La forza di un progetto concreto, non di un sogno
L’ingegner Adriano Olivetti
Si dichiarava antifascista, e tutta la sua famiglia si comportò sempre con coerenza, salvando e guidando la fabbrica al riparo del delirio bellico. In qualche caso, arrivò anche a rischiare la vita per proteggere chi era finito nel mirino dei nazisti. Però rifiutava con veemenza l’etichetta di comunista che gli affibbiava con disprezzo chi non lo conosceva o capiva, per screditarlo agli occhi della nascente borghesia industriale o a quelli degli elettori quando intentò la carriera politica. Si proclamava socialista-liberale, o cristiano-socialista: “Tutt’al più” – diceva – “sono comunitarista”. Soprattutto, si dichiarava anti-partitico. Non riusciva a credere che il sistema della rappresentanza attraverso i partiti potesse esprimere un’autentica democrazia: troppo esposto agli interessi del denaro e dei prepotenti.
Nasce a Ivrea nel 1901, padre ebreo e madre valdese. Nel 1908, il padre Camillo fonda la prima fabbrica italiana di macchine per scrivere, mentre Adriano cresce con i quattro fratelli in un ambiente libero e laico, nell’ex convento sulla collina di Monte Navale trasformato in abitazione per tutta la famiglia.
A tredici anni il padre lo avvia al lavoro in fabbrica, come operaio, e lui ne resta segnato: “Era straniante, era tempo che non faceva parte dello scorrere della vita” dirà anni più tardi, e quella sensazione deve averlo accompagnato e guidato in tutte le sue scelte.
Partecipa come volontario alla Prima Guerra Mondiale e negli anni delle lotte operaie vive a Torino, dove si laurea in Chimica Industriale al Politecnico. Collabora a riviste militanti vicine a Piero Gobetti, in molti casi sostenute anche dal padre. Insieme a Pertini, Parri e Carlo Rosselli, aiuta Turati a scappare in Francia, ma con l’inasprirsi del regime sospende l’attività politica, già schedato come sovversivo.
Nel 1925 viaggia negli Stati Uniti per osservare l’organizzazione del lavoro e ne trae esperienze che gli torneranno utili. Al rientro inizia a collaborare con il padre nella conduzione della fabbrica e nel 1933 ne diventa direttore generale. Negli anni prima della Seconda Guerra allarga i suoi orizzonti, approfondisce i suoi interessi nell’architettura, collabora al piano regolatore della Valle d’Aosta e inizia a elaborare una sua visione sulla possibilità di ricomporre il conflitto tra capitrale e lavoro in una virtuosa relazione tra impresa, territorio e lavoratori, e getta le basi delle azioni che permetteranno all’Olivetti di essere riconosciuta come azienda di assoluta avanguardia nell’innovazione sociale e urbanistica.
Vive la Seconda Guerra come un trapasso di civiltà e approfitta del rifugio in Svizzeraper scrivere, tra il 1944 e il 1945, il suo manifesto teorico: L’Ordine politico delle Comunità.
Figura unica e irripetibile di uomo d’impresa e intellettuale, attrae attorno a sé molti dei più brillanti cervelli in tutti i settori: dalla sociologia alla psicologia, dalla letteratura alla poesia e all’economia, e così la Olivetti diventa la culla della migliore classe dirigente della nuova Italia repubblicana. Scrive Alberto Saibene nel suo libro L’Italia di Adriano Olivetti del 2017: “La cosa veramente nuova e inedita era che Adriano reclutava persone intelligenti e lasciava loro la possibilità di esserlo”.
Nel 1946 fonda una sua casa editrice (Edizioni di Comunità), la rivista Comunità e il Movimento omonimo, e ne fa lo strumento della sua azione politica e culturale con la quale aspira a modernizzare il Paese. Gli anni ‘50 vedono la piena affermazione internazionale dell’Olivetti, che arriva a contare 36 mila dipendenti in tutto il mondo. L’attività politica di Adriano diventa diretta e culmina con la sua elezione a deputato nel 1958.
Sempre nel 1958, prende due decisioni ambiziose e coraggiose: acquista la statunitense Underwood e apre la strada all’era dell’elettronica ponendo la sua Olivetti in testa all’avanguardia mondiale, ma entrambe saranno alla base delle burrasche che si abbatteranno sull’impresa negli anni a venire minandone solidità e prestigio, mosse dalle fobie degli Stati Uniti che temevano per il loro primato strategico più che da problemi finanziari aziendali, che di quelle fobie furono semmai l’effetto.
