Intervista a Bruno Barba: lo sport sotto la lente dell’antropologia

17 luglio 2024

 

file:///C:/Users/Diest/Downloads/Olimpiadi.jpg

 

Bruno Barba, antropologo, è professore associato al Dipartimento di scienze politiche e internazionali all’Università Statale di Genova. E’ coordinatore del corso “Politiche, governance e informazione dello sport (POGIS)”.Come si legge dal sito dell’Università, si tratta della “prima laurea triennale in Italia dedicata interamente alla gestione e alla comunicazione dello sport.”

 

Ci può spiegare cosa si propone di insegnare il corso POGIS rispetto al tema dello sport?

 

Il corso si occupa di entrare dentro lo sport a 360 gradi perché non possiamo considerarlo meramente come prestazione fisica ma è anche elemento culturale. Sentiamo ripetere frasi fatte del tipo lo sport è cultura oppure è specchio della società o ancora è metafora della società. Ma abbiamo mai riempito di significato queste affermazioni? Ecco, con il corso cerchiamo di farlo. Abbiamo declinato lo sport in storia con la “s” maiuscola perché le vicende sportive della fine dell'Ottocento, dei primi del Novecento e di questo scorcio del XXI secolo hanno accompagnato le mutazioni geopolitiche, tanto nel bene quanto nel male, come ad esempio le dittature. Ma lo guardiamo anche sotto la lente dell’economia, non soltanto perché muove milioni di euro attraverso gli sport professionistici ma anche perché fa circolare un'economia di base che riguarda le famiglie. Pensiamo alla microeconomia che lo sport alimenta ogni settimana attraverso spostamenti, viaggi, acquisti di vari prodotti. Lo sport è poi politica, si intreccia infatti con la storia della politica internazionale e locale; è anche inclusione e, in qualche modo, un fattore di costruzione dell'identità.

 

Lo sport influisce sul modo di considerare le popolazioni?

 

I grandi eventi sportivi, quali le olimpiadi, i mondiali e gli europei di calcio o di altri sport dimostrano come esista un cambiamento antropologico nel modo di considerare le popolazioni. Ascoltiamo discussioni infinite sulla mutazione etnica delle varie squadre, talvolta con dei rigurgiti di razzismo o perlomeno di razzialismo e quindi vediamo come lo sport si faccia veicolatore di movimenti, di sommovimenti, di impressioni e di immaginari popolari che riguardano i grandi temi della nostra vita, quali appunto le migrazioni, la costruzione delle nostre società, ma anche problemi e temi che riguardano il mondo del lavoro. Insomma c'è all'interno dello sport, di tutti gli sport un dibattito apertissimo che riguarda i grandi temi della costruzione del nostro vivere e anche del nostro immaginario.

 

Lei sostiene che lo sport è anche cultura. Può approfondire questo concetto?

 

Ogni tanto consiglio a chi è interessato solo allo sport in senso stretto di aprirsi a una visione ricca e densa che ogni avvenimento sportivo ci fornisce, che non è solo il grande evento ma sono anche le pratiche sportive quotidiane che tutti noi sperimentiamo. In questa maniera si osserva l’esistenza di un substrato culturale che riguarda tanti aspetti, la geografia per esempio. Da bambino ho imparato la geografia anche attraverso lo sport perché questo mi parlava di mondi esotici e io andavo sul mappamondo a vedere dove fossero questi luoghi.

Così come quando parlo di sport non posso non ricordare le immagini iconiche dei pugni neri guantati di Tommie Smith e John Carlos a Messico ‘68 oppure alle vicende delle olimpiadi di Monaco del 1972 o agli anni della dittatura fascista e nazista; ma penso anche ai mondiali in Argentina del 1978, quando il Paese era sotto la dittatura militare. Ci sono eventi dello sport che ci rimandano alla storia con la “s” maiuscola, in un modo molto brutale per certi versi, ma anche molto significativo e impressionante dal punto di vista di ciò che rimane.

 

Cosa ci può dire della relazione tra sport e inclusione?

