Cina Notizia - Aprile 2023

 

 A cura dell'Osservatorio Italiano sulla Nuova Via della Seta / CIVG


 

Commento: La "frustrazione" dei politici statunitensi per l'accordo tra Arabia Saudita e Iranespone la mentalità egemonica

Fonte: Xinhua            11 aprile 2023            Redattore web: Zhang Kaiwei, Liang Jun

 

 

 

Wang Yi, membro dell'Ufficio politico del Comitato centrale del Partito comunista cinese (PCC) e direttore dell'Ufficio della Commissione Affari Esteri del Comitato centrale del PCC, presiede la riunione di chiusura dei colloqui tra una delegazione saudita e una delegazione iraniana a Pechino, capitale della Cina, il 10 marzo 2023. (Xinhua/Luo Xiaoguang)

 

CAIRO, 10 aprile

Mentre i leader mondiali accolgono con favore la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran – due arci-rivali in Medio Oriente – alcuni funzionari statunitensi hanno espresso il loro disappunto invece di unirsi alla celebrazione.

In una visita senza preavviso in Arabia Saudita all'inizio di questo mese, William Burns, direttore della Central Intelligence Agency, ha espresso la "frustrazione" di Washington per essere stato lasciato fuori dagli sviluppi regionali dopo che Riyadh si è mossa per ripristinare i legami con l'Iran e la Siria, secondo il Wall Street Journal.

La frustrazione di Burns è arrivata circa un mese dopo i colloqui tra Arabia Saudita e Iran, mediati dalla Cina, durante i quali le due parti hanno concordato di riprendere le relazioni diplomatiche. 

I due paesi del Medio Oriente hanno firmato una dichiarazione congiunta a Pechino giovedì per riaprire ambasciate e consolati nei rispettivi paesi.

L'accordo dovrebbe allentare le tensioni tra i due influenti paesi musulmani, in modo che possano lavorare insieme per ridurre i conflitti armati e ripristinare la stabilità e la pace per decine di milioni di persone nella regione.

Quando la maggior parte del mondo accoglie con favore la mossa, non sembra essere una buona notizia per Washington, dove qualsiasi sforzo diplomatico della Cina potrebbe essere interpretato come prova di intenti maligni e un tentativo di danneggiare gli interessi degli Stati Uniti.

Tale mentalità ha portato all'uso indiscriminato del potere degli Stati Uniti per contenere la Cina e sabotare qualsiasi progetto a cui la Cina prende parte, comprese le iniziative di pacificazione e altre iniziative per il bene comune del mondo.

Oltre alle dure sanzioni imposte alle aziende tecnologiche cinesi, Washington ha anche costretto i suoi alleati e alcuni altri paesi ad aderire alle sanzioni e a respingere i progetti in cui la Cina aveva un interesse.

Nel caso dell'accordo saudita-iraniano, gli Stati Uniti non erano in una buona posizione per mediare un tale riavvicinamento in quanto non hanno legami diplomatici con l'Iran.

I politici statunitensi si rifiutano di affrontare la realtà che loro – dopo essere stati un attore chiave in Medio Oriente per decenni – ora si trovano assenti da un accordo che potrebbe portare cambiamenti significativi nella regione.

Inoltre, come molti analisti hanno sottolineato, Washington potrebbe non essere molto interessata a costruire un Medio Oriente pacifico dal momento che ha a lungo approfittato dei conflitti della regione e ne ha fatto una fortuna.

Incitando al conflitto tra l'Iran, contro il quale Washington ha già imposto dure sanzioni, e altri paesi della regione, gli Stati Uniti potrebbero rendere i loro alleati mediorientali più dipendenti da esso in materia di sicurezza e beneficiare di questa situazione vendendo loro armi.

Nel corso degli anni, i politici statunitensi hanno cercato di modellare la geopolitica del Medio Oriente allineandosi con gli alleati, isolando i governi che ritenevano ostili, ampliando il divario arabo-iraniano e israelo-iraniano attraverso uno schema complesso e coinvolgendo la regione nella sua influenza.

Tuttavia, queste tattiche sono piene di scappatoie. Sanzioni rigorose su importanti attori regionali lasceranno poco spazio ai politici statunitensi per manovrare quando è necessario un dialogo, e un'eccessiva interferenza nelle decisioni cruciali dei suoi alleati per promuovere i propri interessi potrebbe ritorcersi contro.