La morte improvvisa – e per molti aspetti ancora oscura – interrompe il 27 febbraio del 1960 una vita straordinaria rivolta al futuro, facendone di fatto l’ennesima promessa mancata nella storia degli ultimi secoli, l’ennesimo esperimento incompiuto di una società basata su principi diversi da quelli dello sfruttamento e del profitto fine a sé stesso. Nel caso della società immaginata da Olivetti, sulla sua idea di Comunità, premessa di una società tecnologicamente avanzata, partecipata, integrata con il territorio, solidale e giusta.
Il suo impegno civile e il suo pensiero furono raccolti due anni dopo dalla famiglia e dai suoi collaboratori più stretti nella Fondazione Adriano Olivetti, per proseguire idealmente le attività comunitarie all’insegna del simbolo della campana pensato da Adriano:
Ognuno può suonare senza timore o esitazione la nostra campana. Essa ha voce soltanto per un mondo libero, materialmente più fascinoso e spiritualmente più elevato. Suona soltanto per la parte migliore di noi stessi, vibra ogni qualvolta è in gioco il diritto contro la violenza, il debole contro il potente, l’intelligenza contro la forza, il coraggio contro la rassegnazione, la povertà contro l’egoismo, la saggezza e la sapienza contro la fretta e l’improvvisazione, la verità contro l’errore, l’amore contro l’indifferenza.
La Fondazione mantiene vivo quell’impegno attraverso la pubblicazione degli scritti originali e di nuovi studi, o iniziative quali seminari, convegni e gruppi di approfondimento.
Tanti sono i testi, gli articoli, le pubblicazioni, i documentari, le interviste e i servizi televisivi, e c’è anche un film a parlarci dell’esperienza di Adriano Olivetti. La sua storia, certamente tra le più affascinanti del nostro dopoguerra e del boom economico, è molto raccontata, certo, ma al di là delle pubblicazioni delle Edizioni di Comunità, sembra che spesso non se ne voglia cogliere la portata e l’attualità, che l’interesse si fermi alla biografia e non risponda ad alcuna esigenza di riflessione critica sull’attualità delle nostre società. In quasi tutte le occasioni è facile riscontrare la tendenza a storicizzarne il percorso, a considerarlo un episodio che, per quanto interessante, alla fine viene comunque riposto nello scomparto delle utopie. Così come è frequente imbattersi nella celebrazione dell’opera e degli straordinari meriti imprenditoriali, dei progetti innovativi, dei traguardi tecnologici, della coraggiosa espansione verso nuovi mercati, della cura per la bellezza, il design e l’urbanistica, della gestione aperta e integrata con il tessuto sociale, della sensibilità per la cultura e i bisogni della popolazione, della capacità di anticipare lo sviluppo sociale. È più raro, invece, imbattersi in riflessioni sull’attualità del suo pensiero, sulla possibilità di riproporre il suo modello all’attenzione di un dibattito ormai impoverito. Ancora più raro è imbattersi in una domanda facile facile: cosa sarebbe stato dell’Italia e di Adriano Olivetti, se la sua idea avesse resistito anche solo altri vent’anni, fino agli anni ‘80?
Sul racconto della vita di Adriano si è cimentata addirittura la RAI, che ha prodotto un film per la TV in due puntate per la regia di Michele Soavi, figlio di Lidia Olivetti, secondogenita nata dall’unione di Adriano con la prima moglie Paola Levi, sorella di Natalia Levi Ginzburg. La trama di La forza di un sogno è molto coraggiosa e rivela fin dall’inizio la forte e nefasta influenza della nevrosi da Guerra Fredda degli Stati Uniti sui destini dell’azienda di Ivrea, colpevole secondo il Dipartimento di Stato di minacciare il primato tecnologico-strategico – e quindi la sicurezza – della potenza mondiale nel periodo a cavallo dei governi dei democratici Roosevelt e Truman. È oltremodo interessante che la trama sia stata firmata dal nipote di Adriano, ma come molto spesso capita quando si narrano storie ricche di spunti capaci di aprire differenti prospettive, insieme agli spunti vengono “somministrati” anche gli antidoti. Il fantasioso stratagemma narrativo della spia che si infiltra nella vita di un Adriano vagamente sospettoso, ma ugualmente disposto a lasciarsi spiare perché fiducioso di poter convincere spia e mandanti dell’universalità della sua idea, ha forse lo scopo di tratteggiare un personaggio visionario e dirompente, ma sostanzialmente ingenuo, il cliché del genio trasognato. Al contempo, però, dispiega tutta la più tipica retorica hollywoodiana, quel “vezzo” di raccontare tutta la verità e perfino più della verità, e quindi di auto-assolversi, purché non si racconti la verità vera: sollevare quel po’ di polvere che basta per confondere il confine tra ciò che è vero e ciò che non lo è.
