Dentro Amazon la disciplina conta più dei diritti.
Il rigido controllo su ogni singolo gesto di magazzinieri e driver è giustificato dal gigante dell’e-commerce in nome di esigenze produttive e sicurezza, ma per lavoratori, sindacalisti e istituzioni nazionali ed europee instaura una pressione ansiogena e illecita. E c’è chi parla anche di “militarizzazione del lavoro”
di Marco Veruggio
Col suo milione e mezzo di dipendenti, in costante turnover per l’utilizzo strutturale di forza-lavoro precaria, Amazon, il gigante americano dell’e-commerce, può sperimentare l’applicazione delle tecnologie più innovative ai tradizionali metodi di organizzazione del lavoro. “Taylor-fordismo digitale” lo hanno definito qualche anno fa su Rassegna Sindacale due studiosi italiani, Bruno Cattero e Marta D’Onofrio: la divisione del lavoro teorizzata da Frederick Taylor ai primi del ‘900 e la catena di montaggio di Henry Ford, potenziate dall’uso intensivo di intelligenza artificiale, Big Data e management algoritmico (ogni gesto del lavoratore viene tracciato digitalmente e i dati elaborati dall’Ia) per ottenere dai lavoratori la pedissequa ripetizione di procedure standard, ritmi elevati, rigida osservanza delle regole. E i diritti?
Poca privacy e pressione ansiogena sui lavoratori
A gennaio il garante della privacy francese ha multato per 32 milioni di euro Amazon France Logistique per sovrautilizzo dei dati estratti digitalmente dalle prestazioni di lavoro. “A inizio turno i dipendenti strisciano il badge e se non raggiungono la postazione nei tempi previsti scatta la prima segnalazione”, spiega Michele Molè, PhD in Diritto comparato del lavoro all’Università di Groningen. Il controllo su pause e ritmi di lavoro, tramite scanner, telecamere e altri dispositivi permette ad Amazon di tracciare e memorizzare ogni singola azione individuale, attimo per attimo, fino a un mese prima e se le segnalazioni si accumulano scattano prima l’ “invito a migliorare”, poi il “riaddestramento”. Per Molè, “l’annotazione più interessante del Garante, oltre alla violazione delle regole sulla privacy, è che così si instaura un sistema ansiogeno di pressione sui lavoratori”.
Verso la militarizzazione del lavoro
A scanner e telecamere si affiancano anche strumenti “novecenteschi”. L’anno scorso i ricercatori della Michigan State University hanno scoperto che in alcuni centri nel sud degli Usa, dove i residenti sono perlopiù dipendenti Amazon neri e latinoamericani, l’azienda pagava agenti privati e poliziotti fuori servizio (ma in divisa e auto d’ordinanza) per controllarli, presidiare entrate e parcheggi dei magazzini, persino dirimere controversie sul lavoro.
“Parliamo di militarizzazione del rapporto di lavoro – spiega Maite Tapia, docente di Sistemi di impiego comparati – basandoci su tre elementi: la rigida sorveglianza, il ricorso a polizia pubblica e privata – in aggiunta alla sicurezza interna e a centinaia di telecamere – e una gestione da piantagione di cotone ottocentesca”.
Ma sono gli stessi lavoratori, sottolinea, a parlare di militarizzazione e sistema carcerario. “Uno di loro ci ha raccontato che il suo capo lo ha seguito in bagno parlando al telefono con la direzione: ‘Sì, è lui, lo riconosco dalle scarpe’ diceva”.
Forse non è un caso se Amazon ha specifici programmi di assunzione per ex militari, celebra la loro “capacità di leadership” e scrive sul proprio sito che “un passaggio dalla carriera militare a un ruolo civile in Amazon è una transizione naturale…”. Amazon Warriors, guerrieri di Amazon, li ha chiamati il fondatore Jeff Bezos. Anche in Italia agli ex soldati è riservata una corsia preferenziale per posizioni apicali. “Io, ex militare di Marina, ora guido il centro Amazon a Bitonto, l’hub della Puglia”, titolava La Repubblica a marzo e un anno prima il Corriere della sera intervistava un manager del centro di Spilamberto: “Da capitano dell’esercito a manager in Amazon”.