 

Lo sport è inclusione perché sappiamo che, anche grazie a un progresso dei mezzi di comunicazione che oggi si occupano delle paraolimpiadi, si può arrivare a intendere la nostra vita in maniera più ricca e solidale, attraverso un movimento reciproco tra chi ha di più o crede di avere di più e chi invece è in una situazione più svantaggiata. Ad esempio, se parliamo del settore femminile, nonostante ci sia ancora molta strada da fare, nelle imminenti Olimpiadi di Parigi ci sarà la parità delle presenze tra uomini e donne, mentre cent’anni fa alle Olimpiadi le donne erano il 4%. C’è voluto un tempo lunghissimo per arrivare a questo. Tuttavia non è tutto così facile, ci sono ancora degli obiettivi da raggiungere. Se è vero che oggi si è arrivati alla parità numerica tra atleti e atlete, nella governance le cose vanno male perché continua a prevalere il mondo maschile, in maggioranza occidentale e bianco. E’ sbalorditiva ad esempio la distanza tra le squadre di calcio, che sono composte in grande misura da elementi afrodiscendenti, e la loro governance o i loro allenatori che invece continuano ad essere nelle mani di occidentali bianchi e maschi. Il corpo nero, attraverso l’atleta, è accettato, ma a pensare non può essere né una donna né un afrodiscendente. Ecco questo mi sembra molto sintomatico ed è un discorso che lo sport veicola benissimo e illustra benissimo, sul quale si possono fare tante riflessioni.

Quando si verificano casi di razzismo nel calcio italiano si rincorrono accuse contro questo sport, additato come razzista. Ma un calcio che è innervato e dominato da persone che vivono in un contesto non può che trasmettere le pulsioni e le tensioni del mondo globale e della politica. In Italia non c’è uno sport che sia completamente scevro da rigurgiti razzisti. Se un paese civile, in questo momento difficile da identificare, combatte con decisione il fenomeno razzista è chiaro che avrà uno sport meno coinvolto con questi fenomeni negativi.

 

A questo punto, ha senso parlare di sport come dello specchio della società?

 

Dire che lo sport è lo specchio della società significa essere consapevoli che tanto lo sport quanto la società sono pieni di contraddizioni, anche del nostro tempo, che non riusciamo a dominare completamente. Per uno studioso di scienze sociali vuol dire non illudersi della corrispondenza meccanica delle dinamiche, cioè non sappiamo perfettamente come lo sport e la società evolveranno. Non lo sanno nemmeno gli economisti o i giornalisti oppure gli storici. Sarebbe troppo semplice avere la ricetta ma i temi sono sempre complessi e quindi hanno delle risposte complesse. Inoltre la modellizzazione, quindi la trasposizione di alcuni fatti sociali in altri contesti geografici, storici, diacronici non può funzionare perché, come ho già detto, non c'è la ricetta. Non possiamo sostenere, ad esempio, che siccome gli inglesi nel 1800 hanno fatto in un certo modo oggi possiamo ripeterlo in Italia, quando ci troviamo in una situazione globalizzata, in un contesto profondamente diverso.

 

Qual è il ruolo dell’antropologo nello studio dello sport?

 

Credo che per rispondere possiamo raccogliere un suggerimento che proviene proprio dallo sport perché ci propone l'idea che l'autorevolezza debba essere attenzionata, seguita molto più che non il dilettantismo, nel senso che l'antropologia ha prodotto il concetto di osservazione partecipante, quindi di campo. Chi ha fatto la ricerca sul campo è in qualche modo autorizzato, indipendentemente dalle sue capacità di trasferire conoscenze, ad essere ascoltato e deve essere ritenuto più autorevole di chi non l’ha frequentato. Purtroppo non sempre avviene a causa dell’incapacità dell’opinione pubblica di distinguere.

 

Mi interessa sapere, dal punto di vista di un antropologo, quale ruolo ha il corpo in relazione allo sport.