La realtà deve essere stata ben altra cosa, molto più subdola e sottile, fatta di sotterfugi e trappole politiche e finanziarie architettate nell’ombra, che ben poco avevano a che fare con improbabili Mata Hari, ma poco alla volta hanno minato e sgretolato l’idea di Adriano Olivetti che, certamente non per caso, il titolo del film definisce “sogno”.
Per trovare un invito al confronto con il pensiero olivettiano ho dovuto imbattermi nella registrazione di una puntata di Porta a Porta dell’ottobre del 2013, in concomitanza con il passaggio del film su RAI 1. È proprio vero che ormai non possiamo più stupirci di nulla.
In quell’occasione, il nostro Vespa nazionale invitò, oltre agli attori della fiction, anche Franco Ferrarotti, capostipite della disciplina sociologica italiana, tra i tanti intellettuali che Adriano chiamò alla guida dell’azienda negli anni d’oro e che, tra l’altro, fu il prosecutore della sua esperienza parlamentare quando, eletto nel 1958, decise poi di rientrare a Ivrea.
La potenza delle sue idee di intellettuale e imprenditore può essere rinvenuta intatta nella testimonianza e nel racconto di Ferrarotti:
Adriano Olivetti era un sognatore, ma attenzione, il suo sogno era realistico! Era un utopista, ma tecnicamente tutt’altro che sprovveduto. Parlava di riforme, ma non astrattamente, lui progettava anche il modo di attuarle. Era un innovatore e univa tutto in un grande ideale di efficienza e di bellezza oserei dire… rinascimentale! Bisogna ricordare che le grandi cose si fanno partendo da noi, dalla nostra piccola comunità, e Olivetti ci ha insegnato a essere abitanti del villaggio, della piccola comunità del Canavese, di Ivrea, e nello stesso tempo del mondo. Ciò che oggi distingue ancora profondamente Olivetti dai grandi dirigenti delle grandi multinazionali, apolidi e nomadi che passano da un paese all’altro, è che non bisogna accettare il principio della a-territorialità delle multinazionali di oggi, non bisogna mai dimenticare la comunità di origine, perché dimenticare le proprie radici vuol dire accettare il venir meno dell’obbligazione etica verso la propria comunità.
Le sue fabbriche erano di acciaio e di cristallo, non erano più le ciminiere e i capannoni con i tetti a sega. Erano fabbriche veramente nuove (…).
Non erano soltanto il prodotto e la produzione a essere geniali, ma era anche questa sua capacità imprenditoriale. In Olivetti non si poteva licenziare, l’occupazione non era una variabile, ma una costante, non la si toccava. Per mantenere in equilibrio l’equazione industriale, lui agiva sugli altri fattori: cercava nuovi prodotti, nuovi mercati. Ma attenzione: non siamo di fronte a un filantropo, al padrone buono, al capitalista illuminato. Olivetti era un vero imprenditore, voleva il profitto, cioè il differenziale tra costo di produzione e prezzo di vendita, era fondamentale! Ma questo è il punto: concepiva il profitto al netto del servizio alla comunità e non dei propri interessi. Il profitto non era finalizzato solo all’azienda, ma a mantenere le condizioni indispensabili per l'equilibrio dell’ecosistema: in termini ecologici, ma prima ancora sociali. Fabbriche e comunità sono legate da un rapporto simbiotico, questo è il punto che manca spesso agli imprenditori di oggi, anche ai più geniali, che purtroppo spesso sono anche i più voraci, i più aggressivi!
L’industrializzazione è un processo sociale globale e complesso, non si risolve come fa la Cassa del Mezzogiorno con i benefici a pioggia. L’industrializzazione comporta uno stravolgimento del tessuto sociale, trasforma o addirittura sovverte la vita delle famiglie, l’istruzione, e anche l'atteggiamento religioso verso le tradizioni locali. Olivetti l'aveva compreso bene, e la sua lezione vale ancora oggi per una lunga serie di imprenditori, geniali solo quando si tratta di guardare ai propri conti.