L'accordo saudita-iraniano potrebbe servire da promemoria per Washington a riconsiderare la sua politica estera conflittuale e il suo approccio a somma zero agli affari internazionali.

I politici statunitensi sono ossessionati dal fare tutto il possibile per aiutare a mantenere la loro egemonia, indipendentemente dalle conseguenze delle loro decisioni e azioni.

Per troppo tempo hanno dato per scontato che le intimidazioni, le sanzioni e le altre sanzioni economiche fossero una dimostrazione di forza. 

Ma contrariamente a quanto avevano desiderato, continuare a farlo finirebbe per alienare gli alleati degli Stati Uniti ed erodere il potere degli Stati Uniti in un mondo in rapida evoluzione in cui la maggior parte delle persone anela alla cooperazione pragmatica invece degli scontri.

 


 

PROPONIAMO QUESTA INTERESSANTISSIMA ANALISI DI ALESSANDRO SCASSELLATI PER GENTILE CONCESSIONE DEL QUOTIDIANO CONTROPIANO

 

Fine moduLe proposte della Cina per un ordine internazionale alternativo a quello occidentale

di Alessandro Scassellati

 

 

La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore […] il nuovo non può nascere e in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.

Antonio Gramsci

 

Grande è il disordine sotto il cielo. La situazione è dunque eccellente.

Mao Zedong

 

Negli ultimi mesi la Repubblica Popolare di Cina si è segnalata per uno spiccato attivismo per cercare di ridefinire una propria visione di un ordine internazionale alternativo a quello offerto dall’Occidente – il cosiddetto “rules-based international order” (anche se le «regole» non sono state mai veramente scritte da nessuna parte, a eccezione della Carta delle Nazioni Unite, un’organizzazione di cui fanno parte 193 Stati che però vede le risoluzioni della sua Assemblea Generale sistematicamente ignorate dagli USA e dalle altre grandi potenze), la Pax Americana -, avanzando proposte sulla sicurezza globale e sulla risoluzione del conflitto ucraino. 

A fine febbraio, il Ministero degli Esteri cinese ha pubblicato tre fondamentali documenti che definiscono la visione cinese del mondo e della comunità internazionale.

Il concept paper della Global Security Initiative (GSI), il documento US Hegemony and its Perils e il documento che illustra la proposta cinese per una soluzione politica alla guerra in Ucraina

Documenti che hanno l’ambizione di presentare la Cina come forza per la stabilità e la prosperità globali, che vuole ispirare una “modernizzazione” post-occidentale in tutto il mondo, in particolare nel Sud del mondo, non perseguita attraverso la guerra, il colonialismo o l’espropriazione. 

La narrazione ufficiale in Cina (ma anche nel Sud globale e nei paesi europei che sono scettici sulle politiche statunitensi per contenere la Cina) è che gli Stati Uniti rispondono ai problemi militarmente, mentre la Cina usa il dialogo e la cooperazione pacifica.

Sconfiggere il nemico senza combattere è la massima abilità”, sosteneva Sun Tzu.

Proviamo ad analizzare i contenuti di queste proposte e a ragionare sulle possibili evoluzioni e prospettive, ritenendo che esse offrano diversi spunti utili sulla percezione della Cina circa il suo ruolo nell’arena internazionale e sul suo posizionamento rispetto alle dinamiche globali del potere.

 

Contesto geopolitico: USA verso Cina

Sappiamo che la Cina è impegnata almeno dal 2018 in una competizione a tutto campo (sebbene al momento non un conflitto bellico) con gli Stati Uniti, la potenza ancora egemone, seppure investita da uno strisciante e progressivo declino che cerca di contrastare attraverso interventi unilaterali (sanzioni, protezionismo/decoupling/politiche industriali, esclusione di imprese dei paesi non graditi dall’accesso al mercato e alle tecnologie del mondo digitale; riarmo proprio e dei paesi amici, “guerre per procura”, ecc.), nonché un rilancio delle alleanze politico-militari occidentali (via Nato, Aukus, Quad, Five Eyes, ecc.), utilizzando la retorica della lotta tra il fronte delle democrazie e quello delle autocrazie.

Nell’ultimo anno le tensioni tra USA e Cina sono cresciute, alimentate da posizioni divergenti su sanzioni economiche americane, Taiwan, guerra tra Russia e Ucraina, e l’incidente del pallone meteorologico/spia.

