Sul mainstream o media aziendali

Il mainstream peggiora a vista d’occhio. E, tanto più peggiora, tanto meglio si vede in filigrana quando mente (anche se non è facile, di primo acchito, vedere quanto mente).

Peggiora ma non pare destinato, per il momento, a passare a miglior vita. Infatti viene sostenuto da possenti iniezioni di morfina, che lo rendono , se non più sano, quanto meno abbastanza arzillo.

Io, da modesto cronista, l’ho seguito con grande attenzione nelle sue circonvoluzioni: dalla narrazione che imbastì a proposito della fine dell’Unione Sovietica, all’esaltazione della figura di Boris Eltsin, dipinto a tinte pastello  come il primo presidente democratico della nuova Russia, mentre era soltanto un Quisling ubriacone che la Russia la svendette, privatizzandola, tutta intera, con la modica spesa di 10 miliardi di dollari (sottolineo,  dieci miliardi di dollari).

L’ho seguito, il mainstream  durante gli eventi dell’11 settembre 2001, a volte perfino ammirato della sua spettacolare potenza. Non si poteva non restare affascinati dalla capacità planetaria con cui riuscì prima a raccontare che il colpevole era stato Osama bin Laden, insieme a 19 terroristi semi-analfabeti, naturalmente islamici, poi a chiudere bruscamente e per sempre (forse) la pagina, dimenticandola insieme ai prigionieri di Guantanamo. Che infatti sono ancora là a prendere il sole di Cuba senza essere stati gratificati nemmeno da un qualche modesto capo d’accusa,  in compenso  definiti sbrigativamente “nemici combattenti”, che solo Bush sapeva cosa volesse dire.

Ma questa è ormai storia. L’altro giorno ho parlato agli studenti del primo anno universitario in una facoltà del Veneto. La gran parte di loro nemmeno sapeva che c’era stato un 11 settembre 2001. A riprova del fatto che il mainstream – quanto a copertura (nel senso proprio di coprirli per impedire che si vedano) degli eventi reali  - è più efficace di un monastero di clausura.

Quello che accade in questi giorni è dunque poca cosa rispetto a eventi di quella portata. Spiccioli, loose change, direbbero gli americani. Ma gustosi. Prendiamo per esempio le bombe di Boston. Ho seguito con pignoleria le cronache americane (di quelle italiane si poteva fare a meno essendo banalmente copiate da quelle), per accorgermi, con curiosità crescente, che la storia ufficiale, minuto per minuto, si allontanava dalla ragione per entrare nei meandri del più fitto mistero, poi della più banale confusione, per infine perdersi nella menzogna più spettacolare, del  più trito grand guignol.  

Il fatto che i due “terroristi” fossero stati individuati così in fretta parrebbe dimostrare grande efficienza dell’FBI di Boston. Se non fosse che, alcuni giorni dopo, emerge dal New York Times che i due daghestan-ceceni erano tutt’altro che sconosciuti allo stesso esimio Federal Bureau of Investigation. Il quale li teneva sotto controllo da ben due anni. Sapeva tutto di loro,  li aveva già interrogati, aveva seguito con la massima cura il ritorno in patria di Tamerlan (una “patria” che gli era quasi sconosciuta visto che aveva passato tutta la sua giovinezza negli Stati Uniti, ma opportunamente riportata in primo piano, guarda caso, proprio, si può dire, alla vigilia dell’attentato).

Vengono alla mente i viaggi di Lee Harvey Oswald a Cuba e poi nell’allora Unione Sovietica. Fatti apposta, con largo anticipo, allo scopo trasparente (ma il mainstream non vede le cose trasparenti, vallo a spiegare a Vittorio Zucconi!) di preparare la tesi, subito poi abbandonata, che Oswald fosse stato inviato dal KGB a uccidere John Kennedy.  Non ce ne fu bisogno perché si trovò presto Jack Ruby che fece fuori Oswald con due colpi di pistola di fronte alle telecamere americane. Per poi morire “di cancro”, a sua volta, prima che un processo potesse chiarire come mai aveva sparato a Oswald. Il quale ultimo, prima di spirare, si accorse – e lo disse – di essere stato un “capro espiatorio”.