Olivetti articolava la sua azione su tre direttrici. In primo luogo, l'efficienza tecnica: le fabbriche e i prodotti devono funzionare. In secondo luogo, i lavoratori, tutti, dal primo degli ingegneri all’ultimo degli ausiliari, devono sentirsi integrati e partecipi della vita della fabbrica, e avvertire la fabbrica come partecipe della vita della Comunità. Terzo, ma non ultimo: la cultura, che oggi ci manca in maniera lancinante. Una cultura che dia la consapevolezza delle proprie responsabilità sia per i credenti che per i non credenti, cioè un ideale che vada al di là della concezione egocentrica e limitata del potere al servizio dei propri interessi.
L’idea di Olivetti non era un sogno, era un progetto razionale. Esortato da suo figlio Robertò, capì l’enorme potenzialità dell'elettronica e, come al solito scelse i migliori per mettere in piedi una sorta di laboratorio pionieristico. Non voglio dire che sul suo cadavere ancora caldo siano discesi gli avvoltoi, ma immediatamente dopo la sua morte cessarono le linee di credito e quindi gli investimenti in quella direzione. Ho l'impressione, dai miei numerosi viaggi e dalle ricerche effettuate negli Stati Uniti, che vi sia stato un preciso veto politico, accettato supinamente dalla nostra classe politica. Certamente, certamente siamo di fronte a un dirottamento di fondi verso speculazioni finanziarie, verso le quali Olivetti era assolutamente ostile, direi in maniera biblica! Era contro la speculazione che fa soldi con i soldi, che sfrutta la congiuntura, che cavalca gli alti e i bassi dei mercati finanziari sulla pelle delle persone. Era contro quel tipo di capitalismo e mi diceva: “Il capitalismo ha vinto contro il socialismo, ma non si salverà dai suoi stessi cattivi consiglieri”.
Quale fosse la sua idea di industria e della sua funzione sociale, Adriano lo spiegò bene nel discorso che pronunciò all’inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli, nel 1955:
Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?
Non solo un investimento economico, dunque, ma una fabbrica concepita come progetto culturale e sociale, come snodo di progresso civile e realizzazione sociale. Una fabbrica a misura d’uomo, perché in essa l’uomo trovi “nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza”.
Il Movimento Comunità nacque a Torino nell’autunno del 1948. Insieme a due amici che appartenevano a correnti della sinistra cristiana – Giuseppe Rovero e Giovanni Cairola – Olivetti decise di costituire un organismo allo stesso tempo di protesta contro il regime dei partiti e testimonianza per un nuovo possibile sistema finalmente portatore di libertà, diritti e benessere per tutti gli italiani, capace di interpretarne le più profonde e naturali aspirazioni. Il Movimento denunciava la decadenza del regime parlamentare, come Adriano scrisse bene nel suo saggio Il cammino della Comunità:
Un domani, l’inefficienza di questi sistemi potrebbe essere fatale alla sopravvivenza della democrazia e della libertà. La crisi politica si acuisce nell’immobilismo dell’azione di governo, nel vano e contraddittorio agitarsi delle correnti, nell’annientarsi di ogni possibilità di rinnovamento e risanamento perché il potere non è più in mano all’esecutivo, ma alle segreterie dei partiti, alle loro burocrazie scoraggiate. (…) All’alba di un mondo che speravamo nuovo (…) molte illusioni sono cadute e molte occasioni sfuggite perché i nostri legislatori hanno continuato a guardare al passato e hanno mancato di coerenza e coraggio.
Come scrisse la cattolica Simone Weil, “Non abbiamo mai conosciuto niente che assomigli anche da lontano a una democrazia: in ciò che chiamiamo con questo nome, il popolo non ha occasione né mezzi per influire seriamente sulla vita pubblica e tutto ciò che sfugge agli interessi delle persone è lasciato alle passioni collettive, sistematicamente e ufficialmente incoraggiate. Il partito è una macchina per fabbricare passioni collettive”. (…) Lo scopo dei partiti politici è il loro potenziamento, tradendo e dimenticando gli ideali che li mossero.
Walter Lippman, il noto giornalista e politico statunitense, nelle sue analisi sul condizionamento operato dai nascenti mass media, parlando delle pressioni a cui è sottoposto il potere esecutivo nelle democrazie, denuncia il mercanteggiare dei partiti e dei loro portavoce di interessi organizzati, settari e ideologici, malattia fatale per gli interessi dello Stato come libera società, soprattutto quando è il momento delle decisioni sulle gravi e difficili questioni come la pace e la sicurezza: il potere esecutivo e quello giudiziario perdono l’autorità di decidere.
