Le “thawabit” palestinesi: delle costanti che non lo sono più

 

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L'11 marzo 2025, il movimento di liberazione nazionale palestinese (Fatah) ha accusato Hamas di

tenere negoziati segreti con entità straniere. Fatah ha affermato che Hamas fa continuamente

concessioni sulle “thawabit”, i principi fondamentali palestinesi, le costanti nazionali.

Nel 1977, il Consiglio nazionale palestinese ha dichiarato un insieme di principi inviolabili,

qualificandoli come “thawabit”.

Quando i palestinesi invocano le “thawabit”, si riferiscono a dei principi che sembrano fissati nella

pietra, immutabili e non negoziabili: il diritto alla resistenza all'occupazione, il diritto dei profughi

al ritorno, Gerusalemme capitale della Palestina e l'autodeterminazione.

Queste parole risuonano con forza nei discorsi, nelle dichiarazioni politiche, nell'educazione, nella

poesia e sugli striscioni. Ma queste costanti sono veramente costanti o sono costruzioni politiche

che evolvono in funzione degli interessi e delle necessità? Proteggono i palestinesi o vengono usate

per controllarli e manipolarli?

L'uso eccessivo delle “thawabit” nei media e nel discorso politico non le ha affatto rinforzate, bensì

le ha svuotate del loro senso nella pratica.

Le contraddizioni

– Il diritto alla resistenza: un concetto vago ed elastico. Si riferisce alla resistenza non

violenta, alla lotta armata o a entrambe? Giustifica le operazioni individuali o soltanto i

movimenti organizzati? L'interpretazione cambia in base alla posizione politica di chi lo

invoca.

– Il diritto al ritorno: un diritto sacro nel discorso pubblico, ma nei comitati ristretti alcuni

dirigenti discutono di “soluzioni creative” come il trasferimento e l'indennizzo, altri lo

rifiutano semplicemente ritenendolo impraticabile.

– Gerusalemme capitale della Palestina: una frase pronunciata con fierezza durante i comizi,

ma i responsabili politici non fanno molto per fermare la sua ebraicizzazione. Alcuni

dirigenti palestinesi incontrano funzionari israeliani nella città, anche se questi ultimi la

rivendicano come loro capitale, come se il riconoscimento dell'occupazione fosse diventata

una realtà che di fatto viene accettata.

Che cosa è veramente costante?

Le “thawabit” possono servire da scusanti per l'inazione. Esiste una differenza fondamentale tra le

“thawabit” in quanto principi direttivi che proteggono i diritti dei palestinesi e le “thawabit” in

quanto slogan vuoti di cui ci si serve per intimidire gli oppositori e giustificare la paralisi politica.

Quando l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) è stata cacciata da Beirut nel

1982, ha dichiarato: “Le nostre “thawabit” non cambieranno mai!”. Eppure, alcuni anni dopo, gli

accordi di Oslo hanno segnato un cambiamento radicale, violando quasi tutte le costanti precedenti.

Queste concessioni non sono state il risultato di un dibattito nazionale o di un referendum, ma sono

state giustificate con la scusa del “pragmatismo politico”, con conseguenze disastrose.

Possiamo discutere delle “thawabit”?

La questione più urgente non è soltanto sapere quali siano le “thawabit”, ma chi ha il potere di

definirle.

– sono definite dalle organizzazioni? Tuttavia, le organizzazioni stesse sono divise, ciascuna

pretende di difendere le vere “thawabit”.

– Sono dettate dall'Autorità palestinese? Ma questa stessa autorità ha fatto delle concessioni

[in deroga ai principi fondamentali] in nome del “realismo politico”.

– Appartengono al popolo? Ma il popolo stesso è stretto tra discorsi contraddittori: uno di

ardente resistenza, l'altro di silenzioso adattamento a una realtà sconvolgente.

Anche i documenti ufficiali palestinesi rivelano delle contraddizioni: alcuni dichiarano le

“thawabit” “non negoziabili”, mentre altri parlano di “flessibilità tattica”, spesso un eufemismo per

designare delle concessioni.

Una nuova generazione palestinese, cresciuta nel contesto del fallimento degli accordi di pace, di

frammentazioni politiche interne e dell'assedio israeliano, comincia a porre domande che in altri

tempi erano tabù:

– Se le “thawabit” sono così sacre perché le loro definizioni cambiano continuamente?

– Perché questi principi fondamentali non sono riusciti a impedire le divisioni tra le fazioni e

il crollo del progetto nazionale?

– Come può coesistere un discorso pieno di principi incrollabili con una realtà piena di

concessioni?

Nel campo assediato di Jenin, mentre il fumo si levava dalle rovine dell'ennesima casa bruciata, un

vecchio si è tolto la polvere dal viso e ha detto: “Predicano le “thawabit” come una dottrina sacra,

ma qui, assediati, noi abbiamo appreso la verità: i principi non ti proteggono, la resistenza forse sì”.

Alcuni ritengono che rimettere in discussione i principi fondamentali indebolisca la causa

palestinese. Tuttavia, il vero pericolo non risiede nella loro revisione, bensì nel loro sfruttamento

come discorso dottrinario, per far tacere il pensiero critico e impedire qualsiasi cambiamento

significativo

L'obiettivo non è abbandonare i nostri diritti fondamentali, ma ridefinirli in modo che essi siano

praticabili e applicabili, e non delle semplici formule puramente formali.

I palestinesi hanno bisogno di principi che appartengano a tutti, che riflettano la nostra lotta in

constante evoluzione, piuttosto che di una retorica politica vuota imposta dall'alto.

 

“Les Thawabit palestiniennes: des constantes qui n'en sont plus”, Chronique de Palestine,

 

14 marzo 2025 - Traduzione di Marita Prette (Sensibili alle foglie)

 

Samah Jabr, psichiatra, psicoterapeuta e scrittrice palestinese. Ha scritto articoli e libri  in diverse lingue sulle conseguenze psicologiche dell’occupazione israeliana in Palestina dagli anni 2000. Ispirata dallo psichiatra anticoloniale Frantz Fanon, le sue aree di interesse includono la salute mentale, il colonialismo e i diritti umani universali.

Autrice di diversi libri, su argomenti diversi, sia nei media accademici che in quelli pubblici, legati alla salute mentale e ai diritti umani dei palestinesi, tra cui “Dietro i Fronti” (2019), “Sumud” (2021), “Il tempo del genocidio” (2024), editi in Italia da Sensibili alle foglie.