 

In occidente abbiamo questa eredità razionalistica, in qualche modo illuministica e didascalica, che vedo anche negli occhi smarriti dei miei studenti, cioè noi siamo sempre alla ricerca di una definizione logica breve, concisa, sintetica e questo ci ha portati a pensare, anche con il contributo di tradizioni filosofiche e religiose, a corpo e anima, corpo e mente o meglio ancora corpo e cultura come a due mondi completamente separati. Il corpo invece è cultura perché è soggetto a delle trasformazioni che sono determinate molto più dalla cultura, tradotto in termini sportivi l’allenamento, l’insegnamento e l’alimentazione sono più importanti della genetica. Noi abbiamo il mito della genetica e della biologia, del determinismo biologico che in qualche modo definisce le nostre narrazioni e opinioni. Sempre rimandando a degli aspetti legati alla razza, che è un demone che facciamo fatica ad allontanare, magari dal dibattito pubblico l’abbiamo fatto, ma nell’immaginario nostro colonizzato facciamo fatica a liberarcene, descriviamo gli africani in un modo, i giapponesi in un altro, gli americani ancora in un’altra maniera e così via. Lo sport insegna invece, quasi quotidianamente, che la cultura, determina il risultato sportivo, la visione e il nostro atteggiamento. Pochi giorni fa un ciclista etiope ha vinto la tappa che ha attraversato l’alessandrino. Ora, quanta retorica intorno al fatto che gli africani non sanno andare in bicicletta, non sanno nuotare perché non hanno ottenuto risultati significativi e dunque viene tutto ricondotto alla biologia. Invece occorre essere attrezzati culturalmente per pensare che sarà più difficile per un atleta africano avere successo se non ha né strade né biciclette a disposizione. Neppure la massa muscolare diversa degli atleti afrodiscendenti determina la scarsità dei risultati nel nuoto perché per poter emergere occorrono impianti sportivi e piscine. Non possiamo pensare che sia l’oceano la loro piscina. Non voglio disconoscere l’eredità biologica che ci portiamo dietro ma voglio valorizzare come l'allenamento, la trasmissione di saperi e la determinazione, in una parola la cultura ci determina molto di più di quanto non faccia madre natura. Questo lo sport lo manifesta in modo chiaro e netto.

 

Per riprendere l’esempio degli africani e il loro rapporto con il nuoto. E’ possibile che già a monte ci sia anche da parte loro l’idea stereotipata che siano bravi nell’atletica o in altre discipline, dove sono stati ottenuti risultati eccellenti da sportive e sportivi di origine africana, e questo faccia da freno all’interesse che potrebbero avere per la pratica di altri sport?

 

Lo stereotipo funziona in maniera binaria e si basa anche sugli esempi in negativo e in positivo a cui anche le famiglie guardano. Il calcio certamente è uno sport che si presta ad essere praticato e quindi è più facile che possano emergere atleti di successo. Richiede infatti un campo e una porta, che si possono costruire facilmente; il basket è un po’ più complicato perché necessita del canestro ma si può fare. Tuttavia è un luogo comune anche questo perché in fondo c’è bisogno di attrezzature e di scuole dove puoi allenarti ed essere seguito da istruttori competenti. Quando sento parlare di talento puro devo recuperare tutta la mia conoscenza storica perché Muhammad Ali o Maradona si facevano un gran mazzo, si allenavano molto. Non si diventa campioni per grazia ricevuta, serve solo per la narrazione romantica e per i mezzi di comunicazione.

 

Qual è il processo di costruzione identitaria attraverso lo sport?

 

Lo sport è un fattore di determinazione dell’identità.

La costruzione dell’identità può essere suddivisa in due aree. La prima è quella personale, cioè attraverso lo sport l’individuo può costruirsi una propria identità, sia dal punto di vista della pratica sportiva sia attraverso l’osservazione, che chiamerei la pratica passiva. Come funziona? Bisogna avere consapevolezza che l'identità non è qualcosa di duro, essenziale e immobile ma è una fatto di contingenza, di storia personale, di sliding doors e di serendipity, di opportunità. Ognuno di noi si rappresenta attraverso tante identità e lo sport riesce a crearne una complessa e composita che rimanda a certe attitudini. la scelta di uno sport può essere casuale, determinata dall’avere il campo o la piscina sotto casa, ma molto più spesso è compatibile e coerente con i propri gusti, il proprio modo di vedere la vita. Uno sport di squadra può essere scelto perché magari si ha l’attitudine a collaborare e, al contrario, viene preferito uno sport individuale perché si è più indipendenti. Per i bambini potrebbe non esserci una scelta libera al principio ma crescendo tendenzialmente andranno verso gli sport che prediligono. A livello di comunità sappiamo che i risultati di vertice accompagnano la fiducia, la sfiducia e la depressione. Nella generazione sessantottina di sinistra lo sport era visto come l’oppio dei popoli. Io penso invece che non sia così. Mi viene in mente un tifoso napoletano quando il Napoli ha vinto il primo scudetto. Il giornalista che l’ha intervistato gli ha chiesto perché stesse esultando visto che domani sarebbe tornato al lavoro, alla sua condizione di sempre e il tifoso gli ha risposto: “Ma perché se non esulto e non sono felice per la vittoria dello scudetto la mia situazione cambia? Non è che avendo oggi vinto lo scudetto, domani tornando al lavoro mi dimentico della mia condizione”. Io ci vedo un po’ del manicheismo e della religiosità in chi sostiene il contrario.

