L'ideale di sovranità declinato in uno scenario geopolitico in chiave post-westfalica

 

La cultura popolare della Russia storica si traduce in un possibile fattore di resistenza al Nuovo Ordine Mondiale.

 

La ristrutturazione capitalistica in chiave de-sovranizzante ed “anti-imperiale” (ossia, principalmente ostile a qualsiasi ipotesi di riaggregazione dello spazio ex-sovietico) del Nuovo Ordine Mondiale Neoliberista fondato sul primato dell'american way of life e del “mercato globale” della mercificazione assoluta, totalitaria e totalizzante, interpreta quale proprio nemico principale ogni forma di resistenza culturale, politica, economica, sociale e militare da interpretarsi come alternativa o comunque in contrasto con gli interessi e gli orientamenti di tale ordine.

La demonizzazione della resistenza è funzionale alla perpetuazione ed alla legittimazione dello status quo capitalistico ed omologante in ambito culturale. Ad Ovest come ad Est, le esperienze socio-politiche di contrapposizione o di controcanto all'estensione illimitata del “mercato globale” finanziarizzato, hanno trovato sulla propria via embarghi imposti dall'Occidente, guerre “umanitarie” targate Nato e strategie di sovversione politica messe in atto dai manutengoli locali delle “fondazioni americane per la promozione della democrazia all'estero” (Ned, Usaid, Freedom House, NDI, IRI, Otpor, Canvas ecc.).

I media aziendali al soldo delle corporations economico-finanziarie multinazionali occidentali sono parte integrante e non osservatori esterni, di tale strategia. E' sufficiente menzionare, a tal proposito, la costante campagna stampa di disinformazione tesa ad equiparare i governi progressisti e patriottici di alcuni Paesi dell'America Latina in cerca di emancipazione e riscatto sociale, dopo decenni di colonizzazione statunitense, diretta o per procura, ad una sorta di riproposizione, sebbene in tono minore, dei cosiddetti “totalitarismi gemelli”, fascista e comunista, novecenteschi, dove il nemico è indicato in qualsiasi forma di governo tesa a stabilire il primato della politica nei confronti del dogma finanziario neoliberista.

Naturalmente, l'antifascismo delle classi dirigenti speculatrici internazionali e del loro braccio armato, la Nato, è del tutto fittizio e strumentale, e quel che sta avvenendo in Ucraina a partire dal dicembre 2013 lo dimostra ampiamente, con uomini politici statunitensi (repubblicani e democratici) ed europei (di destra e di “sinistra”) recatisi personalmente ed a nome delle istituzioni, politiche e statuali, che rappresentavano, ad incitare alla sedizione una piazza egemonizzata da gruppi terroristici neo-nazisti, strumentalizzati da capi-popolo filo-americani ed ultraliberisti, come Anatoliy Hrytsenko, Vitalij Klitschko ed Oleh Tiahnybok, con i quali gli esponenti politici occidentali di cui sopra hanno intrattenuto colloqui e relazioni politiche di ogni tipo, in funzione anti-russa.

Le menzogne dei fautori del Nuovo Ordine Mondiale hanno, come si suol dire, le “gambe corte” e fragili, nonché vita breve, ma non vengono mai smascherate a tempo debito, quando i conflitti neo-coloniali che generano ed agevolano potrebbero essere, attraverso l'ausilio di un'informazione maggiormente corretta ed onesta, evitati.

Fintantoché il nemico è “in campo”, occorre mentire, spargere benzina sul fuoco, lavorare per incidere ed allargare, a scopo di precisi interessi politici delle classi dominanti occidentali, le fratture sociali, politiche, economiche e confessionali presenti in qualunque Stato od entità geopolitica che non sia l'immaginifico “paradiso liberaldemocratico” favolisticamente raccontato dai media mainstream al fine di suscitare consenso pubblico attorno alla strategia di “democratizzazione”, per via politica o militare (la cosiddetta “ingerenza umanitaria”) dei popoli, delle nazioni e degli Stati da ricondurre sotto l'orbita del potere ultracapitalistico e di mercificazione totale del “mercato globale unificato”.