Ma questa è una parentesi. Passano i giorni e non viene fuori una sola motivazione che avrebbe potuto spingere i due fratelli Tsarnaev, il giovane Dzhokar e il poco più anziano Tamerlan, a mettere le bombe.  Mentre scrivo – e sono già trascorse due settimane abbondanti – ancora non c’è una motivazione, una rivendicazione, uno straccio d’idea in materia.  Quello che conta è la loro “origine cecena”. Si sa, i ceceni sono cattivi e terroristi per doppia definizione: la seconda è che sono islamici. Uno dei due è stato ufficialmente ammazzato subito dopo l’attentato  in un “conflitto a fuoco”, e dunque non parlerà più. L’altro, Dzhokar, è stato trovato ferito e non armato, ma pare che non potrà più parlare essendosi inflitto da solo una ferita ammutolente. Per lo meno così ha dichiarato il sindaco di Boston, Thomas M. Menino. In ogni caso, per evitare che possa un giorno dire cose sconvenienti, si sta ancora valutando l’opportunità di  trattarlo come “potenziale nemico combattente” (guarda che fantasia!) , in modo che possa essere interrogato al di fuori del sistema legale garantito (per ora) a tutti i cittadini, senza la presenza di un legale e senza essere stato avvertito - pensate ! – che egli potrebbe “involontariamente autoaccusarsi” (International Herald Tribune, 22 aprile 2013).

Nel frattempo dilagano sui giornali le ricostruzioni di tutti gli attentati effettuati dai ceceni in diverse città della Russia nel corso degli ultimi vent’anni.  Pagine e pagine, ma non si riesce a capire cosa c’entri Beslan, o Mosca, con questa faccenda di Boston. Non ci si riesce perché nessuno riesce a trovare alcun nesso decente. Ma così si fanno i giornali e così si sparano le notizie in tv.  Attentati molto sanguinosi, come sappiamo, ma servono a insinuare sottopelle l’idea – razzista - che da quelle parti è “logico” che nascano terroristi. Per altro il giovane Tsarnaev, seppure la famiglia sia di origine cecena,  è nato in Daghestan e fu subito trasferito negli Stati Uniti, dove viveva da molti anni, piuttosto floridamente. E – riferiva uno dei suoi professori alla Darthmouth University of Massachusetts, il professor Bryan Glin  Williams  - ne sapeva così poco della sua “patria” che, richiesto di scriverne, andò a chiedere informazioni al  proprio docente. Terrorista, dunque, ma anche ignorante. Al massimo si potrebbe concludere che ce l’avesse con i russi, che avevano deportato i ceceni in Asia Centrale, ai tempi di Stalin. E, dunque, se avesse voluto mettere bombe, sarebbe andato a Mosca. Dove, in ogni caso, non avrebbe potuto far saltare in aria altro che la tomba di Stalin. Tutto salvo mettere bombe a Boston: non si riesce a capire il perché.

Dovrebbe essere già chiaro fin d’ora che, in questa storia delle due bombe di Boston, ci sono troppe oscurità per essere bevuta tale e quale. Eppure mai che qualche giornalista, sia locale che nostrano, avanzi qualche sospetto.  Tutti allineati e coperti. I buchi e le voragini di questa storia sono talmente evidenti che un normale professionista non può non accorgersene.  Invece vengono allineate, per il colto e l’inclita, ondate di interrogativi sui possibili legami tra i fratelli Tsarnaev e la famosa, ma ormai in disuso, Al Qaeda. Solo Giovanna Botteri, ogni sera, tirava fuori questa tesi, caldeggiata dalla altrettanto famosa, e non per caso, ammiraglia televisiva mondiale detta CNN. Salvo poi  riferire improvvisamente, una sera, agli assonnati telespettatori del TG3Notte, che la CNN si scusava pubblicamente per avere raccontato troppe frottole nei giorni precedenti. Frottole dovute alla fretta, naturalmente, raccontate in buona fede, niente malizia. E la Botteri ne approfittava, insieme al Mannoni sonnecchiante,  per tessere le lodi della CNN, capace di emendarsi dei suoi errori. Vedi come funziona bene il mainstream?  Dobbiamo inchinarci anche quando mente. Infatti  mente con sincerità.

