La gioiosa barricata collettiva

ll 9 luglio 2021 i 422 dipendenti della GKN Driveline, fabbrica di semiassi di Campi Bisenzio vicino Firenze, hanno ricevuto via email la comunicazione che era iniziata una procedura di licenziamento nei loro confronti, un provvedimento che colpiva indirettamente anche oltre 80 lavoratori esternalizzati addetti ai servizi di pulizia, portineria e mensa. Da un giorno all’altro, il fondo britannico di investimento Melrose — proprietario di GKN dal 2018 — ha messo in atto il suo slogan “Compra, migliora, vendi”. L’idea alla base, da parte loro, era semplice: chiudere e delocalizzare.
Da quel momento, i lavoratori e le lavoratrici hanno occupato lo stabilimento, ma non solo: il Collettivo di Fabbrica ha saputo attivare una rete estroflessa e variegata di vicinanza, solidarietà, incarnando il punto di convergenza di tante istanze sociali non solo legate al lavoro: dalla collaborazione con Fridays For Future, alle attività per il territorio circostante, ai festival letterari, i cortei, gli sportelli di mutuo aiuto, alle assemblee in tutta Italia.
2 anni e mezzo dopo, i lavoratori sono ancora là: le ultime novità della fine del 2023 riguardano il ricorso presentato al tribunale del lavoro per comportamento antisindacale dell’azienda ai sensi dell’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori. L’udienza si è tenuta il 13 dicembre e la sentenza di annullamento della procedura di licenziamento è incidentalmente arrivata mezz’ora prima di questa intervista fatta a Dario Salvetti, rappresentante del Collettivo di Fabbrica ex GKN.

Silvia Gola

 

Ci troviamo a fare questa intervista in un momento molto particolare dell’esperienza GKN: da un punto di vista, dovremmo parlarne come per storicizzarla, ma dall’altra parte esiste il momento attuale con i suoi risvolti giorno per giorno, la quotidianità della lotta…

Dario Salvetti

La difficoltà di questo momento è la difficoltà che qua dura dal 9 luglio 2021 e che mette insieme vari piani, anche temporali.
Il primo è che noi siamo una vertenza e, come tutte le vertenze, può terminare da un momento all’altro. D’altro canto, se vogliamo vincere, dobbiamo mettere in campo una progettualità di lungo termine. Siamo un po’ come una persona sul lettino di ospedale con un’emorragia che prova a fermare con le sue mani mentre deve anche ragionare su cosa farà da grande.
L’altro elemento di difficoltà è il tempo, chiamatelo come volete: la lotta contro il tempo, la sua accelerazione percepita, il logoramento che porta.
Qua il tempo si divide in due categorie: il tempo che non hai — come quando arrivano le procedure di licenziamento e improvvisamente hai una scadenza (come quella che avevamo noi mezzora prima di questa intervista) –; e poi quando arrivano nuove scadenze, improvvisamente il tempo rallenta, non hai più una prospettiva e loro usano questo stesso tempo per logorarti, usano vittorie parziali per pacificare fintamente tutto il resto.
E poi l’altro problema del tempo è quello che accade nel mondo mentre tu sei impegnato a fare la tua vertenza: si vive di un relativo e di un assoluto. Ciò che per te è assolutamente drammatico — come un licenziamento –, è relativamente poco in un mondo dove sta succedendo il massacro in Palestina.
Noi, a partire dal nostro posto di lavoro e non per vezzo ideologico, ci siamo ritrovati a parlare di riconversione ecologica, modello sociale, intervento pubblico, patriarcato. Il fatto è che per vincere una lotta devi resistere un minuto in più della controparte che gioca sul logoramento e nel resistere devi mettere in campo tutto questo. Da qui la difficoltà continua.