Per essere assunti alla guida di compagnie e plotoni aziendali nelle inserzioni categoria “Military” è richiesta esperienza proporzionale al ruolo: due anni al comando di 100 uomini, un anno al comando di 30 ecc. Angelo Mastrandrea, autore de L’ultimo miglio. Viaggio nel mondo dell’e-commerce e della logistica in Italia tra Amazon, rider, portacontainer, magazzinieri e criminalità organizzata, parla di “modello militar-aziendale” basato su “ordine, disciplina e controllo”.
I lavoratori raccontano il sistema
E i lavoratori? “Ci sono molta invasività e segretezza – racconta Ivan, autista in una ditta d’appalto del centro Italia che consegna per Amazon –. Sanno tutto di te, anche le cose personali. Se cambi lo stato di Whatsapp, i primi che lo vedono sono loro. Controllano col numero dell’ufficio”. Parla della sua ditta, ma come ha rivelato la procura di Milano, che a luglio ha sequestrato 121 milioni di euro ad Amazon con l’accusa di frode fiscale e somministrazione illecita di manodopera, la demarcazione organizzativa tra Amazon e ditte d’appalto è così labile che queste di fatto sono il semplice braccio operativo di quella.
“Ogni mattina arrivano le rotte e ci vengono distribuite in base ai dati sulle nostre prestazioni: oltre 100 parametri con cui Amazon disseziona il nostro lavoro e misura i nostri risultati. Poi coi dispatcher, cioè i coordinatori delle operazioni di consegna, della nostra ditta ci sono i dipendenti Amazon a monitorare i nostri dispositivi digitali: vedono come procedono le consegne e, se del caso, intervengono per ‘aiutarci’, come dicono loro. Per scoprirlo, però, c’ho messo quattro anni, perché a noi non dicono una parola più dello stretto necessario: sembra di essere in una base militare”, sbotta Ivan. Insomma quello tra committente e ditte d’appalto sembra più un gioco delle parti. “Amazon ti sprona a ‘rispettare il codice stradale’, a ‘idratarti quando fa caldo’ – aggiunge una collega di Ivan –, ma se sei in ritardo, la telefonata dalla tua ditta arriva inesorabile: ‘Hai problemi?’, che significa ‘Vai più veloce!’. I primi giorni tornavo a casa esausta, piangevo, non avevo neanche la forza di cucinare per mia figlia”.
Una pressione acuita da regole imperscrutabili. “Le sofisticate procedure di Amazon non contemplano che lo scotch per i pacchi finisca – spiega Massimiliano Cacciotti, giornalista, un anno di lavoro nell’hub di Passo Corese, da cui ha tratto il long form multimediale “Amazoniade” –. Perciò ti tocca andare a cercartelo, ma l’algoritmo vede solo che sei fuori postazione e prima o poi un capetto te ne chiede conto”. “Un giorno si son fermate le macchine – racconta una magazziniera del Veneto –. Non potevamo lavorare e ne ho approfittato per sedermi, perché stiamo in piedi ore e ore senza pause e da quando lavoro lì prendo dei farmaci per il mal di schiena. Risultato: mi han fatto rapporto, ‘feedback costruttivo’ lo chiamano loro. Diceva: ‘Lavoratore si siede sulla scaletta di pick to rebin’”.
Le pratiche antisindacali negli States e in Europa
Anche nel rapporto col sindacato la disciplina sembra contare più dei diritti. Negli Usa Amazon lo boicotta apertamente, scoraggiando le adesioni con ogni mezzo. A Bessemer (Alabama) è riuscita persino a far cambiare la temporizzazione dei semafori per ostacolare gli attivisti sindacali che provavano a fermare i lavoratori ai cancelli. E nel 2020 il sito Vice ha rivelato che oltre ai propri analisti per la sicurezza (alcuni provenienti dall’intelligence militare) ricorreva alla famigerata agenzia Pinkerton per spiare l’attività sindacale e valutare i rischi di sindacalizzazione nei diversi magazzini. Il primo riconoscimento di un sindacato da parte di Amazon è arrivato solo l’anno scorso. L’ha ottenuto Amazon Labor Union, l’organizzazione fondata da Chris Smalls, licenziato nel 2020 perché aveva denunciato l’inerzia dell’azienda quando il covid dilagava nel suo hub a New York.