Tuttavia, nonostante le scuse e le rettifiche, le cose che non quadrano si moltiplicano. I due bombaroli daghestan-ceceni avrebbero appena massacrato un po’ di persone con pentole a pressione piene di esplosivo (pare) – non senza essere accuratamente fotografati, insieme, sul luogo del delitto, ed eccoli andarsene in giro per la città, trasformata in zona di guerra (e resterà in quelle condizioni per dieci giorni consecutivi anche dopo la liquidazione fisica del “commando ceceno”), fino ad ammazzare, senza apparente motivo, che non fosse quello di appropriarsi della sua pistola, un giovane poliziotto di guardia all’università, che se ne stava quietamente seduto nella sua auto di servizio.  Ma non erano già armati?  E, essendo ricercati da migliaia di agenti, non sarebbe stato più logico che se ne stessero rintanati da qualche parte? No.  Sparacchiano e assaltano automobili. A un certo punto della serata, non si sa a che ora, un giovanotto (uno solo, e l’altro dov’è?)  – che, tanto per far capire bene chi era,  si dichiara subito come l’autore dell’attentato di poche ore prima  - assalta un SUV e si fa portare in giro per Boston e dintorni. Il giovane esibisce una pistola, mostra al terrorizzato conducente che c’è un colpo in canna, si vanta delle sue gesta.  Tutto questo lo sappiamo dalla  “dichiarazione giurata” del conducente del SUV. Di cui però non viene rilasciato il nome e il cognome.  Ma deve trattarsi di persona coraggiosa, poiché riesce a fuggire  al suo rapitore durante la sosta in una stazione di servizio. Poi la sparatoria con i poliziotti, in cui Tamerlan viene ucciso, mentre Dzhokar riesce a fuggire.

Solo che emerge dal web un filmato in cui si vede benissimo un uomo completamente nudo che viene infilato a forza in una vettura della polizia. E’ notte,  le immagini sono poche, ma i fari delle auto della polizia e le luci roteanti rosse e blu sono sufficienti a mostrare con nitidezza la scena.  C’è anche, sul web, la dettagliata intervista di una televisione locale a un testimone oculare del fatto.  Il giovanotto non risulta ferito. Si muove agevolmente, si copre le pudenda con le mani. E’ aitante, sicuramente giovane. Chi è? Perché è nudo? Possiamo ipotizzare che i poliziotti che l’hanno arrestato lo abbiano spogliato completamente per eliminare il timore che fosse imbottito di tritolo? Penso che sia un’ipotesi legittima. Forse hanno sbagliato persona? Forse. Ma la madre – cui il filmato viene immediatamente mostrato - da Makhachkalà  grida: “E’ mio figlio, è Tamerlan!” .  Inutile citare qui tutte le fonti. Basta andare su youtube e se ne trovano a decine, l’una più sorprendente dell’altra. A riprova che fabbricare attentati diventa sempre più difficile, nonostante la sorpresa. Perché c’è sempre qualcuno che riprende le immagini, o che va ad analizzare le immagini fornite dalle tv del mainstream, e scopre un sacco di cose che gli operatori del mainstream, non informati preventivamente, hanno involontariamente mostrato.