Ma penso anche al calcio, per esempio per il Brasile o l'Argentina, che dà un orgoglio internazionale e nazionale. Guardiamo al Brasile e al primato prestigiosissimo e ineguagliato dei titoli mondiali che ha scandito l’orgoglio nazionale oppure all’Argentina della dittatura dei generali che però riesce a trovare nel risultato sportivo una sua dimensione. Ovviamente bisogna dare la giusta misura, sapendo che le vittorie sportive della squadra e dello sportivo nazionale non cambiano la vita personale di ognuno di noi ma aiutano a costruire l’identità anche personale. Quando ero giovane, andando in giro per l'Europa dopo il mondiale di calcio del 1982, vinto dall’Italia, avevo l’impressione che trattassero noi italiani un pochino meglio di altri gruppi e parlavano tutti di Paolo Rossi. Può essere una mistificazione o un’ingenuità ma ti fa stare meglio e contribuisce alla costruzione dell’identità. Io mi sentivo orgoglioso e felice. Le nostre vite ovviamente non cambiano se Jacobs o Sinner vincono ma se lo fanno io mi sento meglio di quanto potrei sentirmi se non lo facessero. Infine, le identità sono individuali e collettive e agiscono in modo correlato, seppure siano diverse. Posso essere orgoglioso di come sono, mentre la rappresentazione del mio Paese non mi piace e viceversa.

 

Sempre restando sulla relazione tra sport e antropologia, cosa può dirci del rapporto tra sport e mito e sport e rito?

 

Lo sport è considerato dall’antropologia una miniera di sensi e significati anche perché contempla aspetti religiosi che appaiono in entrambe le dimensioni. Nella dimensione sportiva siamo abituati a parlare di rito, mito e religiosità in modo disinvolto e improprio, mentre l’antropologia li studia più in profondità.

Il mito è la narrazione, la costruzione che giustifica in qualche modo i punti di riferimento di una popolazione o di un individuo. E’ un personaggio o un racconto che diventa un punto di riferimento imprescindibile. Nella scelta dei nostri miti abbiamo inconsapevolmente la pretesa della somiglianza.

Nonostante la nostra cultura monoteista della tradizione cristianp-cattolica, dobbiamo chiamare in causa i grandi politeismi che riguardano una parte notevole del mondo. Anche le nuove visioni pseudo religiose sembrano in qualche modo a rimandare a questi orizzonti. Il politeismo ha la capacità di distribuire caratteristiche umane e proiettarle attraverso la costruzione di divinità ideali nell'aldilà, in una dimensione non di perfezione ma di rispettabilità. Le divinità dei pantheon politeisti sono forti e potenti, sono belle ma sono anche piene di difetti che sono gli stessi che caratterizzano il genere umano. Noi scegliamo consapevolmente o inconsapevolmente i nostri miti perché raccontano di noi, parlano di noi, perché proiettano il noi in una dimensione di successo, irreale ma in qualche modo tangibile. lo fanno essendo riconoscibili e riconducibili alla nostra imperfezione.

Maradona, ad esempio, era un mito perché nei suoi successi molti si riconoscevano. In Brasile, dove ho fatto esperienza sul campo, è amato più Garrincha[1] che non Pelè, perché Pelè era l’etereo, un dio politesita che si avvicinava a quello monoteista per la sua quasi assoluta perfezione. Garrincha invece era la persona sregolata, piena di difetti umani ma era l'"alegria do povo”, l’allegria del popolo; faceva sognare il popolo proprio in virtù delle sue caratteristiche terrene umane, perfettibili.