SG

Parliamo ancora del tempo: se le lotte di ieri sono concretizzate in quel po’ di diritti che si hanno oggi, e quelle di oggi servono per il domani… Quello che voglio chiederti è: come vertenza nazionale, qual è la soglia sotto la quale non si può più andare dopo l’esperienza GKN? Cosa non deve più succedere dopo di voi?

DS

Non so se siamo riusciti ad affermare che sotto una certa soglia non si può andare ma forse siamo riusciti ad affermare che nessuno è al riparo.
Nel 2020 portavamo solidarietà alle battaglie dei lavoratori pakistani senza contratto né sicurezza della Textprint, e lo facevamo un po’ come i fratelli maggiori che si occupano di quelli più sfortunati. Pochi giorni prima del 9 luglio 2021 abbiamo scioperato per la morte di Adil Belakhdim, sindacalista del Si Cobas investito da un camion a Novara. Abbiamo mandato le squadre di soccorso in Romagna per l’alluvione e una settimana dopo ci siamo ritrovati alluvionati anche noi.
Quello che abbiamo capito è che la solidarietà è qualcosa di interno, non di esterno: nel lottare e nel partecipare alle lotte altrui, si fa sempre un favore a sé stessi.
Noi eravamo la fabbrica nuova, sindacalizzata, ricca di finanziamenti: sembrava che a noi non dovesse succedere mai. E invece ci hanno tolto tutto, fino al diritto di vedere la nostra busta paga: e questo avviene e può avvenire perché ogni volta che qualcuno rinuncia a una lotta sul suo posto di lavoro, non collega la sua condizione a quella altrui.
È inutile santificare GKN, rallegrarsi di quanto possiamo resistere noi, perché noi da soli non ce la facciamo. È per questo che abbiamo sempre messo l’enfasi sulla condizione altrui, come ad esempio chiedere “Come stai?” ai giornalisti che ci intervistavano: la verità è che noi stiamo così anche perché lui ha accettato di essere pagato [poco, N.d.R.] a pezzo.

Quindi, forse, il tema non è di soglia minima ma piuttosto di riscossa collettiva: GKN potrebbe perdere — e forse perderà — questa lotta a meno che tu, lavoratore non di GKN, usi questa lotta come elemento di forza per riscattare la tua condizione. Senza questo meccanismo, noi non reggiamo e non può reggere nessun altro.

Simone Robutti

Vorrei un commento sulla vostra percezione delle forme di solidarietà transnazionale. Qual è nella vostra esperienza l’istanza che avete visto funzionare meglio per agganciare le persone, mobilitarle? Ovvero: cosa serve per costruire solidarietà in senso più ampio?

DS

La prima volta che vennero delle giornaliste tedesche in fabbrica era da un anno che eravamo in lotta e ci chiesero quale fosse il nostro approccio al tema ‘internazionalismo’, noi rispondemmo che non avevamo avuto il tempo di essere internazionalisti. Perché il rapporto internazionale va coltivato, è di lunga accumulazione, e purtroppo il modo in cui la controparte agisce ci sottrae proprio il tempo per la progettualità: ci costringe a stare sull’emergenza, ad arrivare alla fine della giornata, della settimana, del mese.
Però ci sono dei temi internazionali sui quali GKN si è, per così dire, distinta: da una parte quello della finanziarizzazione dell’economia (visto che siamo stati “chiusi” da un fondo speculativo estero); e poi quello della riconversione ecologica, un dibattito ultra-internazionale per definizione. Ecco, il nostro internazionalismo è nato intorno a questi due temi chiave del mondo del lavoro contemporaneo… Abbiamo visto sempre molto entusiasmo: nel 2023 in Europa c’è un esempio concreto, un posto nel quale si lavora per tenere insieme il tema della riconversione mentre si lotta per il proprio posto di lavoro e per i diritti sociali.