Ahinoi! Qualcosa è andato storto.  Se era Tamerlan,  ed era vivo e nudo, allora non funziona più la tesi dello scontro a fuoco con la polizia in cui è stato ammazzato. Va bene, da qui non si può sapere niente e non possiamo concludere niente, sebbene il cuore di una mamma, come ci è noto da De Amicis e da De Filippi (Maria) , non sbagli mai. Tuttavia qualche giorno prima, del tutto inaspettatamente, si era aperta  un’altra pista tipo Al Qaeda. Mentre tutti gli Stati Uniti erano in stato di allerta, in attesa di nuovi attentati dinamitardi (che non potevano più essere opera di Tamerlan, defunto, e di Dzhokar, muto) ecco apparire le lettere al ricino.  Due per la precisione. Una addirittura inviata a Barack Obama, fermata dai sistemi di controllo esterni alla Casa Bianca, e l’altra al senatore Roger Wicker, repubblicano del Mississippi.  Allora c’è una strategia di grandi dimensioni, e l’America è sotto attacco? Oppure era una variante di contorno, prevista per sviluppi di altro genere, come lo furono le lettere all’antrace che apparvero nei giorni successivi all’11 settembre 2001?

Si ricorda che le indagini  a proposito  di quelle lettere portarono, dopo qualche anno, alla scoperta che l’antrace era stato prodotto in un laboratorio militare statunitense e la faccenda finì, se non ricordo male, con qualche incriminazione e qualche suicidio. Del ricino post Boston si sono invece perdute le tracce. Sebbene una considerazione elementare dovrebbe indurci obbligatoriamente alla conclusione che le lettere al ricino non potevano essere comunque il prodotto della furia assassina dei fratelli daghestan-ceceni, e, dunque, che c’era qualcun altro a tessere le fila. O, forse, si è trattato di una coincidenza, spettacolare come tutto il resto.  Se non fosse che – le coincidenze si moltiplicano – sempre sul web si assiste a una girandola impressionante di testimonianze visuali che dimostrano come sul luogo degli attentati  siano avvenuti eventi assai strani. Ci sono feriti che hanno perduto entrambe le gambe, maciullati dalle bombe, che restano vivi nonostante ferite che provocherebbero il dissanguamento e la morte in pochi minuti.  Che vengono fotografati con grande dettaglio, con esibizione di monconi  sanguinanti e scomposti, ma che risultano poi reduci di guerra già regolarmente dotati di protesi. E’ il caso del colonnello Nick Vogt, (1-o. battaglione del 5-o reggimento di fanteria, 1-a Brigata di combattimento d’urto, 25-a Divisione di fanteria) che perdette le gambe mentre era in combattimento a sud di Kandahar, Afghanistan. Il quale figura in molte fotografie professionali come mostruosamente maciullato dalla bomba. Che ci faceva Nick Vogt alla maratona di Boston? Cosa c’entrava tutto quel sangue rappreso, tutti quei filamenti di carne, attorno ai suoi moncherini da gran tempo cauterizzati?

Si vedono (prima delle bombe) massicci personaggi che sembrano telefonare.  Giubbotti neri, pantaloni beige, scarponi beige, con grossi zaini militari appesi alle spalle.  Hanno l’aria di guardinghi poliziotti in borghese, ma quei grossi zaini neri non si spiegano con le funzioni di vigilanza (che poi, va detto, non ha funzionato affatto, come gli eventi hanno dimostrato). Ma probabilmente non erano là per vigilare. Risultano vestiti come i Navy Seal, ma non sono poliziotti, né militari. Hanno l’aria di una squadra di “contractors”, mercenari che stanno svolgendo “altre funzioni”.  Se ne vedono ben cinque, tutti con la stessa divisa, e alcuni portano distintivi di una organizzazione  che risponde al nome di Craft  e che ha un motto davvero eloquente: “Despite what your mamma (sic!) told you… Violence does solve problems” (A differenza di ciò che ti disse la mamma… la violenza risolve i problemi). Dopo l’esplosione si vede un altro giovanotto che se la dà a gambe ad alta velocità e con destrezza, molto sano, molto atletico, con i pantaloni sbrindellati. Una telecamera lo insegue, e lo vede sparire tra la folla. Uno degli attentatori?  Ma vi pare che l’attentatore se ne va a spasso a pochi metri (pantaloni sbrindellati) dalla bomba che ha appena piazzato? 