E’ possibile che nelle pieghe di una situazione mai osservata c’è qualcosa che parla di noi nella scelta del mito. Il mito ovviamente si può portare alla dimensione narrativa che ha poi costruito il successo di quello sport, attraverso libri, film e altri strumenti. Pensiamo all’epopea di Rocky attraverso il quale si è lanciata la box. La dimensione del racconto come mito è fondamentale per la fruizione e divulgazione dello sport.

Il rito invece è la performance, la messa in scena del mito, è la dimensione scenica della narrazione. Ha due caratteristiche essenziali che sono la sospensione del tempo e la ritualità.

Rispetto alla sospensione del tempo, pensiamo al rito domenicale in attesa di andare a vedere la partita allo stadio, dove magari anticipiamo l’ora di pranzo e adattiamo i nostri comportamenti a quell’appuntamento. Nonostante quello che diceva Pasolini, ossia che il calcio era l’ultimo rituale rimasto alla nostra società[2], oggi dobbiamo certamente allargare perché non solo il calcio ma lo sport in generale ha sostituito la religione. Trovo che lo sport racconti molto degli aspetti religiosi, che possono essere articolati più in profondità quando si parla di comunità, di carisma del capo di tribù, di norme che devono essere seguite o proibite. Sono poi alcune vicende che riguardano l’attività sportiva e la sua fruizione che ci portano alla drammaticità, pensiamo alle lacrime di Ronaldo, al misticismo che è anche proprio della religione. L’antropologia coglie gli aspetti religiosi in modo puntuale e quindi anche queste aderenze tra sport e religione sono una possibilità di accostamento.

Infine, vorrei chiederle quale ruolo gioca la comunicazione nello sport?

La comunicazione accompagna grandi cambiamenti che stanno interessando lo sport in maniera consistente al punto che sembra che tra i giovani prevalga la “highlightizzazione” dello sport, quindi i giovani tendono alla fruizione di veloci frames sulla partita, quindi non interessa l’intera partita e prestazione. Dunque, anche lo sport è influenzato dai cambiamenti, ma contemporaneamente influisce sui processi di cambiamento.

Lo sport è narrazione oppure non è, è raccontato oppure non esiste, Da qui nasce proprio il mito dello sport, dal fatto di essere raccontato. Brera, Arpino, Bianciardi e altri grandi hanno scritto di sport e hanno il merito di aver illuminato e nobilitato lo sport, rendendolo un fattore anche culturale e letterario. Questa dimensione è stata progressivamente abbandonata e il giornalista Gianpaolo Ormezzano ha definito il giornalismo sportivo di oggi “pornografia” perché una volta c’era la dimensione erotica del racconto, ma oggi quel racconto non è leggibile perché considerato barocco, lungo e dotto. Adesso interessa il particolare, la zoomata, l’azione vista e rivista dal VAR. Interessano questi particolari invece che l’affresco generale dell’avvenimento sportivo.

E poi viviamo in un mondo capitalista e quindi, se non ci ribelliamo, siamo soggetti al capitale e al denaro, pertanto ogni dimensione comunicativa è dominata da questa idea ed esigenza di essere gratificati e remunerati. L’uso che si fa dei testimoni e dell’inclusione di migranti attraverso lo sport, ad esempio, talvolta è arbitrario e disdicevole però sappiamo che se cerco di parlare in dimensione puramente solidale mi ascoltano in pochi e forse nemmeno tutti i miei amici. Se invece chiamo un personaggio sportivo importante questa notizia viene attenzionata da milioni di persone. Appare dunque chiaro che il testimonial sportivo è fondamentale e vitale in questo sistema.

 

Carla Gagliardini

 

[1] Manoel Francisco dos Santos, conosciuto come Garrincha o Mané Garrincha, giocatore della nazionale brasiliana di calcio. E’ nato nel 1933 ed è morto nel 1983.

[2] «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro», https://www.sportellate.it/2024/02/15/calcio-ultimo-rito-pasolini-auge-girard/.

 

Da biocorrendo