Negli Stati Uniti si è consolidato un forte consenso bipartisan sul “contenimento” della Repubblica Popolare Cinese sia in chiave militare, attraverso la mobilitazione del military-industrial complex e delle alleanze asiatiche a guida americana, sia in chiave tecnologica, con copyright (brevettazione monopolistica), restrizioni e sanzioni (oltre mille imprese cinesi sono state messe nella “lista nera” e gli USA affermano che la Cina potrebbe utilizzare la App TikTok per lo spionaggio di massa dei cittadini americani, mentre loro utilizzano Google per spiare a livello globale), sia in chiave economica con una maggiore selettività nel gestire i rapporti commerciali. 

Gli Stati Uniti (e la UE?) stanno cercando di ricostruire la globalizzazione escludendo la Cina dai settori strategici del nuovo ciclo di accumulazione (green e digitale).

Utilizzando strumenti come politiche industriali, protezionismo, decouplingre-shoring friend-shoring stanno scommettendo sulla possibilità di dare vita a nuove catene globali del valore che siano capaci di tenere fuori le imprese cinesi (soprattutto nei semiconduttori avanzati, terre rare e batterie elettriche), anche se questo potrebbe significare che il tempo dell’elettronica di consumo a basso costo e della fast fashion sia finito.

La Cina sta rispondendo a questa strategia statunitense a tutto campo con una rinnovata iniziativa in politica estera, partecipando a esercitazioni militari congiunte con forze russe, sudafricane e di altri paesi, e soprattutto rilanciando il gruppo dei BRICS, allargandolo ad altri paesi del Sud globale e prevedendo la nascita di una moneta globale alternativa al dollaro, lanciando la GSI, l’Iniziativa per lo sviluppo globale (GDI), collegata all’Agenda 2030 dell’ONU, e l’Iniziativa per la civiltà globale (GCI, intesa a promuovere il dialogo, l’inclusività, il rispetto reciproco e il mutuo apprendimento in seno alla comunità internazionale), investendo nel piano “Made in China 2025” (per sviluppare 10 settori strategici del prossimo round di accumulazione) e nella Belt and Road Initiative (BRI) per realizzare infrastrutture fisiche, logistiche e digitali per connettere la Cina con l’Eurasia, l’Africa, l’Asia orientale e il Sud America, e rafforzando la Shangai Cooperation Organization (SCO) e la Eurasia Economic Union (EAEU) per costruire nuove piattaforme produttive e catene di approvvigionamento e valore legate a Pechino, in modo da mantenere e rafforzare la posizione centrale della Cina nelle catene del valore manifatturiere globali, sia che si tratti di beni ad alta intensità di lavoro o di tecnologia.

Sul piano politico, la Cina si presenta come l’alfiere dei paesi in via di sviluppo del Sud globale (la popolazione combinata rappresenta l’80% della popolazione mondiale e contribuisce al 70% della produzione economica globale), cercando di trasformare la sua potenza economica in influenza politica internazionale, sostenendo che dovrebbero avere maggiore voce negli affari internazionali (con una nuova governance globale) e che le persone di questi paesi dovrebbero avere il diritto di godere di una vita migliore (di uno sviluppo autopropulsivo).

Xi sta anche cercando di posizionarsi come statista globale per rivaleggiare con Biden.

La Cina ha recentemente mediato un accordo tra Arabia Saudita e Iran (firmato a Pechino il 10 marzo 2023) per ripristinare le relazioni diplomatiche (entrambi i paesi hanno concordato di rispettare i principi della Carta delle Nazioni Unite, risolvere le loro controversie attraverso il dialogo, rispettare la sovranità reciproca e non interferire negli affari interni di altri paesi), una mossa salutata in Cina come una vittoria contro l’egemonia statunitense in Medio Oriente.

A differenza della rivalità della guerra fredda tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, lo scontro tra USA e Cina coinvolge due superpotenze nucleari che sono le maggiori economie del mondo e sono profondamente intrecciate sul piano economico.

Il commercio di merci tra Stati Uniti e Cina valeva 690,6 miliardi di dollari nel 2022, con il dollaro e l’euro che costituiscono parti sostanziali delle riserve monetarie cinesi, e i tentativi su entrambe le sponde del Pacifico di districare il rapporto sono stati ostacolati da legami nel commercio, nella ricerca, nella tecnologia e nella cultura. 

