bande di jihadisti sunniti, occultamente sostenute dalle ricchissime “charities” saudite e degli emirati del Golfo il cui principale obiettivo, condiviso dalle monarchie dell’area, è di sbarrare la strada a qualsiasi evoluzione laica e democratica nel mondo arabo, di espandersi a macchia d’olio, sfruttando gli effetti destabilizzanti di scelte emananti da oltre-Atlantico; scelte che continuano a ferire la dignità di popoli, sempre meno disposti a subire un rapporto di dipendenza, messo ora in discussione da una Primavera araba, da taluni ritenuta morta e sepolta, ma che, a nostro parere, continua a secernere mutamenti dai tratti irreversibili.


Retroterra storico

L’attuale mappa dello spazio compreso tra il Libano e il golfo Persico è il risultato della diplomazia segreta condotta all’inizio dello scorso secolo dalle due Potenze coloniali di Francia e Gran Bretagna. Nel 1916 i due emissari diplomatici, Mark Sykes e François Picot, procedettero, attraverso un’intesa definita dallo scrittore palestinese Ahmad Moussa “infame” per i suoi effetti nella regione, al ridisegno di territori che dall’inizio del 16° secolo erano appartenuti all’Impero ottomano, imploso al termine del primo conflitto mondiale.

Libano, Siria, Iraq e Giordania videro così la luce come risultato di un’azione diplomatica volta a suddividere la regione in sfere d’influenza. Scarsissima attenzione fu riservata alla realtà etnica e religiosa dell’area mentre un’attenzione soverchiante fu conferita agli interessi delle due Potenze coloniali. I curdi e i palestinesi furono le principali vittime di un “arrangement” dalle letali conseguenze sui loro destini futuri. Il Prof. Azeem Ibrahim dell’Università di Chicago parla a tal proposito di “lying maps” (carte bugiarde) e questa affermazione acquista una sua risonanza alla luce di quello che diremo appresso a proposito dell’espansione territoriale dell’ISIL in Iraq lo scorso mese.

Secondo la testimonianza resa dal Prof. Fawaz Gerges della London School of Economics l’ordine territoriale, fissato un secolo fa, sembra ora destinato a “cadere a pezzi (in tatters)” indebolito da forze sempre più consapevoli del fatto che si sia ormai di fronte “all’implosione” di un assetto che non corrisponde più “alle esigenze dei tempi ed alle legittime attese dei popoli”.

Le spinte messe in moto dalla Primavera araba paiono inarrestabili, in grado di modificare un sistema finora essenzialmente poggiante sull’azione repressiva esercitata da regimi dispotici.

Quel che colpisce è la riedizione sotto mutate spoglie di una realtà risalente a qualche millennio fa e che ora improvvisamente rinasce sotto i nostri occhi. Intendiamo riferirci a quanto fatto rilevare dal Professor Gerges in merito alla proclamazione del Califfato islamico comprendente lo spazio tra il nord della Siria e l’area desertica dell’occidente iracheno fino alle porte di Bagdad. Ebbene, secondo l’autorevole analista, esso verrebbe a riprodurre le rotte seguite cinque mila fa dagli Assiri e dai Sumeri colleganti le prime città all’epoca sorte in Mesopotamia tra il Tigri e l’Eufrate, nella regione chiamata dagli arabi “Jazeera” (isola).

In un quadro in rapida trasformazione come non attribuire altresì importanza all’apparente concretizzazione dell’aspirazione curda di creare nell’area nord-orientale dell’Iraq un’entità indipendente con capitale Kirkuk, la “Gerusalemme” dei curdi, repentinamente conquistata dai “peshmerga” all’indomani dell’attacco dell’ISIL nel nord dell’Iraq? L’intento, ufficializzato, del leader Massoud Barzani è di organizzare in un prossimo non meglio precisato futuro un referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno, ben visto da Israele e, parrebbe, non mal visto neanche dalla Turchia di Erdogan, alla luce se non altro delle recentissime vendite di petrolio curdo a Tel Aviv attraverso il canale del porto turco di Ceyhan nel Mediterraneo.  Barzani ha altresì fatto chiaramente capire che i curdi difenderebbero armi alla mano il territorio ora occupato, da sempre considerato di storica appartenenza della loro comunità.