Quando scrisse L’ordine politico delle Comunità, Adriano doveva avere già ben chiaro questo quadro. Secondo lui, il macchinoso e disordinato processo democratico fondato sui partiti non avrebbe mai potuto né saputo risolvere i problemi nei campi, nelle fabbriche, nelle scuole, nella vera vita dei cittadini della quale i politici si costruivano schemi e soluzioni sempre più lontani dalla realtà. Nella disastrata situazione dell’Italia postbellica che poteva aprirsi a incoraggianti opportunità o a tragiche involuzioni, Adriano era preoccupato degli allarmanti sintomi premonitori quali la progressiva scomparsa di un’informazione indipendente dai gruppi monopolistici, della radio e televisione di Stato ostaggio dei partiti di governo, della decadenza delle istituzioni universitarie, del letargo e della pochezza delle iniziative culturali, del reddito nullo o sotto il livello minimo di sussistenza per quattro milioni di italiani, delle famiglie senza casa mentre l’edilizia fioriva per le sole categorie privilegiate. Secondo lui, tutte potenziali premesse di nuove forme di autoritarismo e di soppressione delle libertà fondamentali.
Le forze spirituali in un mondo che nasce
Come abbiamo detto, Olivetti non è stato un sognatore né un astratto ideologo. Al contrario, era dotato di un forte senso pratico, e quindi non si fermò alla critica, pur ben articolata nel suo saggio Democrazia senza partiti del 1949. Prima di addentrarci nel merito della declinazione concreta della sua idea di Comunità-Stato, però, vorrei soffermarmi ancora su un altro elemento del pensiero olivettiano che – se ce ne fosse bisogno – ci dà un’ulteriore misura della sua originalità. Da autentico credente, orientò tutti i suoi sforzi per cercare di coniugare e conciliare in una stessa visione due aspetti e bisogni apparentemente antagonisti quali sono il materialismo e la spiritualità. Per Adriano, la spiritualità è tutt’altro che un’idea astratta, e costituisce invece una leva imprescindibile dell’azione materiale. In tempi di ubriacatura scientista, questo è un ulteriore motivo per riconsiderare il suo pensiero.
Così scrive nel saggio Il mondo che nasce:
Per guidare gli uomini nella loro vita di ogni giorno e nella loro breve vita terrena, occorre che il mondo politico ancor chiuso nel suo tradizionale empirismo accetti finalmente le indicazioni della scienza e riconosca il fine e i mezzi dell’azione comunitaria in cui i valori dello spirito, Verità, Giustizia, Bellezza e Amore, possano realmente prendere il predominio e il sopravvento. Una società che non crede nei valori spirituali, non crede nemmeno nel proprio avvenire e non potrà mai avviarsi verso una meta comune, e affogherà la comunità nazionale in una vita limitata, meschina e corrotta. Senza questa comprensione dei valori scientifici e spirituali vediamo l’attività dello Stato disperdersi, disintegrarsi, sconnettersi in mille provvedimenti caotici, dispersivi, che non conducono ad alcun fine organizzato e consapevole, se non a quello fraudolento di ingrandire la potenza del proprio partito, favorendo clientele e interessi particolari. Troviamo così innanzi a noi gli antipodi dell’atteso splendido regno della giustizia, della cultura e della verità.
E’ soprattutto nella Verità che troveremo la vera rivoluzione, il vero rinnovamento morale e materiale di ogni cosa. Poiché la verità è il tutto: scienza, sapienza, carità.
La Giustizia, la seconda delle forze spirituali, è a sua volta illuminata dalla Verità. (…) Nei nostri paesi una percentuale molto piccola della ricchezza prodotta dalla nostra attività economica torna alla comunità, sia per mezzo di azioni volontarie sia come risultato del sistema fiscale. Troppi lavoratori si chiedono se non c’è qualcosa di fondamentalmente ingiusto e tragico nel fatto che la ricchezza che essi creano non venga utilizzata per meglio soddisfare i bisogni e risolvere i problemi della loro comunità. Né il paradigma della invisibile armonia in virtù della quale l’arricchimento di ciascuno avrebbe servito la comunità, né l’illusione paternalistica possono ancora essere portati ad ammonimento dei lavoratori che si domandano se veramente la loro fatica, che pur serve al mantenimento della propria famiglia, non contenga in sé stessa un tragico vizio, la contemporanea creazione di una ricchezza che, lungi dall’esser indirizzata a necessità sociali ed umane che gridano urgenza, alla ricerca scientifica, alle cose dell’arte, è distaccata dai veri problemi della comunità, per cui va dispersa nell’anarchia e nel disordine.