Oggi, ad esempio, è sotto gli occhi di tutti che la guerra d'aggressione condotta dalla Nato contro la Libia nel febbraio-ottobre 2011 fu scatenata per motivi tutt'altro che “umanitari”, ma geopolitici ed economici ben definiti, allo scopo di scardinare un potenziale competitor statale delle compagnie petrolifere multinazionali anglo-franco-americane nel Nordafrica, ed eliminare un sostenitore, laico, dell'integrazione pan-africana e della solidarietà antimperialista dei popoli in lotta contro il dominio neo-coloniale occidentale. Persino la pubblicistica liberale facente riferimento al clero universitario italiano ha dovuto riconoscere, in sede di storicizzazione degli eventi, la realtà di quanto testé affermato.

Ecco cosa si trova scritto, a proposito della situazione libica pre-aggressione Nato, in un volume recentemente edito da una casa editrice italiana di ambito universitario, indubbiamente non tacciabile di condurre una linea ostile al Politicamente Corretto imperante:

 

Lo Stato di Gheddafi si era caratterizzato per essere riuscito a recuperare le ricchezze nazionali, avviare un processo di industrializzazione e sbloccare importanti risorse. Aveva inoltre costruito uno Stato sociale che forniva gratuitamente servizi alla popolazione, come la fornitura di elettricità ed acqua ad uso domestico. La benzina costava appena 10 centesimi di euro; le banche accordavano prestiti con tassi d'interesse molto bassi; i libici non pagavano praticamente tasse; l'imposta sul valore aggiunto non esisteva; il debito pubblico ammontava al 3,3 per cento del Pil nazionale […]. La Libia figurava come il Paese con il più basso tasso di analfabetismo del continente africano e del mondo arabo […]. Il sussidio di disoccupazione era di 730 euro mensili, più che in Francia […]. Gheddafi ha allo stesso tempo migliorato lo status sociale e giuridico delle donne, concedendo loro maggiori diritti […]. Infine, lo Stato sotto Gheddafi tutelava le altre confessioni religiose, tra cui i cattolici, che potevano tranquillamente praticare il loro culto, come confermato da monsignor Martinelli, vicario apostolico di Tripoli […]. Un quotidiano economico marocchino, «L'Economiste», nella sua edizione del 6 giugno 2012, ha scritto le seguenti parole: prima di cadere in rovina sotto i colpi dei bombardamenti intelligenti delle forze Nato, l'economia libica era in buona salute […]. Questa politica di modernizzazione autoritaria ha quindi migliorato le condizioni della maggior parte dei libici […]. La politica economica e sociale dello Stato libico all'epoca di Gheddafi è quindi profondamente differente dall'immagine fornitaci durante la guerra per la democrazia[1]

 

La Libia fu destabilizzata e militarmente distrutta dalla Nato proprio in quanto rappresentava una relativamente funzionante alternativa geopolitica al dominio del “mercato globale”, costantemente alla ricerca di nuove vie di espansione.   E' la stessa pubblicazione sopra menzionata a sostenere una tesi fino a qualche tempo fa appannaggio unicamente di giornalisti, intellettuali e “controinformatori” definiti tout court dalla stampa liberale e dal clero accademico altrettanto uniformato al Pensiero Unico Neo-Liberale e cosmopolita, «complottisti»:

 

[Per la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti] era quindi necessario scardinare quel regime [la Libia, nda]. Le potenze occidentali, che vedevano nel sostegno ai movimenti democratici [della cosiddetta “Primavera Araba”, nda] uno strumento di difesa dei propri interessi economici e geostrategici, non potevano più tollerare un potere autoritario di tale sorta. Per quanto concerne gli Stati Uniti, la guerra era percepita come l'unica soluzione per porre fine al regime di Gheddafi al fine di difendere gli interessi nazionali ed il progetto di ridefinizione del Maghreb, che aveva come scopo principale quello di assicurarsi una presenza nella regione. Secondo questa stessa logica, e considerando anche la posizione strategica dell'Algeria, possiamo formulare l'ipotesi che questo Paese rappresenterà il prossimo regime che le democrazie occidentali – gli Stati Uniti in particolare – tenteranno di scardinare[2].

 

Ex post, i liberali diventano “complottisti”, perché la verità storica non può che essere ricostruita secondo linee documentarie ed interpretative fondate sui fatti e non sulle opinioni dei sostenitori mediatici della cosiddetta «ingerenza umanitaria». Per la Siria il discorso non può che configurarsi come analogo.