Come si può notare la regione è scossa da forze profonde che a parere di molti esperti stanno portando a cambiamenti irreversibili; e questo vale sia per la Siria sia per l’Iraq, realtà percorse da tensioni settarie che l’azione destabilizzante portata avanti dall’esterno e dall’interno dell’area hanno esasperato in maniera assai pericolosa per la stabilità e sostenibilità del subsistema; producendo sbocchi inattesi ed inquietanti che, seppur destinati a non essere riconosciuti dalla comunità internazionale, potranno sfruttare nel tempo la debolezza e tenue rappresentatività dei  discreditati sistemi di potere centrale a tutt’oggi vigenti nell’area.

Quest’ultimo aspetto vale, come vedremo appresso, più particolarmente per l’Iraq di Nuri al-Maliki, sciita, sostenuto dagli Stati Uniti, ma molto vicino all’Iran, figura controversa, detestata non solo dalle componenti curda e sunnita, ma invisa perfino agli stessi schieramenti politici e religiosi cui egli appartiene. In effetti la comunità sciita appare anch’essa visceralmente divisa tra correnti più marcatamente nazionaliste, insofferenti delle interferenze iraniane, e fazioni ricollegate alla nomenclatura clericale, tradizionalmente più sensibili alle influenze religiose della finitima Repubblica islamica.

 

Il riesplodere del dramma iracheno

Il leader iracheno ha deluso profondamente le speranze di coloro fiduciosi che il rovesciamento di Saddam Hussein potesse inaugurare per l’Iraq un’era di consolidamento democratico che tenesse conto della pluralità delle culture politiche e religiose del Paese.

Profittando di un atteggiamento americano principalmente interessato, come in altre analoghe situazioni, a puntellare l’uomo forte del momento e poggiandosi sul mal celato sostegno di Teheran, mirante a mantenere un’influenza duratura presso il suo vicino, memore degli otto anni di sofferenze arrecate dalla guerra tra i due paesi negli anni 80, Maliki ha portato avanti una politica giudicata da molti analisti, settaria, autoritaria e corrotta.

I due mandati che l’hanno visto dal 2006 capo del Governo, in esito a consultazioni elettorali dalle quali peraltro è scaturito ampiamente vincitore, non hanno contribuito ad allentare le tensioni. La principale ragione del rafforzarsi di formazioni estremiste come ISIL risiede nella sua azione volta a privilegiare in maniera rozza la componente sciita; esasperando in tal modo la comunità sunnita ed anche quella curda, per converso inizialmente disposta ad allacciare positive sinergie con il successore di Saddam dopo le feroci persecuzioni inflitte ai curdi dal defunto dittatore sunnita.

Tutto questo ha generato critiche severe anche da parte del clero sciita il quale, nella persona della sua suprema autorità, l’Ayatollah Ali al-Sistani, non ha esitato ad auspicare “la formazione di un nuovo ed efficace più inclusivo governo”. Al punto che molti concordano nel considerare che il vero male del Paese sia l’attuale Primo Ministro, a tutt’oggi sordo a ogni appello per un cambiamento di rotta, forse ora inattuabile dopo otto anni di vessazioni e soprusi.

Che la principale causa dei mali dell’Iraq sia da ricercare in una gestione che ha reso il Paese privo di una sua reale autonomia, incapace di contrastare le pressioni provenienti da attori esterni mossi prevalentemente da calcoli di dominio, è dimostrato dal fatto che la maggioranza dello schieramento sunnita anti-Maliki è composta da elementi che nulla hanno a che vedere con il jihadismo militante. La prova di ciò è fornita dalla nomina, all’indomani dell’occupazione jihadista degli importanti agglomerati di Mosul (la seconda città del Paese) e Tikrit, di due ex-membri del partito Baath a governatori residenti nelle due città.