Infine è superfluo per me insistere sull’influenza spirituale della Bellezza. Certamente esiste ovunque in Europa una grande vocazione e capacità artistica, ma questa sembra avulsa dalla vita delle comunità nazionali, giacché la comprensione artistica sembra essere il privilegio di una piccola classe. Non ci sono sacrifici troppo gravi per ottenere un ordine libero e giusto. Inoltre gli effetti anche materiali dell’instaurazione di un ordine improntato ai più alti valori spirituali non tarderebbero a essere manifesti. (…) Gli uomini, le ideologie, gli Stati che dimenticheranno una sola di queste forze creatrici non potranno indicare a nessuno il cammino della civiltà. Se le forze materiali si sottrarranno agli impulsi spirituali, se l’economia, la tecnica, la macchina prevarranno sull’uomo nella loro inesorabile logica meccanica, l’economia, la tecnica, la macchina non serviranno che a congegnare ordigni di distruzione e di disordine.
La proposta concreta
Molte coscienze sono inquiete e si trovano in una crisi dolorosa perché per esse i partiti non hanno rispettato la verità e hanno tradito gli stessi ideali dai quali erano nati. La parole d’ordine del cammino della Comunità dovrà quindi essere il riscatto del popolo italiano per una piena realizzazione della sua conclamata sovranità.
Il principio ispiratore nel rapporto fra i lavoratori, le imprese e la politica dovrà essere la giustizia e non la carità, perché chi opera secondo giustizia opera bene e apre la strada al progresso, mentre chi opera secondo carità segue l’impulso del cuore e fa altrettanto bene, ma non elimina le cause del male che trovano luogo nell’umana ingiustizia.
Sono parole che ripudiano il paternalismo industrialista, tanto più preziose perché pronunciate da un Olivetti colmo di umanesimo cristiano. Come spiegò bene nel già citato discorso ai lavoratori di Pozzuoli nel 1955, per Olivetti il fondamento di tutto è la giustizia, intesa come motivo di equità morale e civile, come risarcimento di un debito reciproco tra lavoratori e imprese, del lavoratore che riceve i mezzi per lavorare e allo stesso tempo pone l’impresa in grado di produrre e guadagnare, maturando il diritto a un risarcimento economico, ma anche culturale e morale.
Il modello comunitario di Olivetti esclude ogni ipotesi di economia che agisca “secondo natura” e rivendica il primato della politica e della conoscenza per modificare le norme della convivenza sociale e incanalarle su modalità partecipative capillari. È attorno a questa idea di capillarità che si concretizza il progetto di Comunità: una rete di piccole e governabili molecole che per gradi successivi convergono in una nuova forma di Stato. Secondo Olivetti, ciascuna Comunità deve essere:
concreta, visibile, tangibile, né troppo grande né troppo piccola, territorialmente definita, dotata di vasti poteri, che dia a tutte le attività quell’indispensabile coordinamento, quell’efficienza, quel rispetto della personalità umana, della cultura e dell’arte che la civiltà dell’uomo ha realizzato nei suoi luoghi migliori.
Negli scritti di Adriano la parola “concreto” ricorre spesso in difesa dall’accusa di utopia rivolta al suo movimento. E decisamente concreta è, infatti, l’analisi del tessuto sociale, culturale e politico dal quale partire:
La società italiana è formata da qualche centinaio di circondari, di diocesi, di province, in sostanza da qualche centinaio di unità territoriali che potrebbero avere un loro carattere, una loro peculiare fisionomia se ciascuna di esse, attraverso la guida più consapevole, responsabile, dinamica, quella che nasce dalle attività economiche, potesse essere risanata moralmente e materialmente (…).
Concreto (e felicissimo) è anche l’accostamento della Comunità al concetto di “Piccola Patria”, indicato come nucleo generatore di una nuova solidarietà:
[La Piccola Patria della Comunità] è quella dove sono nati i vostri figli, dove avete passato la vostra infanzia, dove avete trascorso anni di sofferenza come anni di letizia e pace (...). La natura, il paesaggio, i monti, i laghi, il mare, creano con i nostri fratelli i limiti della nostra Comunità.
