Morire in un cantiere si chiama omicidio
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- Scritto da Stefano Galieni
20/02/2024
Bouzekri Rachimi, 56 anni, è stato l’ultimo corpo ad essere recuperato. Prima di lui erano stati estratti dalle macerie di un cantiere privo di qualsiasi garanzia di sicurezza, quelli di Taufik Haidar, 45 anni, Mohamed Toukabri di 54 anni; Mohamed El Ferhane, 24 anni e Luigi Coclite, 59 anni. Non è l’ora del cordoglio e del silenzio, come si chiede dai palazzi, ma dell’indignazione e della protesta. La vicenda macroscopica di questa strage, che ha causato altri 3 feriti gravi rivela molte chiavi di lettura che, in attesa delle doverose indagini, vale la pena di accennare. La prima, macroscopica, è che ormai da anni la logica dei subappalti al ribasso ha annientato quei vincoli di condizioni del lavoro che nei cantieri dovrebbero essere rispettati. Quando si deve costruire di corsa non c’è tempo di badare a questo. Chi offre i lavoratori a costo minore vince la gara, chi crea meno problemi al marchio famoso, assumendosi responsabilità che non pagherà mai, ha maggiori opportunità di ottenere la commessa.
Si tratta di un gioco palesemente truccato. In assenza di una legislazione più severa, sia nella prevenzione che, poi nella punizione degli illeciti commessi, il mercato è lasciato a se stesso. Brucia ancora la vicenda oscena della giovane Luana D’Orazio, uccisa da un orditoio a cui, per velocizzare i tempi, erano stati tolti i meccanismi di blocco in caso di incidente e i cui titolari dell’impresa sono stati condannati ad una pena ridicola. Un secondo filone è legato, in maniera più specifica al mondo dell’edilizia. Avveniva anche nei decenni passati che chi lavorava in questo settore si dovesse ritrovare ad inseguire letteralmente il lavoro e i cantieri. I lavoratori uccisi in questo omicidio plurimo non vivevano a Firenze ma, di volta in volta, si spostavano dove c’era richiesta. Quando un minimo di maggiore controllo sui cantieri era in vigore e i diritti venivano difesi seriamente dal sindacato, quantomeno c’erano maggiori garanzie. Oggi chi lavora è sballottato da una città all’altra, deve trovarsi un alloggio temporaneo per poi ricominciare. Si può chiamare vita questa? Ci si può poi lamentare che non si trovino giovani “italiani” per tale impiego, faticoso, rischioso e con stipendi affatto gratificanti? Sulla frammentazione che ha raggiunto questo comparto manca da decenni una seria ricerca e riflessione, forse perché questa contrasta il diritto incontrastato delle imprese e di chi ottiene i subappalti a garantire i propri margini di profitto. Un ulteriore elemento è quello relativo all’assenza di controlli da parte degli ispettori che attuino controlli preventivi nei cantieri. La prevenzione, su cui è tornata, dopo la strage, la ministra del Lavoro Calderone è una chimera. Non basta dichiarare di aver aumentato nel 2022 circa 850 “professionisti con qualifica tecnica che consentiranno all’Inail di aumentare del 40% le ispezioni”. Più significative ci paiono le dichiarazioni di Giancarlo Spocchia, Presidente dell’Associazione Nazionale Funzionari Ispettivi Pubblici che, il 30 gennaio scorso, in audizione alla Commissione Lavoro aveva dichiarato che “con il numero di ispezioni che vengono fatte in Italia, rispetto al numero di aziende presenti, ogni azienda ha la possibilità di essere sottoposta ad ispezione ogni 18 anni, quindi quelle che truffano hanno la possibilità di farla franca”. Gli ispettori erano 1.200 nel 2018 e oggi sono 844 – contraddicendo quindi quanto affermato dalla ministra – chi va in pensione lascia il posto vuoto perché grazie alle riforme introdotte da Renzi non si fanno nuove assunzioni, il ruolo, come i controlli, spariscono. Da ultimo va rilevato che 4 dei lavoratori morti a Firenze erano cittadini immigrati, così come lo sono i 3 feriti. Si è parlato – le indagini sono in corso – di assunzione di persone “irregolari” o con mansioni diverse da quelle che svolgevano, c’è stato anche chi ha avuto il coraggio di andare a notare come una delle vittime avesse avuto in passato controlli di polizia per problemi inerenti il permesso di soggiorno. Questo perché la presenza in Italia di lavoratori e lavoratrici con cittadinanza diversa è ancora vincolata da quel cappio nato nel 2002 e mai modificato da nessun governo di nessun colore che si chiama legge Bossi Fini. In pratica, fa sempre bene ricordarlo, se non si ha una carta da lungo soggiornanti – teoricamente di durata illimitata – ma ottenibile solo avendo per almeno 5 anni di fila non solo un lavoro stabile ma un contratto di affitto o di proprietà di un’abitazione e un reddito continuato, si è costretti al permesso di soggiorno periodicamente da rinnovare. Col risultato che per milioni di persone, stabilmente presenti in Italia, perdere il lavoro significa perdere il diritto al permesso di restare in questo “ameno” paese.