Il paradigma pubblicitario della “rivoluzione democratica” della primavera 2011, “tradita” dal «mancato intervento pacificatore» (ossia, militare) dell'«Occidente democratico-liberale», cadrà com'è caduto il teorema mistificatorio, celebrato alla corte televisiva del maitre à penser “democratico” Gad Lerner, da una giornalista di Vanity Fair (Imma Vitelli), dei “giovani rivoluzionari” di Bengasi, animati sa sentimenti «molto liberal» (così disse la giornalista) di promozione individuale e di emancipazione politica. Già oggi sappiamo con certezza che non vi è stato, a Ghouta, alcun «attacco chimico» da parte dell'Esercito nell'agosto 2013[3], ed attendiamo che anche i media a larga tiratura si decidano a riportare la verità su di una manipolazione che avrebbe potuto condurre, in quanto fabbricata ad arte, all'ennesima “guerra umanitaria” dell'Occidente contro un “tiranno da abbattere” (ossia, contro un Paese sovrano, strategicamente alleato all'Iran, alla resistenza libanese ed alla Russia).

La strategia dei media di cui sopra, ovviamente, è quella di riportare la verità su quanto accaduto a Ghouta il 21 agosto 2013, una volta che la Siria sia stata completamente soggiogata agli scherani locali, targati Al Qaeda, dell'Occidente mondialista e dell'Arabia Saudita e sia divenuta un avamposto mediorientale per sferrare un attacco, per procura, mediante un esercito mercenario a guida qaedista e wahhabita, alla Federazione russa[4]. La Russia è infatti, con la Cina, l'obiettivo ultimo dell'espansione illimitata dell'Occidente e della Nato. Quel che sta accadendo in questi giorni in Ucraina lo testimonia alla perfezione. I piani geopolitici russi di riaggregazione di parte dello spazio ex-sovietico nell'Unione eurasiatica, per stessa dichiarazione dell'ex-segretario di Stato Usa Hillary Clinton, debbono essere ostacolati ad ogni costo e con ogni mezzo. Gli Usa impedirebbero allo stesso modo la realizzazione di un'unione europea autenticamente fondata sulla sovranità dei popoli costituenti, militarmente autonoma e strategicamente alleata alla nascente Unione eurasiatica (composta, allo stato attuale, da Federazione russa, Bielorussia, Kazakhstan ed Armenia).

La sinistra politica postmoderna (affascinata dall'elaborazione teorica di Toni Negri) o meglio, quel poco che ne resta in Italia, al 99 per cento culturalmente animata da un sentimentalismo libertario americanocentrico, definisce i sostenitori dell'alleanza europea con la Russia come «fascisti mascherati», preferendo, probabilmente, a tale prospettiva, la perpetuazione dello status quo euratlantico o fantasticando di improbabili “mondi arcobaleno”, sen'armi, senza Stati, senza nazioni, senza differenze di lingua, religione, genere e tradizione, dove a dettar legge sono le mode hippy declinate nell'odierno rampantismo yuppista e tecnologicamente gadgettizzato dei giovani della classe media moscovita in “lotta contro Putin”, tanto graditi ai rimasugli dell'alter-mondialismo postmoderno negrian-bertinottiano-rifondarolo. Non è stato forse, nell'agosto 2012, il post-bertinottiano segretario del morituro Prc, Paolo Ferrero, a firmare un appello, a nome del suo partito, a favore delle «compagne Pussy Riot»? Così, secondo la logica di questa “sinistra virtuale”, ormai politicamente “post” (nel senso di trapassata), coloro i quali si azzardano a difendere il diritto dei popoli ex-sovietici ad un percorso destinale comune, sarebbero «simpatizzanti dell'autoritarismo putiniano», mentre le contestatrici e provocatrici di servizio atlantico Pussy Riot, «compagne». La Storia non assolverà questi rottami di un sessantottismo utile esclusivamente alla causa culturale globalizzatrice e yankee, tesa alla promozione dell'ideologia individualistica dei consumi in ogni angolo del Pianeta.

E' proprio in nome di tale ideologia che oggi la Russia viene demonizzata nel momento in cui il Cremlino pone al centro del dibattito pubblico la valorizzazione della tradizione culturale e storica dell'impero quale elemento di mobilitazione politica teso a far emergere le contraddizioni di un Occidente in cui la cultura edonistica del divertimento e della promozione del proprio “io narcisistico”, di matrice indubbiamente post-moderna e post-sessantottesca, è servita e serve quale ideale forma mentis per la promozione di una “modernizzazione” capitalistica, in chiave speculativo-assoluta, caldeggiata dai settori tecnocratici della destra neoliberista quanto della sinistra liberal.