Gli stessi capi delle tribù sunnite, che collaborarono nel 2006/7 con Maliki ed i suoi alleati USA a sconfiggere le formazioni di Al-Qaeda, gli ex-appartenenti al partito Baath e gli ex-membri dell’apparato militare esistente all’epoca di Saddam Hussein nonché la massa di coloro calpestati da una conduzione politica del Paese, che ha prodotto povertà ed emarginazione, si trovano ora a far parte del medesimo schieramento anti-Maliki.

Tale aspetto merita attenzione al fine di evitare di considerare i mali dell’Iraq esclusivamente di natura settaria. Il settarismo è l’immagine esterna, poco più che epidermica, di un malessere più profondo che deve la sua origine alle gravissime disfunzioni generate dall’aggressione del 2003; evento che ha reso “disfunzionale” una realtà che non lo era.

All’indomani del crollo del regime di Saddam quali furono le decisioni assunte dall’occupante americano? Come riportato da uno dei media arabi più qualificati, Al-Arabiya, esse consistettero nello smantellamento, assurdo e impensabile, di tutto l’apparato politico e militare che aveva fino ad allora governato l’Iraq. In luogo di cercare di procedere alla ristrutturazione di un assetto indispensabile per il governo del Paese, l’allora “chief executive authority” ovverossia capo della forza d’occupazione Paul Bremer ritenne opportuno di esautorare un apparato che per converso avrebbe dovuto continuare ad operare, seppur rivisto e ritoccato alla luce di un quadro politico brutalmente mutato.

Nulla di tutto questo avvenne e da allora le tensioni e la violenza in Iraq sono entrate a far parte di una quotidianità contrassegnata da morte e distruzioni. Le contrapposizioni settarie si sono inserite in questo quadro di desolante “disfunzionalità”, dove le privazioni di ogni genere si sono accompagnate all’esplosione di odi secolari covanti nella realtà di Paesi, frutto di configurazioni artificiali create in “simpatia” con gli esclusivi interessi di Potenze coloniali.

La repressione nei confronti della minoranza sunnita non è mai cessata ed ogni tentativo dei sunniti di dar vita ad un sistema di autogoverno ricalcante quanto riservato alla minoranza curda nel nord-est del Paese è stato brutalmente represso dal Governo dello sciita Nuri al-Maliki; creando in tal modo le premesse per una radicalizzazione dello scontro, a tutto vantaggio delle formazioni estremiste, ora occupanti, come nella finitima Siria, vaste aree degli spazi occidentali e settentrionali del territorio nazionale.

Il graduale peggioramento del quadro politico in Iraq e il progressivo moltiplicarsi delle variabili destabilizzanti non hanno comunque indotto gli Stati Uniti, colti impreparati dal fulmineo succedersi degli eventi, a cercare di attenuare gli effetti nefasti prodotti dalle scelte dell’attuale nomenclatura al potere a Bagdad, che al contrario ha continuato a beneficiare di un abbondante sostegno finanziario da oltre-Atlantico.

Da diversi ambienti, particolarmente curdi, si era inoltre da tempo rappresentato ai vertici politici a Bagdad la crescente insostenibilità del quadro complessivo ed il profilarsi di nubi minacciose nei cieli dell’Iraq. Il restare sordi a simili segnali ha infranto le residue speranze di ricomposizione di un rapporto sinergico tra Maliki e la minoranza curda che appare ora decisa a portare avanti il suo disegno senza curarsi delle rimostranze del vertice politico iracheno.

L’atteggiamento di distacco, fatto di una buona dose di arroganza ed indecisione, osservato da Washington verso l’involuzione politica in atto in Iraq suona in ogni caso come una patente offesa nei confronti delle migliaia di soldati, americani e non, inviati a morire in quel tormentato Paese, al solo scopo, verosimilmente, di assecondare interessi che potremmo definire tutt’altro che edificanti.