Si è aperta apparentemente una nuova fase storica, quella della globalizzazione selettiva basata su una frammentazione dell’economia-mondo in blocchi geopolitici e geoeconomici in via di «disaccoppiamento» (che secondo la managing director del Fondo monetario Internazionale, Kristalina Georgieva, sarebbe “una ‘divisione pericolosa’ che lascerebbe tutti più poveri e meno sicuri”) – un blocco euro-atlantico con i suoi satelliti in Asia orientale e Oceania e un blocco euro-asiatico in formazione – che esprimono diversi modelli di sviluppo capitalistico e di rapporti strutturali tra sistema tecnologico e finanziario e sistema sociale e politico, e sono in forte competizione tra loro per la supremazia economica (integrazione e controllo di risorse strategiche, supply chains e mercati), politico-militare (sfere di influenza) e culturale (egemonia ideologica e soft power).

Al tempo stesso, come sostiene la maggioranza degli osservatori occidentali, negli ultimi mesi la Cina è diventata più “assertiva” nel rivendicare i propri interessi (allontanandosi forse definitivamente dal mantra “mantieni un basso profilo” di Deng).

Nella prima conferenza stampa da ministro degli Esteri (ex ambasciatore cinese a Washington), tenuta durante il congresso delle “Due Sessioni”, Qin Gang ha illustrato le linee di politica estera cinese per i prossimi 5 anni con un tono che i media mainstream occidentali hanno giudicato particolarmente bellicoso, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti.

L’avvertimento a Washington è di abbandonare al più presto l’approccio competitivo a somma zero, “la cosiddetta competizione della parte statunitense è il contenimento e la soppressione a tutto campo, un gioco a somma zero in cui tu muori e io vivo” spinto da quello che ha definito un “neo-maccartismo isterico” che sta infliggendo gravi danni alle relazioni bilaterali.

Altrimenti, sarà inevitabile un “conflitto e scontro” tra le due potenze che mette a rischio “il futuro dell’umanità”.

Al tempo stesso, ha difeso il rafforzamento delle relazioni del suo Paese con la Russia (che “costituiscono un esempio per le relazioni estere globali“), diventato un partner importante per la Cina da quando i due paesi hanno posto fine a una storica disputa sul confine nel 2005.

Un tono più aggressivo rispetto al passato che, secondo il Financial Times, sarebbe motivato dalla necessità di spostare l’attenzione dal ribasso delle aspettative di crescita del PIL cinese (ma, in realtà, con una stima di una crescita al 5,2%, un aumento di 2 punti percentuali rispetto al tasso 2022, il che significa che la Cina rappresenterà circa un terzo della crescita globale nel 2023) reduce da tre anni di politica zero-Covid e dall’ansia di Pechino per una realtà economico-politica globale in cui il rallentamento della crescita (prevista al 3% dal FMI) e il caos crescente – incarnato dalla guerra in Ucraina, ma anche dalla crisi del debito di decine di paesi poveri e da un’ondata inflazionistica che spinge le banche centrali dei paesi occidentali a un rapido rialzo dei tassi di interesse, provocando deprezzamenti delle valute e deflussi di capitali dai paesi poveri – finisce per nuocere agli interessi cinesi.

Non a caso, Qin Gang ha presentato la Cina e le sue relazioni con la Russia come un faro di forza e stabilità, e gli Stati Uniti e i suoi alleati come una fonte di tensione e conflitto.

In questo difficile e contrastato scenario geopolitico e geoeconomico, la Cina si sente pronta ad accreditarsi e ad essere riconosciuta dalla comunità internazionale (a cominciare da USA e UE) come una grande potenza responsabile.

Un tentativo di rivendicare e assumere apertamente un ruolo attivo di leadership globale che evidenzia il desiderio di individuare il vero terreno su cui deve essere misurata la crescente competizione con gli Stati Uniti.

 

La proposta cinese per una soluzione alla guerra in Ucraina

La Cina ha cercato di presentarsi come un pacificatore nel conflitto tra Russia e Ucraina (di “svolgere un ruolo costruttivo in questo senso” in quanto “grande paese responsabile”), ma la proposta cinese (un “position paper”) è stata molto rapidamente cestinata dagli USA (“è un inganno”) e UE (senza però presentare alcuna proposta alternativa), ma non da Kyiv né da Mosca.

La posizione ufficiale degli Stati Uniti rimane invariata: la guerra deve continuare per indebolire gravemente la Russia.

Il piano cinese per l’Ucraina, che, come tanti hanno scritto, non è un vero e proprio piano di pace (non offre misure specifiche), quanto un framework generale per arrivarci (“creare condizioni e piattaforme” per la ripresa dei negoziati): chiede colloqui di pace esortando tutte le parti a evitare l’escalation nucleare e porre fine agli attacchi ai civili. 