In uno di questi filmati  vengono ingranditi i due dispacci del Boston Globe che, uno dietro l’altro, raccontano la verità pochi minuti prima della tragedia. Ecco il primo: “Officials: there will be a controlled explosion opposite the library within one minute as part of bomb squad activities”  (Funzionari: ci sarà tra un minuto una esplosione controllata di fronte alla biblioteca come parte delle attività di una squadra di artificeri).  Ecco il secondo: “Breaking News: police will have controlled explosion on 600 block on Boylston Street” (Ultime notizie: la polizia effettuerà una esplosione controllata al n. 600 di Boylston Street).  Ma, scusate, vi pare credibile che la polizia effettui “esplosioni controllate” nel bel mezzo di una manifestazione piena di gente?

Ho impiegato diverse ore a esaminare con cura decine di questi filmati. Alcuni sono palesemente “fake”, prodotti da dilettanti che si lanciano in analisi improbabili. Altri potrebbero essere prodotti “fake”, fatti apposta per creare confusione e screditare prodotti più seri. Altri sono prodotti opinabili, ma costituirebbero materiale importante in una inchiesta degna di questo nome. Infine ce ne sono parecchi che – come quelli appena citati (e sono solo alcuni nel gran mare) – forniscono le prove dell’inganno architettato a uso e consumo dei media che dovranno diffonderlo in giro per il mondo.  Chi c’è dietro questa messa in scena? L’impressione del cronista è di trovarsi di fronte a una “rete canaglia” di terroristi, strettamente legata a settori chiave del mainstream americano

Ora non ci resta che aspettare che la sagacia dell’FBI, e della CIA, rimetta insieme i pezzi di questo puzzle insensato. Ma non riusciamo a sottrarci all’impressione che i poveretti Dzhokar e Tamerlan Tsarnaev siano da includere nella lunga lista dei “capri espiatori”.  Quanto alle coincidenze esterne non sarà inutile ricordare che, proprio quel giorno dell’attentato di Boston, Barack Obama subì la sconfitta, nel Senato, del suo progetto di legge di limitazione delle vendite di armi ai cittadini americani. Magari non c’entra niente, ma io lo terrei presente. Soprattutto terrei presente il fatto che quello stesso 16 aprile il New York Times metteva in prima pagina  un articolo, a firma Scott Shane, intitolato così: “US tortured detainees after 9/11, report says” (Gli Stati Uniti hanno torturato i prigionieri dopo l’11 settembre, così afferma un rapporto). Il rapporto, di 557 pagine,  meritava la prima pagina, onore al merito del New York Times, essendo completamente bipartisan, firmato da due ex deputati con esperienze di governo: un repubblicano, Asa Hutchinson, e un democratico, James R. Jones. Sedici mesi di lavori, che presero avvio dopo che – scrive  Scott Shane – “il Presidente  Barack Obama decise nel 2009 di non sostenere la creazione di una commissione nazionale per indagare sui programmi antiterroristici del post 9/11, come invece aveva proposto di fare il senatore Patrick Leahy, democratico del Vermont, insieme ad altri. Obama disse allora che egli preferiva <guardare avanti e non indietro>”. Cioè coprì le gesta del suo predecessore, condividendone le responsabilità. 

Come ha detto uno che di queste cose se ne intende (tant’è che fu chiamato ad aiutare Cossiga nei giorni del rapimento di Aldo Moro, tre volte nei centri vitali della sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America), Steve Pieczenick,  è del tutto evidente quali titoli di giornali di tutto il mondo avrebbero potuto oscurare, relegandola nel dimenticatoio, il giorno dopo,  una notizia di queste dimensioni, che metteva sotto accusa, direttamente, gli ultimi due presidenti degli Stati Uniti.  Infatti proprio così si è verificato. Nessun giornale italiano mainstream ha riportato l’articolo del New York Times.