La rete delle Comunità è il mezzo concreto – appunto – per realizzare il disegno di rifondazione dello Stato dal basso, passando per gradi dalla “piccola patria” alla nazione, in una lotta che non sia per il denaro o il potere, ma per il bene della Comunità, per l’affermazione dei figli migliori, per una società che abbia al centro la scienza, l’arte, la cultura e la giustizia, pur non estraniate dalle contese non ancora risolte tra capitale e lavoro.
Ma come fare per realizzare il progetto, per sfuggire alle “cause del male che trovano luogo nell’umana ingiustizia”, per superare il limite che nell’idea olivettiana è costituito dal sistema partitico? Consapevole del pericolo rappresentato da ogni tentativo di riforma del delicatissimo congegno parlamentare, Adriano sa che la stella polare del suo progetto deve necessariamente essere la conciliazione e la sintesi tra il criterio politico e quello della competenza, e nessuno dei due deve prevalere. Detto così sembra l’ennesima enunciazione di principi teorici e astratti, ma nel suo saggio del 1959 Chi sceglie i ministri?, Olivetti sfoggia la miglior prova della sua concretezza e presenta il suo progetto con una dovizia di particolari che... tradisce l’indole dell’ingegnere racchiusa nella sua poliedrica personalità.
Non più proprietà privata, ma nemmeno centralizzata
C’è un aspetto che più di ogni altra trattazione può forse dare la misura della portata e del significato del concetto di Comunità.
Il giorno della sua morte, sul treno che lo conduceva da Milano a Losanna, Adriano Olivetti aveva con sé, tra i documenti su cui stava lavorando, un progetto per il trasferimento della proprietà dell’azienda. L’idea era di costituire una fondazione e intestarle il controllo della società, così da garantire la continuità della gestione aziendale, del sistema valoriale e della visione culturale. Si sarebbe trattato di una soluzione del tutto innovativa per l’Italia e, se il progetto fosse andato in porto, avrebbe probabilmente sottratto l’azienda alle vicissitudini che negli anni successivi ne provocarono il declino e la fine. La forma fondazionale, infatti, avrebbe avuto il fine di preservare nel tempo la missione e di mettere al riparo l’impresa dalle contese del mercato, riconoscendone al tempo stesso la funzione sociale. Il progetto di trasformazione proprietaria è tra quelli che meglio possono aiutare a capire la distanza di Adriano Olivetti dall’accusa di paternalismo.
Olivetti intendeva la fabbrica non solo come luogo produttivo, ma come luogo essenziale per la vita della Comunità. Da qui la proposta di socializzazione dell’impresa, nella quale fosse rappresentata la Comunità, ovvero quell’organismo di sintesi dove vivono tutte le forze che compongono la società:
La Comunità possiede una parte del capitale azionario delle grandi e medie fabbriche, ne nomina taluni dei dirigenti principali, provvede al trasferimento di azioni industriali, compra e vende terreni e proprietà in relazione alle necessità di sviluppo tecnico o perfezionamento sociale della Comunità, provvede all’istruzione elementare e professionale, assiste lo sviluppo dell’artigianato e del turismo. Feconda di trasformazioni sociali ed economiche importanti e capace di flessibili applicazioni, appare l’introduzione del concetto di Comunità concreta nel dominio dell’agricoltura. Qui la Comunità potrà esercitare infatti una diretta influenza nella creazione di una multiforme struttura cooperativa dell’economia agricola, dove ciascun elemento potrà essere federato in autonome organizzazioni regionali.
Come ha ricostruito Gustavo Zagrebelsky nell’introduzione a un altro saggio di Adriano, Le fabbriche di bene per Edizioni di Comunità, “il capitale della Olivetti avrebbe dovuto gradualmente passare nel patrimonio dell’istituenda fondazione, fino all’acquisizione del controllo e della gestione, affidata a rappresentanti dei lavoratori, degli enti locali e delle istituzioni culturali e universitarie. I profitti, oltre alla naturale destinazione ai salari e agli stipendi, all’innovazione tecnologica e all’espansione dell’impresa, sarebbero stati investiti in opere e iniziative di pubblica utilità a vantaggio del territorio della Comunità. Nell’ipotizzata fondazione sociale d’impresa si sarebbero cosi rispecchiati i caratteri fondamentali della Comunità e si sarebbe superata la trasmissione ereditaria del potere economico, la quale, oltre a rappresentare un’ingiustizia sociale evidente, non garantisce affatto la gestione efficiente delle risorse dell’impresa. Il tema dell’efficienza e della competenza è centrale nelle preoccupazioni di Olivetti e ritorna continuamente:
Ogni soluzione che non desse esclusiva autorità e responsabilità a uomini di altissima preparazione è da considerarsi un inganno. L’operaio direttore di fabbrica è un romantico ma anacronistico ricordo dei primi tempi della rivoluzione sovietica, mentre l’operaio membro di un consiglio d’amministrazione è una tragica finzione retorica della repubblica sociale fascista.