Il documento è stato pubblicato il 24 febbraio, nel primo anniversario dell’invasione della Russia e contiene 12 punti: 

1. rispetto della sovranità di tutti i paesi;

2. abbandonare la mentalità della Guerra Fredda;

3. cessazione delle ostilità;

4. ripresa dei colloqui di pace;

5. risoluzione della crisi umanitaria;

6. protezione dei civili e dei prigionieri di guerra;

7. mantenimento della sicurezza delle centrali nucleari;

8. riduzione dei rischi strategici (non uso delle armi nucleari);

9. facilitazione delle esportazioni di grano (con la Black Sea Grain Initiative firmata da Russia, Turchia, Ucraina e ONU);

10. fermare le sanzioni unilaterali (non autorizzate dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che oggi rappresentano il principale strumento messo in campo da USA e UE per ostacolare lo sforzo bellico russo);

11. mantenere stabili le catene industriali e di approvvigionamento;

12. promuovere la ricostruzione postbellica.

Il documento non rivolge i suoi suggerimenti a una particolare parte del conflitto (il governo cinese ci tiene a presentarsi come “una parte neutrale attiva”), chiedendo invece a tutte le parti di “rimanere razionali ed esercitare moderazione” e di “rispettare rigorosamente il diritto internazionale umanitario, evitare di attaccare civili o strutture civili, proteggere donne, bambini e altre vittime del conflitto”.

Dal documento traspare che la Cina appare preoccupata dell’impatto negativo diretto e forte della crisi ucraina sul vasto numero di paesi in via di sviluppo che hanno urgente bisogno di raggiungere i propri obiettivi di sviluppo (si pensi ai punti che riguardano la facilitazione delle esportazioni di grano e il mantenimento stabile delle catene industriali e di approvvigionamento).

Ritiene che sia proprio per questo che questi paesi non vogliono essere costretti a scegliere da che parte stare nel conflitto, ma sperano ardentemente che tutte le parti possano trovare una soluzione pacifica.

 

Il documento US Hegemony and its Perils

Il documento US Hegemony and its Perils  prende la forma di un rapporto che, “presentando fatti rilevanti”, espone l’abuso della propria posizione egemonica da parte degli Stati Uniti dalla politica alla cultura, passando per l’egemonia militare, economica e tecnologica. 

 

Il documento sostiene che da quando sono diventati il paese più potente del mondo dopo le due guerre mondiali e la Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno agito con sempre maggiore intensità per interferire negli affari interni di altri paesi, perseguire, mantenere e abusare dell’egemonia, promuovere la sovversione e l’infiltrazione e condurre volontariamente guerre, arrecare danno alla comunità internazionale. 

La tesi è che gli Stati Uniti hanno sviluppato un manuale egemonico per inscenare “rivoluzioni colorate” (inclusa la “Primavera Araba”, ma in particolare in Georgia, Ucraina e Kyrgyzstan) con l’obiettivo di promuovere il “cambio di regime”, istigare controversie regionali e persino lanciare direttamente guerre con il pretesto di promuovere la democrazia, la libertà e i diritti umani.

Aggrappandosi alla mentalità della Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno intensificato la politica dei blocchi e alimentato conflitti e scontri.

Hanno esagerato con il concetto di ‘sicurezza nazionale’, hanno abusato dei controlli sulle esportazioni e imposto sanzioni economiche unilaterali agli altri (le sanzioni statunitensi contro entità straniere sono aumentate del 933% dal 2000 al 2021 e colpiscono quasi 40 paesi in tutto il mondo, tra cui Cuba, Cina, Russia, Repubblica Popolare di Corea, Iran e Venezuela, colpendo quasi la metà della popolazione mondiale). 

Hanno adottato un approccio selettivo al diritto e alle regole internazionali, utilizzandole o scartandole a loro piacimento, e hanno cercato di imporre regole che servano i propri interessi in nome del mantenimento di un “ordine internazionale basato su regole“.

Tuttavia, più che effettivamente smascherare gli specifici tratti dell’egemonia statunitense, l’obiettivo del saggio sembra essere quello, certamente non nuovo, di accattivarsi una audience tanto globale quanto specifica: quel gruppo più o meno ampio di Paesi, soprattutto del Global South, insofferenti verso Washington (molti dei quali si sono astenuti nelle votazioni nell’Assemblea Generale dell’ONU sulla risoluzione rispetto alla guerra in Ucraina).