Certo si ha il tempo per trovare altra occupazione ma intanto i tempi di rilascio e di rinnovo dei permessi sono sempre più lenti, capita di ottenerne uno quando la sua durata è già scaduta, anche due anni dopo, in tali condizioni il rischio di finire in condizioni di irregolarità che possono portare anche verso l’espulsione fa si che si sia disponibili ad accettare ogni lavoro, indipendentemente dal beneficio che se ne trae. I tribunali sono intasati di cause relative a buste paga da cui risultavano 20 ore settimanali a fronte di oltre 50 lavorate effettivamente, si passa da un cantiere alla raccolta nei campi, in condizioni di lavoro grigio, come se nulla fosse, sempre nella speranza di potersi mantenere legalmente presenti. Questo a fronte del fatto che sono almeno 600 mila in Italia le persone prive di titolo di soggiorno, sì, quelli che chiamano squallidamente clandestini, costretti a condizioni di vita ancora peggiori. Molte sono donne che vivono e lavorano nelle case per la cura di anziani o figli, senza poter minimamente aspirare ad altro che a pochi soldi da poter, almeno in parte rimandare a casa.
A chi straparla di “esercito industriale di riserva” che abbassa i salari degli “italiani”, magari ammantandosi anche dell’egida di difensore del proletariato, va fatto presente che, in assenza generalizzata di garanzie sul lavoro, la gerarchia che si è stabilita fra chi ha la cittadinanza e chi non ha neanche un pezzo di carta che permetta di usufruire dei servizi essenziali (medico, istruzione, ecc.) non è di conflittualità interna ma di vittoria del profitto su tutte e tutti. E a chi invoca la sicurezza per un barchino che giunge a Lampedusa, ma si volta dall’altra parte di fronte all’elenco infinito di chi perde la vita o subisce gravi infortuni, per accettare le condizioni imposte semplicemente per svolgere il proprio lavoro, viene da domandare: quale è la vera sicurezza? Quella che impedisce gli omicidi sul lavoro o quella strombazzata come falso allarme sociale?
Una sinistra degna di questo nome dovrebbe porre queste domande alla pubblica opinione queste questioni e offrire una soluzione semplice, radicale e di buon senso. Permettere la regolarizzazione permanente a chi vive sul territorio nazionale, a chi lavora o è in cerca di trovarlo, a chi ha sviluppato legami sociali e affettivi col territorio, a chi vuole costruirsi un futuro. Essere regolari senza i vincoli imposti non dalle leggi dello Stato ma dal volere di un padrone – è questo l’unico termine adeguato – non solo rinsalderebbe i legami sociali ma, cosa su cui poco ci si sofferma, sarebbe un colpo all’economia sommersa, garantirebbe un maggior gettito fiscale, farebbe persino aumentare i consumi. Ma vanno fatte scelte non da “una tantum”, la regolarizzazione deve divenire permanente come l’aumento dei controlli delle aziende che, sfruttando il lavoro nero, evadono il fisco e lucrano sul bisogno di lavoro di migranti e autoctoni.
Una sinistra pacifista, per la giustizia sociale ed ambientale, può inserire anche questo punto nei propri irrinunciabili punti di forza? Ad avviso di chi scrive deve farlo e, al contempo, inserire, come richiesto dalla grande raccolta firme portata avanti dal sindacato conflittuale e da poche forze politiche, il reato di omicidio sul lavoro. Mai più la parola “morti bianche”. Si tratta di delitti che hanno un esecutore e un mandante. Il mandante si chiama profitto a qualsiasi costo.
da Transform Italia