Veniamo all’Europa. In Germania, dopo i primi scioperi nel 2014, Amazon ha aperto alcuni hub oltre confine, in Polonia, su cui dirottare gli ordini quando il sindacato blocca i magazzini tedeschi. Nel Regno Unito il sindacato Gmb, sconfitto a luglio nel referendum per il riconoscimento ufficiale nel magazzino a Coventry, denuncia l’impiego di mezzi intimidatori contro i suoi simpatizzanti. In Francia e in Italia le tutele sindacali sono maggiori e Amazon è più cauta, ma a Cgil, Cisl e Uil ci sono voluti comunque 10 anni dall’apertura del primo hub per essere riconosciute a livello nazionale.
Per Francesco Melis, Nidil Cgil, “l’azienda si trincera dietro la sicurezza per giustificare forme di controllo sui dipendenti e scarsa trasparenza sui processi lavorativi”. “Il problema – conferma Pierluigi Costelli, segretario della Filt Cgil di Bergamo, che segue gli hub di Cividate al Piano e Casirate d’Adda – sono i sistemi che controllano la singola postazione, dove opera un lavoratore identificato dal badge: perché secondo noi il controllo non è sull’organizzazione, come dicono loro, ma sul singolo lavoratore”.
E il singolo lavoratore spesso è disarmato. “Qui non trovi operai di fabbrica – precisa Costelli – ma gente che il lavoro in fabbrica non lo trova: immigrati, donne, insomma persone ricattabili, a cui Amazon offre un modello semplice: procedure standard, massificazione e grande stima per chi lavora e non fa domande”.
L’agibilità sindacale è decisiva perché, osserva ancora il ricercatore di diritto del lavoro Molè, “interventi istituzionali come quelli dei garanti per la privacy per funzionare vanno accompagnati dall’azione di sindacati solidi”. Lo conferma la condotta di Amazon verso le istituzioni europee. A dicembre ha negato a una delegazione di eurodeputati la possibilità di visitare alcuni impianti in Germania e in Polonia, invocando i “picchi di lavoro del periodo retail”. Nel 2021 non si era presentata a un’audizione della Commissione Occupazione e Affari Sociali sul rispetto dei diritti sindacali nei suoi magazzini, giudicata “chiaramente unilaterale”. Certo, Bruxelles a febbraio ha revocato il badge ai 14 lobbisti accreditati di Amazon, ma questo non impedirà loro di incontrare gli eurodeputati fuori dal Parlamento e fare il loro lavoro.
L’autore
Attivista, traduttore e ricercatore, Marco Veruggio ha pubblicato interventi su argomenti di carattere economico, politico e sindacale su testate italiane e straniere e, di recente, il saggio “Scanner e cannello. La classe operaia nelle supply chain globali” in La Fabbrica del soggetto: Ilva 1958-Amazon 2021 (2023) e Da New York a Passo Corese. Conflitto di classe e sindacato in Amazon (2024), con Charmaine Chua, Spencer Cox e Sergio Bologna. Nel 2023 è tra i vincitori del premio Calcata 4.0 per il giornalismo digitale.
Per saperne di più
Da leggere:
● AA.VV. Il costo della spedizione gratuita. Amazon nell’economia globale, Altreconomia, 2023
● Alessandro Delfanti, Lavoro e macchine ad Amazon, Codice Edizioni, 2023
● Angelo Mastrandrea, L’ultimo miglio. Viaggio nel mondo dell’e-commerce e della logistica in Italia tra Amazon, rider, portacontainer, magazzinieri e criminalità organizzata, Manni, 2021
● Charmaine Chua-Spencer Cox-Marco Veruggio, Da New York a Passo Corese. Conflitto di classe e sindacato in Amazon, Introduzione di Sergio Bologna, PuntoCritico, 2023
Da ascoltare:
● Amazoniani! Lavoro, precarietà lotte dei lavoratori Amazon, 2021, Spreaker
Da leggere, guardare e ascoltare:
● Amazoniade. Un anno nel magazzino di Passo Corese. Testo e video di Massimiliano Cacciotti. Illustrazioni di Emanuele Giacopetti, 2022
6/10/2024 https://lavialibera.it/