 

Conclusioni

La situazione in Iraq non è quindi migliorata con il cruento rovesciamento del regime baathista di Saddam Hussein. Al contrario, secondo Octavia Nasr, perspicace commentatrice araba, il quadro complessivo è sicuramente peggiorato.

Secondo l’analista la vita degli iracheni al tempo del dittatore non era ossessionata né dalla tristissima indigenza materiale ora esistente (povertà ed emarginazione) né dalla terribile insicurezza di oggi. Quest’ultima trae alimento dalle cellule del terrore che pullulano nel Paese, sostenute dai ricchi occulti adepti della jihad islamica, contro le quali esistono ben poche barriere, come dimostrato dalla guerra-lampo condotta dai guerrieri di Allah dell’ “Islamic State”, riusciti, non più di un migliaio, nello spazio di pochi giorni ad impossessarsi della seconda città del Paese Mosul, di Tikrit, città simbolo e luogo di nascita del defunto dittatore, nonché della quasi totalità dei posti di frontiera con la Siria e la Giordania.

La dirompente azione jihadista mette ora in allarme la stessa “powerhouse” saudita che ha ritenuto opportuno rafforzare le proprie frontiere sì da evitare uno scenario iracheno fonte di apprensione per la monarchia assoluta della dinastia Saud.

La costante della politica USA in questa parte del mondo è stata quella di affidare il compito di garantire la stabilità di questi Paesi all’uomo forte del momento senza alcun riguardo verso la complessità del quadro politico nazionale. Lo si è visto e lo si vede in Iraq, lo si è visto in Egitto con il defenestrato ed ora in larga misura riabilitato fedele alleato Mubarak, lo si era visto prima in Iran sotto la tirannia dello Shah, senza parlare della succitata dinastia Saud in Arabia Saudita, dove vengono perpetrate gravissime violazioni dei diritti umani, di cui le donne sono le principali vittime, e della oppressiva oligarchia sunnita in Bahrein.

Quel che conta è la stabilità, costi quel che costi, conditio sine qua non per soddisfare la sete di ricchezza e di potenza delle multinazionali e dei gruppi finanziari, poco inclini a riservare cure e attenzioni alle condizioni di vita delle masse sottoposte alla tirannide di satrapi, liberi di vessare i propri sudditi. Tutto rientra in una spietata logica di dominio che non ammette condizionamenti di sorta.

D’altronde il mito della superiorità culturale dell’Occidente è duro a morire. Ricordiamo le assurde, per non dire demenziali, farneticazioni dell’ideologia neo-con americana il cui traguardo mirava all’instaurazione sulle rive dell’Eufrate e del Tigri addirittura di una democrazia liberale di stampo occidentale (!); tralasciando in itinere di riflettere, ammesso che i teorici di simili sciocchezze fossero in grado di farlo, su una storia millenaria del tutto estranea ai valori della “superiore” cultura occidentale. Si è visto a quale approdo si sia giunti, perseguendo tali “nobili” finalità.

Né si pensi che tutto ciò faccia ormai parte del passato. Tutt’altro! Basti pensare a quanto riferito da un’altra analista araba, Rachel Shabi, a proposito delle dichiarazioni recentemente rese dall’illustre filosofo francese Bernard Henri Levy, colui cui va il merito di essere riuscito a convincere quel gentiluomo dell’ex-Presidente Sarkozy a portare avanti la lungimirante “guerra umanitaria” in Libia nel 2011.

Sono sotto gli occhi di tutti gli effetti di quella guerra di liberazione. Secondo quanto affermato da Henri Levy l’aggressione alla Libia avrebbe non solo liberato quel Paese dalla dittatura di Gheddafi, ma soprattutto avrebbe consentito ai libici di “vivere finalmente in un sistema democratico al riparo dalla minaccia dei fondamentalisti”(sic).

A poco serve la costatazione fatta dall’analista araba di quel che è dato osservare oggi in Libia, realtà devastata da milizie armate, covo del terrorismo islamico, fonte di persistente instabilità nel retroterra dell’Africa nera.