SR

Tra i tech worker si sente spesso dire che “I manager non sanno come si fanno o come vengono fatti i prodotti, noi lavoratori invece lo sappiamo”, e mi sembra siamo molto vicini in questo senso.
Non voglio chiederti dell’atto politico in sé — ovvero partecipare della decisione su come riconvertire la produzione del proprio luogo di lavoro — ma vorrei soffermarmi sull’esperienza vissuta, sulla pratica quotidiana. Come si è arrivati a questa idea e come si è sviluppata nel quotidiano? Qual è stato il processo in senso stretto?

DS

Mi interessa molto quello che dici sui manager che non sanno niente del prodotto e noi sì. La storia di GKN è una lunga marcia dalla vertenza sindacale al doversi costituire come classe dirigente; una marcia che non è iniziata il 9 luglio 2021 ma molto prima.
In uno schema sindacale classico, l’azienda decide e tu rivendichi assunzioni, diritti, contrattualità, più paga oraria, più tempo libero. Il problema è che il livello di incompetenza della linea di comando delle aziende odierne, il livello di distacco dei manager da tutto ciò che è fattivamente la produzione e la competenza, il divario è talmente forte che tu quasi non ti ritrovi ad avere la base su cui rivendicare perché loro stessi inquinano così tanto lo sviluppo che in realtà sei sempre più spesso portato a intervenire sul tema dell’organizzazione del lavoro, delle migliorie produttive, etc.
Noi eravamo accusati di essere un sindacato che scioperava tanto, ad esempio, ma la verità è che passavano anche dai 6 agli 8 mesi in cui magari facevamo solo un’ora o due di sciopero. E poi un giorno siamo andati ad analizzare una linea di produzione, e viene fuori che ogni 8 ore ci sono 155 minuti di fermo macchine per inefficienze manutentive. E quindi realizzi che fare un’ora di sciopero in un contesto produttivo con queste falle è quasi un regalo che fai alla controparte — se qualcosa ritarda o non funziona, possono comodamente incolpare il sindacato.
Il nostro piano di reindustrializzazione 4.0 è partito molto prima della vertenza; c’era ogni volta che loro non sapevano nulla, e noi là a dovergli spiegare tutto… Mentre lottavamo, ci siamo anche dovuti caricare della loro parte di incompetenza.
Far ripartire la fabbrica dalle nostre gambe non è che non ci spaventi ma questa fantomatica dirigenza illuminata, in cui fanno tutto loro e noi dobbiamo solo fare gli operai, noi non l’abbiamo mai conosciuta.
Ci siamo costituiti noi classe dirigente, ed è stato possibile grazie a enormi reti di solidarietà. Quello che abbiamo scoperto è che c’è un mondo professionale frustrato che vede in GKN la possibilità di legare un certo livello di competenza, formazione, professionalizzazione a uno scopo collettivo, sociale, comunitario.

Anche per quanto riguarda il nostro modo di parlare, di esprimerci, di creare una narrazione, credo che il nostro più grande merito sia quello di esserci lasciati attraversare. Ad esempio, per lo spettacolo “Il Capitale. Un libro che non abbiamo ancora letto”, la compagnia Kepler-452 ha vinto il Premio Speciale Ubu 2023. È uno spettacolo su di noi: e questo è potuto succedere perché la compagnia ha deciso di stare qua e di mettere a disposizione della lotta i propri canoni comunicativi, il proprio impegno, etc. Allo stesso tempo ha portato sul palco la narrazione che già esisteva in fabbrica e che magari serpeggiava ma in maniera meno cosciente. Una narrazione che nasce dal mettere a frutto la forza di una comunità operaia che, nel corso dei decenni, ha goduto di una grandissima trasmissione orale di canzoni, espressioni, goliardia.
Perché la capacità di tenere sui diritti sociali è ciò che permette di tenere in piedi una comunità e, a cascata, un’identità, una narrazione. Ma la comunità è quello che permette tutto il resto; su questo non ci piove. Anche questo significa essere classe dirigente e, insieme, gioiosa barricata collettiva.

Fonte: silia gala