Ma c’è anche un’altra interpretazione possibile, che non contraddice affatto le appena citate.  Due presunti terroristi daghestan- ceceni, subito catturati e messi in condizioni di non nuocere, sono stati sufficienti per mettere letteralmente in stato d’assedio, per una intera settimana, una grande città del nord America. Gli abitanti di Boston e dintorni sono stati bloccati nelle loro case, le attività lavorative sono state fermate, la città è stata spenta e gettata nel panico. Ha tutta l’aria di una “prova generale”  per qualche cosa che si sta preparando da tempo. Il programma dei 30 mila droni, destinati a pattugliare il cielo degli Stati Uniti, sembra stato pensato in questa chiave: non (solo) per abbattere i terroristi in ogni parte del mondo, ma per sorvegliare l’America in nome della sicurezza dei cittadini.

Prima di procedere oltre metto qui, a mò di nota generale, alcuni dei  link che ciascuno, avendo il tempo, potrà visionare per farsi un’idea delle cose che ho appena esposto.

http://www.dvidshub.net/image/582713/wounded-warriors-return-home-alaska#.UYQxaKK8AbI

https://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=u6Te9mMuhag

http://www.pragmatismopolitico.com.br/2013/04/mercenarios-estavam-infiltrados-entre-populares-na-maratona-de-boston.html

http://bigdanblogger.blogspot.it/

https://www.facebook.com/photo.php?fbid=164797300350080&set=a.103356923160785.7902.100004594326501&type=1&theater

http://www.infowars.com/navy-seals-spotted-at-boston-marathon-wearing-suspicious-backpacks/

Questa, qui raccontata, è una cronaca del nostro tempo inquieto. Ma non è l’unica. Voglio appena accennare ad altre due storie analoghe. Questo libro è, in fondo, la cornice nella quale si collocano tutte insieme. L’uomo della strada le percepisce distrattamente, una dietro l’altra, dimenticando la precedente mentre guarda la seguente, incapace di cogliere le connessioni, di collocarle in un contesto. In questo modo viene condotto per mano, là dove deve andare, da chi ha ideato e definito il contesto. E tutto ciò avviene da decenni. E colpisce non soltanto quello che abbiamo definito l’uomo della strada: colpisce tutti, inclusi i governanti dei diversi livelli in ogni parte del pianeta. Anche loro, anche i maggiordomi, leggono i giornali. Guardano le televisioni. E non sono mediamente più informati degli altri. Ma sono parte della commedia, quasi sempre inconsapevoli, costretti per giunta a esprimere pareri “pubblici”, a pronunciarsi su faccende che non conoscono ma che vengono loro imposte da quegli stessi media che sono chiamati a moltiplicarle.

Le due storie sono rispettivamente quella della “imminente crisi nucleare” che ha sconvolto mezzo pianeta nei mesi di marzo e aprile, tra gli Stati Uniti di Barack Obama e la Corea del Nord di Kim Yong Un. L’altra è la “scoperta” israeliana che Bashar el Assad ha usato armi chimiche contro la popolazione civile. La crisi nucleare della Corea del Nord è rientrata. Ma l’allarme è risuonato altissimo per settimane e le sirene erano tutte americane. Pareva che il demente dittatore della Corea del Nord fosse improvvisamente impazzito del tutto. Le sue minacce roboanti arrivavano dagli schermi televisivi condite con le riprese di repertorio di missili in partenza da non si sa dove, diretti verso obiettivi non si sa quanto raggiungibili e lontani. La sicurezza americana sembrava in pericolo, come quella giapponese, sud coreana. I bombardieri americani si sono levati in volo, con le atomiche a bordo, dalla base di Guam. Tutti i sistemi “difensivi” degli Stati Uniti nell’area sono stati posti in stato di allarme estremo. Altrettanto hanno fatto Giappone e Corea del Sud. La flotta USA ha mosso le sue potenti armi navali nei pressi del nemico. I segnali c’erano tutti per una imminente guerra contro un dittatore pazzo. Solo che il dittatore pazzo, con ogni evidenza, non era e non è e non sarà mai in grado di minacciare il territorio degli Stati Uniti. Al massimo potrà bombardare una delle basi americane in Corea del Sud, e di uccidere qualche centinaio di soldati americani. Cosa volete che sia per un paese che ha mandato a morire settemila uomini (e altri 40.000 almeno a finire invalidi per sempre) in una guerra che i suoi dirigenti avevano letteralmente inventato dal nulla (le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein)? Se Kim Yong Un arrivasse anche solo nei pressi di una tale possibilità possiamo essere certi che sarebbe spazzato via, lui e una parte cospicua della sua popolazione, in un batter d’occhio, tra gli applausi convinti, e liberatori, di tutto il “mondo libero”. Non c’è una sola mossa che egli possa fare, una sola parola che egli possa dire, che non sia immediatamente monitorata, tradotta, controllata dai centri di comando americani. Possiamo stare tranquilli: Kim Yong Un non potrebbe nemmeno impartire un ordine qualsiasi tale da costituire una minaccia. Lo fulminerebbero all’istante. Comunque non lo farà, perché nemmeno i dittatori dementi sono suicidi.