A parere del filosofo d’Oltralpe, profondamente intriso del senso di superiorità dell’Occidente, “le conseguenze possono anche essere negative ma gli esiti si riveleranno positivi”. E che importanza potrebbe avere dunque il costatare gli effetti nefasti dell’ennesima aggressione occidentale se si pensa che alla fin fine quel che contava era di evitare che….i fondamentalisti prendessero il potere a Tripoli!

Questo è il background culturale che ha portato all’attacco all’Iraq nel 2003; che ha creato l’humus per le devastanti costatazioni fatte in questi giorni dagli Uffici competenti delle Nazioni Unite secondo i quali lo scorso mese di giugno ha fatto registrare in quel Paese il più alto numero di morti dal 2007, l’anno delle stragi di matrice settaria.

E il fatto che dagli ambienti dell’apparato militare-industriale USA si ipotizzi un nuovo intervento militare americano in Iraq come “unica soluzione” dei mali politici iracheni suscita un fremito di spavento alla luce degli effetti prodotti dall’aggressione del 2003.

L’espressione inglese, usata dalla stessa Shabi, si rivela in proposito alquanto illuminante: “They have bombed Iraq into pieces, now they want to bomb it back into peace”.

Occorre peraltro segnalare che non tutti esprimono voci disperanti in materia. Una voce positivamente discorde è quella del Prof. Neil Cooper, decano dell’Università inglese di Bradford, a parere del quale l’interventismo di stampo liberale ha avuto una sua ragion d’essere all’indomani della fine della guerra fredda, nel momento in cui gli Stati Uniti assurgevano al ruolo di iper-potenza, l’unica in grado di gestire gli equilibri del mondo.

Secondo l’autorevole accademico il clima è ora cambiato dopo gli infausti interventi in Iraq, Afghanistan e Libia e il fallimento dell’operazione mirante al rovesciamento di Baschar al Assad in Siria. L’opinione pubblica occidentale sarebbe divenuta “war-weary”, stanca di una logica di guerra, seppur umanitaria, che sta portando il mondo sull’orlo del precipizio. E questo costituirebbe forse l’unica speranza che altri disastri dettati da un’ideologia fatta di arroganza e di ignoranza non vengano compiuti.

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E intanto lo stallo politico continua in Iraq in un’atmosfera avvelenata dai contrasti settari acuiti dalle ultime preoccupanti vicende, come dimostrato dal fallimento dell’ultima riunione del Parlamento mirata all’individuazione di figure politiche in grado di allentare le tremende tensioni. Tutto questo avviene mentre, da una parte l’attuale uomo forte rivendica la priorità rispetto alla politica delle questioni di sicurezza, dall’altra una larga fetta del territorio nazionale soggiace dallo scorso mese alla rigida legge coranica imposta dal Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, a capo di un’ “Islamic State”, la cui finalità dichiarata è quella di erigersi a punto di riferimento per tutti i mussulmani ovunque essi si trovino! In aperta sfida alla centrale terroristica di Al-Qaeda con la quale è in rotta di collisione.

Aspetti questi di ben scarso interesse per le migliaia di poveri rifugiati in fuga, alla ricerca di approdi più sicuri e meno terrificanti, al momento identificati nell’enclave curda retta dal carismatico Massoud Barzani, determinato a preservare con ogni mezzo la propria entità, che scorge ora un’occasione storica per la realizzazione del sogno, coltivato da decenni, dell’indipendenza; infliggendo in tal modo un duro colpo alla preservazione dell’integrità territoriale dell’Iraq, per converso auspicata dagli Stati Uniti e dai loro alleati sauditi.

Il Medio Oriente continuerà a vivere nel tumulto di processi che paiono inarrestabili; nell’attesa che l’alba di una sua effettiva liberazione inizi a sorgere dalle ceneri, in larga misura generate da decisioni assunte in totale spregio degli interessi di pace, stabilità e reale sviluppo delle comunità di sua appartenenza.          

Luglio 2014