Le tradizioni basate sul primato del collettivo nei confronti dell'“io narcisistico”, od anche solo la “normalità borghese” di derivazione gaulliana, costituiscono infatti, potenzialmente, un ostacolo, un freno, all'espansione illimitata di un capitalismo predatorio di mercificazione totale. Laddove il progetto di un blocco geopolitico competitore dell'Occidente, denominato Unione eurasiatica, troverà forma, esso sarà declinato in funzione indubbiamente di superamento degli Stati-Nazione di derivazione westfalica, ma non nell'accezione auspicata dalle sinistre postmoderne e dalle destre tecnocratiche neoliberiste, ossia di sostituzione degli Stati con un mercato unificato basato sulla gestione capitalistica dei flussi di desideri, bensì in un'accezione assai più gradita alla sinistra “conservatrice” (Christopher Lasch) ed a una destra “tradizionalista” i cui valori di fondo sono signorili e non di acquisizione; un'accezione di recupero della sovranità geopolitica dei popoli ex-sovietici, caratterizzata non su linee e demarcazioni etnico-confessionali, ma plurinazionali, plurietniche e plurireligiose, dove il fattore di unificazione non potrà più essere il comunismo storico novecentesco, ma una comune volontà da parte dei detti popoli di sentirsi, nella salvaguardia ed anzi nella promozione delle rispettive tradizioni, parte di un impero eurasiatico inevitabilmente aperto anche agli Stati slavi dell'Europa centrorientale, Serbia in primis.

La religione ortodossa, la conciliazione nazionale tra “bianchi” e “rossi” ed il ripristino degli elementi di trasformazione sociale ancora attuali del socialismo nella gestione dell'economia dovranno costituire i riferimenti fondanti del fulcro comunitario slavo (focolare nazionale), attorno al quale dar vita ad un processo di riunificazione delle repubbliche, anche non-slave, un tempo facenti parte dell'Urss (in particolare delle repubbliche dell'Asia Centrale quali il Tagikistan ed il Kirghizistan). Non è forse stato il patriarca Kirill I, non certo un simpatizzante leninista, ad affermare di avere una certa qual nostalgia per l'epoca sovietica in cui i valori etici venivano declinati in senso anticapitalistico, lasciando pertanto più spazio, paradossalmente, alla dimensione spirituale del vivere quotidiano, rispetto alla mercificazione imposta dal capitalismo contemporaneo?

In Russia il Partito comunista, che a differenza dei micro-partiti della sinistra “radicale” italiana è un'organizzazione politica di massa, con 12 milioni e mezzo di elettori al seguito, è il primo sostenitore della necessità storica del ripristino delle tradizioni popolari della nazione in funzione di controcanto alla citata mercificazione ed all'omologazione culturale, ossia dell'americanizzazione di massa e della disarticolazione, su basi individualistiche, della società, dettata dai meccanismi di riproduzione globale del citato capitalismo contemporaneo.

Il presidente del Partito Comunista della Federazione russa (Kprf), Gennadij Zyuganov, ha affermato, sin dal 1994, che «l'impero è la dimensione naturale all'interno della quale doveva collocarsi la proiezione geopolitica del popolo russo». Naturalmente, l'impero tradizionalistico di cui parla Zyuganov non ha nulla a che spartire con l'imperialismo liberaldemocratico americano (o con l'imperialismo razzista del fascismo hitleriano, di cui rappresenta anzi l'opposto), le cui ambizioni sono di omologazione e mercificazione planetaria, di conquista globale di ogni spazio sottrattosi alla dominazione neoliberista. Zyuganov ha infatti affermato che i confini dell'impero non si sarebbero discostati da quelli un tempo riconosciuti, a livello internazionale, all'Urss.

Lo stesso Putin ha sostenuto, in questo distinguendosi dalle velleità egemoniche di Obama, che la Russia non ha alcuna intenzione di proporsi, a livello internazionale, quale «Paese leader», ossia intenzionato ad imporre a nazioni e popoli terzi, il proprio modello politico, culturale e sociale di riferimento.