Si noti la curiosità: dopo cotanto allarme, improvvisamente, il “demente di Pyong Yang” si ammutolisce. Il ministro degli esteri John Kerry abbassa i toni e parla di intese. Il Dipartimento di Stato rimprovera bonariamente i media per l’eccesso di allarme, invitando alla calma. Quale ipotesi possiamo formulare? La più ovvia. Che si è trattato di una nuova messa in scena, di una piéce  già ripetuta altre due o tre volte in precedenza: dove il dittatore di Pyong Yang  entra negli stessi panni del papà estinto, Kim Yong Il, e alza la voce per ottenere sotto banco qualche aiuto in termini di prodotti alimentari, di energia, di denaro. E gli Stati Uniti – che pagano volentieri - ottengono l’importante risultato strategico di resettare il proprio sistema militare nelle immediate vicinanze del confine cinese. I cinesi, naturalmente, se ne sono accorti e hanno fatto capire a Kim Yong Un che deve smetterla. L’irritazione di Pechino è stata manifestata mandando truppe di rinforzo alla frontiera con la Corea del Nord. La Russia non ha mosso un dito, tanto era sicura che si trattava di una regia orchestrata da Washington. Ma intanto i preparativi di guerra procedono alacremente. Il mainstream sarà richiamato in azione al turno successivo e si può essere certi, al 100%, che eseguirà indefettibilmente i propri compiti militari. 

Quanto tempo ci vorrà per la resa dei conti tra Washington e Pechino non lo sappiamo noi e neanche loro. L’unica cosa che vale la pena di ricordare è la profezia che gli estensori dei documenti della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, quegli stessi neocon che presero il potere, con un vero e proprio colpo di stato, nell’anno 2000, portando alla presidenza George W.Bush Junior (che era stato sconfitto da Al Gore). Scrissero, nel famoso Project for The New American Century, che la Cina sarebbe divenuta il pericolo principale per la sicurezza degli Stati Uniti nel 2017. E ripeterono la profezia nei documenti successivi concernenti la sicurezza nazionale del futuro. Era il 1998. Forse non era una profezia, sebbene si trattasse di eventi del futuro. Forse avevano fatto i loro calcoli e avevano pensato con quale Cina  avrebbero avuto a che fare, tenendo conto dei tassi di crescita del suo PIL, dei suoi armamenti, della sua finanza, della sua tecnologia, della sua popolazione. Se non si tengono sempre presenti quelle previsioni, difficilmente di potrà capire cosa sta succedendo in America e fuori, mentre nel frattempo l’Occidente intero è entrato nella più grave crisi della sua intera vicenda imperiale.