A ciascuno il suo, dunque; senza che da ciò derivino discriminazioni alla dignità del lavoro nell’opera comune e, soprattutto, senza falsi miti. Ciò che contava – e che Olivetti poteva permettersi d’immaginare – era l’uscita dal governo dell’azienda della proprietà fondata sul diritto ereditario (cioè di lui stesso e dei suoi familiari), per rientrare eventualmente (nel suo caso, sicuramente) come dirigente per meriti professionali.
Non chiedo tanto
Come spero si sia capito, qui non ho voluto fare di questa storia, della storia di Adriano Olivetti, una questione di “revanscismo ideologico”, o tanto meno un’apologia. E nemmeno voleva essere un (maldestro) tentativo vetero-ideologico per illudermi di riuscire a isolare nel pensiero di Adriano chissà quale traccia di socialismo. Chi se ne frega.
Ancor meno volevo illudermi di recuperare schemi e strategie di rapporti di forza che non possono più essere applicati: la storia è scivolata via, è cambiata, quegli schemi sono stati battuti e abbattuti, per amore o per forza, e se non hanno funzionato allora, figuriamoci se possono funzionare oggi che tutte quelle antiche sensibilità politiche ed emotività sociali che un tempo furono capaci di “agitare” intere generazioni sono andate in cenere, morte e sepolte, annichilite – per dirla con Adriano – proprio da quel sistema di partiti che è sempre più “macchina per fabbricare passioni collettive”. Oltretutto, i partiti oggi non sono più buoni manco per questo, visto quanto farlocche sono le passioni che fabbricano, come appare sempre più evidente a un numero sempre più grande di cittadini.
È semmai questione di recuperare una minima dotazione di strumenti di analisi del momento storico, una capacità critica, un’indipendenza di pensiero e di azione, un’idea di autodeterminazione del nostro destino come popolo. Insomma, un po’ di quel pensiero che proprio Olivetti considerava fondamentale per rifondare il sistema dei valori. Senza contare che, grazie a lui, potremmo tornare ad appropriarci del significato originale e più profondo di termini quali “democrazia”, “patria” e perfino “corporazione”, senza timore di cadere nelle trappole e negli equivoci del modernismo buonista, fatto di schemi ripetuti a pappagallo senza alcuno sforzo di comprensione dei percorsi storici, supportati non da argomentazioni, ma solo da ostinati preconcetti.
In un paese che si dice libero, la storia di Olivetti dovrebbe recuperare la ribalta, dovrebbe costituire una proposta di confronto più che mai attuale, e non una bella idea del passato che ha lasciato solo un bel ricordo, o al massimo la traccia di una buona imprenditorialità.
Non mi interessa sapere se Adriano avesse completamente ragione o se nella sua visione fossero comprese tutte le chiavi per affrancarci dalla “umana ingiustizia”. Mi piacerebbe solo che si potesse finalmente tornare a ragionare e a confrontarsi, e confrontarsi con l’esperienza olivettiana sarebbe una straordinaria ripartenza.
Luigi Mezzacappa, CIVG
Fonti consultate
Il Cammino della Comunità, Adriano Olivetti, Edizioni Comunità
Le fabbriche del bene, Adriano Olivetti, Edizioni Comunità
Città dell’uomo, Adriano Olivetti, Edizioni Comunità
Il mondo che nasce, Adriano Olivetti, Edizioni Comunità
Democrazia senza partiti, Adriano Olivetti, Edizioni Comunità
La forza di un sogno, regia di Michele Soavi, RAI fiction
Intervista a Franco Ferrarotti, Porta a Porta
Industria e cultura senza più confini: l’idea di comunità per Adriano Olivetti, articolo di Valentina Volpi
Prove di futuro: le intuizioni di Adriano Olivetti, Beniamino de' Liguori Carino, Gianluca Salvatori, Rivista Impresa Sociale