La Russia, attraverso la costruzione di un blocco geopolitico (Unione eurasiatica) contraltare dell'Occidente capitalistico-speculativo, intende unicamente ritrovare un percorso di condivisione destinale con i popoli slavi fratelli (“piccoli russi” e “russi bianchi”) e alcune repubbliche un tempo facenti parte dell'Urss (Kazakhstan, Armenia, Tagikistan, Kirghizistan), decise liberamente e consapevolmente ad associarsi a tale blocco, valorizzando così il proprio potere negoziale sovrano, in ambito internazionale. L'Unione eurasiatica è un blocco geopolitico ed economico (Unione Doganale Eurasiatica), culturalmente sostenuto da un'ideologia volta alla promozione delle tradizioni storiche delle nazioni costituenti, teso a rafforzare la sovranità dei popoli e degli Stati che vi si assoceranno. Insomma, l'esatto opposto dell'attuale Unione europea. L'Unione eurasiatica ha radici che affondano in un passato non privo di contraddizioni ma comunque glorioso (a fronte di un presente costellato da emergenze sociali e politiche le più disparate, di non facile risoluzione), e una proiezione verso un futuro di emancipazione politica collettiva.

L'Unione europea è militarmente una colonia americana, economicamente una preda dei mercati di capitali finanziari privati internazionali, socialmente una terra di disoccupati, precari, indebitati e marginali a fronte di una ristretta ma influentissima minoranza di super-ricchi detentori della pressoché totalità delle risorse private nonché controllore e gestore di quelle pubbliche, culturalmente un immenso mercato individualistico e consumistico di mercificazione assoluta. L'Unione europea è un sistema totalitario non repressivo militarmente al proprio interno (finché le condizioni non lo richiederanno ed in Grecia lo hanno già richiesto), dove l'unica tradizione a non essere stata sacrificata sull'altare del libero mercato è stata quella al profitto speculativo individuale, i cui dirigenti politici, di destra conservatrice e di sinistra liberal e postmoderna, immaginano, per il futuro, un modello istituzionale copiato dalla Turchia, un modello socio-economico copiato dal Messico ed un modello culturale copiato dall'Olanda.

Fintantoché una visione stupidamente americanocentrica, imbevuta di Politicamente Corretto, “antiautoritaria” e non anticapitalistica, consumistica e narcisistica, continuerà a permeare la quasi totalità dei movimenti e delle organizzazioni politiche ed associative che, nei Paesi della Ue, dovrebbero opporsi alle logiche capitalistiche di de-sovranizzazione e de-emancipazione nazionale e sociale, non vi sarà alcuna svolta in positivo per i destini della stragrande maggioranza delle società (tra l'altro in larga parte culturalmente americanizzate) dei detti Paesi. E sarà, di conseguenza, inevitabile che milioni di elettori rivolgeranno le proprie attenzioni e simpatie ad interlocutori politici “altri”, più o meno congruamente avvertiti come “resistenti” dinnanzi al dominio tecnocratico neoliberista di Bruxelles e meno ostili, anzi interessati, almeno a parole, a gettare uno sguardo, finalmente non sospettoso o volgarmente censorio, ad Est invece che ad Ovest.

 

 

Paolo Borgognone, CIVG, dicembre 2013

 



[1]    M. Djaziri, Natura e sfide della transizione democratica in Libia, in M. Campanini, a cura di, Le rivolte arabe e l'Islam. La transizione incompiuta, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 79, 80, 81, 82 e 83.

[2]    Ivi, p. 86.

[3]    Cfr. G. Chiesa, Siria e armi chimiche, chi ha mentito chieda scusa, in «Megachip», http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=95565&typeb=0, 18 gennaio 2014. 

[4]    La verità su quanto accaduto a Timisoara, in Romania, nel dicembre 1989, fu effettivamente riportata dalla stampa mainstream a “giochi fatti”, ossia una volta destituiti ed ammazzati l'autocrate Nicoale Ceausescu e sua moglie Elena Petrescu, da parte di una giunta militar-“democratica” presieduta dalle seconde linee “rampanti” ed in cerca di auto-affermazione politica dell'Esercito e del Partito comunista rumeno. Nel dicembre 1989, prima del golpe che condusse agli esiti sopra descritti, nessun giornale o rete tv occidentale, in merito alla messinscena di Timisoara, scrisse od esclamò parole diverse da «genocidio» ordito dal «regime agonizzante» sotto i colpi di una (inesistente) «protesta di piazza». Per un resoconto dettagliato e veritiero sui fatti occorsi in Romania tra il 17 ed il 26 dicembre 1989, vedasi: V. Vasilescu, La trahison contre Ceausescu, in «Réseau International», http://reseauinternational.net/?s=stanculescu, 14 dicembre 2013.