La seconda storia fa invece parte dell’immediato futuro. Riguarda la Siria. Barack Obama ha voluto apparire come moderato e prudente nella vicenda della guerra anglo-francese contro la Libia di Gheddafi. Ha ripetuto la scena nei confronti delle intemperanze di Netanyhau, che premeva e preme per un attacco immediato contro l’Iran. E ha tenuto a freno il Pentagono nei confronti della Siria. L’espressione è impropria, poiché in realtà Washington ha dato il via libera all’Arabia Saudita, al Qatar e alla Turchia, di scatenare contro Damasco un intero esercito di almeno 25.000 mercenari.  Si aggiungano le sanzioni e lo strangolamento del regime di Bashar el Assad e il ponte aereo che da mesi, con centinaia di aerei, rifornisce di armi e munizioni il FSA (Free Syrian Army). Gli Stati Uniti non sono mai stati in disparte in questa guerra. Non una sola pallottola è stata sparata senza il consenso di Washington. Che, negli ultimi tempi, è parsa sempre più incline a fornire armi “sempre più letali” ai ribelli mercenari, mescolati con i residuati di Al Qaeda. Ma la riluttanza di altri alleati della NATO ha svolto un certo ruolo moderatore. Fino all’ultimo episodio – di cui qui parlo – rappresentato dalla “scoperta”, da parte dei servizi segreti israeliani, che “qualcuno” ha usato armi chimiche in Siria.

Scoperta subito amplificata dai media occidentali, e immediatamente sposata dagli USA e da tutte le cancellerie occidentali. In realtà nessuno ha fornito prove nemmeno di questa “notizia”. Si dice, pare, ma per provarla bisognerebbe ammettere che il Mossad sta agendo in territorio siriano, insieme ai servizi segreti turco, francese e britannico. E, naturalmente, alla CIA. Dunque si fa uscire la notizia ma la si tiene, in certo qual senso, “frenata”.  Washington assume le vesti dell’osservatore salomonico: la cosa è orribile, dice, ma come possiamo sapere chi è stato? Ecco la seconda fase: ormai tutti sanno che Bashar è un assassino come lo fu Saddam Hussein. Il quale usa i gas contro la propria popolazione. Questo è dato come assodato, ovvio, sebbene non sia stato esibito un solo straccio di prova. Dunque passiamo alla “dimostrazione” dell’assunto. Resa però difficile dal fatto che le presunte armi chimiche di Bashar si trovano in territorio occupato dal FSA. Chi le ha usate, supposto che siano state usate? Bashar o i suoi nemici? Poco importa: tra qualche settimana gl’interrogativi saranno stati eliminati agli occhi del grande pubblico. Nel frattempo Washington fa sapere che, in caso si raggiungesse la prova che è stato l’esercito regolare di Damasco a sparare i gas, “allora sarebbe necessario intervenire” con tutta la forza necessaria.

La lettura della situazione è dunque chiara. La linea del logoramento di Damasco è in corso. Si tratta di soffocare il regime, insieme alla popolazione che lo sostiene. Ma il regime “tiene” ancora e potrebbe tenere per troppo tempo. Nel frattempo è stato creato un “legittimo governo in esilio”, che verrà trasferito a tempo debito in territorio siriano. Israele preme per un’accelerazione, anche perché Netanyhau guarda già oltre, all’Iran. Obama potrà rallentare fino a un certo punto, ma deve dare spazio.  Dunque occorre dimostrare l’”inevitabilità” della resa dei conti. A quel punto sarà la NATO a procedere, in partenza dal territorio turco, dalle basi americane nell’area, dalla Giordania e da Israele. Il “quando” non è prevedibile. Dipenderà dall’andamento della crisi finanziaria mondiale, dalla crisi europea, dalle reazioni cinesi e russa, dalla crisi americana stessa, ormai evidente. Ma il “se” è già stato superato da tempo. La guerra si prepara. Chi vuole saperne di più guardi dove va il mainstream:  sono le sue “portaerei” a indicare dove bombarderanno i missili e i caccia dell’Impero morente.

 

(Prefazione al Libro di P. Borgognone – La Disinformazione  attraverso i media vol. I  – Zambon ed.)