Infatti, la conclusione del documento afferma che “I paesi devono rispettarsi a vicenda e trattarsi da pari a pari. I grandi Paesi dovrebbero comportarsi in modo consono al loro status e prendere l’iniziativa nel perseguire un nuovo modello di relazioni tra Stato e Stato caratterizzato dal dialogo e dalla partnership, non dallo scontro o dall’alleanza. La Cina si oppone a tutte le forme di egemonismo e politica di potere e rifiuta l’ingerenza negli affari interni di altri paesi. Gli Stati Uniti devono condurre un serio esame di coscienza. Devono esaminare criticamente ciò che hanno fatto, abbandonare la loro arroganza e il loro pregiudizio e abbandonare le loro pratiche egemoniche, di dominio e prepotenti”.

 

La Global Security Initiative

La GSI  è stata presentata come articolazione diretta del pensiero di Xi Jinping (eletto per un terzo mandato segretario del PCC, ma anche presidente della Commissione militare centrale e presidente della RPC ad ottobre 2022) e costituisce una sorta di documento paradigmatico, filosofico-fondativo, della visone cinese delle relazioni internazionali. 

La GSI vuole essere il “piano” del governo cinese volto a garantire la sicurezza globale davanti alle molteplici sfide e ai grandi rischi che la comunità internazionale si trova da affrontare. 

La GSI mira a eliminare le cause profonde dei conflitti internazionali, migliorare la governance della sicurezza globale, incoraggiare sforzi internazionali congiunti per portare maggiore stabilità e certezza in un’era instabile e mutevole e promuovere una pace e uno sviluppo durevoli nel mondo.

Nel documento si dichiara che il cardine del sistema deve essere il rispetto e l’implementazione dei dettami della Carta delle Nazioni Unite (1945) e dei dieci principi della Conferenza di Bandung degli Stati africani e asiatici tenutasi nel 1955. 

L’ONU è l’organismo multilaterale su cui avrebbe dovuto strutturarsi l’ordine post-Seconda guerra mondiale in alternativa all’unilateralismo e alle sue manifestazioni (come il protezionismo) che la Cina oggi imputa agli Stati Uniti.

Il tema della mentalità “win-win”, centrale nella narrazione legata alla cooperazione nel contesto della Belt and Road Initiative, viene declinato nel documento come risposta necessaria a quella che è la diagnosi di Pechino sulle fonti profonde di (in)sicurezza della comunità internazionale: una serie di sfide comuni che si intersecano richiedendo non solo soluzioni concertate, ma anche e soprattutto rispetto delle preoccupazioni di sicurezza di tutti i membri della comunità, della sovranità e integrità territoriale, e della non interferenza come principi fondativi delle relazioni internazionali.

Ma l’aspetto forse più interessante è quello che la Cina sottolinei come preoccupazione principale della sicurezza internazionale la necessità di evitare una mentalità da guerra fredda. 

L’idea di un sistema diviso in blocchi di potenza in cui, secondo il documento cinese, viene necessariamente meno il riconoscimento delle legittime preoccupazioni altrui e comporta una perdita netta per la comunità internazionale (“La mentalità della guerra fredda, l’unilateralismo, il confronto dei blocchi e l’egemonismo contraddicono lo spirito della Carta delle Nazioni Unite e devono essere contrastati e respinti”). 

In sostanza, l’approccio cinese propone “un nuovo modello di relazioni tra Stati basato su dialogo e partnership”, non-interferenza e rifiuto della politica di egemonia direttamente contrapposto al modello di “scontro e alleanze” e politica di potenza degli Stati Uniti.

Sei sono i concetti e principi fondamentali interconnessi della GSI: 

1. Rimanere impegnati nella visione di una sicurezza comune, globale, cooperativa e sostenibile; 

2. Restare impegnati a rispettare la sovranità e l’integrità territoriale di tutti i paesi (uguaglianza sovrana e non interferenza negli affari interni come principi fondamentali del diritto e delle relazioni internazionali);

3. Restare impegnati a rispettare e attuare gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite (“praticare un vero multilateralismo” e “sostenere fermamente il sistema internazionale con l’ONU al centro… e il suo status di piattaforma principale per la governance della sicurezza globale”); 

4. Restare impegnati a prendere sul serio le legittime preoccupazioni di sicurezza di tutti i paesi; 

5. Rimanere impegnati a risolvere pacificamente le differenze e le controversie tra i paesi attraverso il dialogo e la consultazione; 

6. Rimanere impegnati a mantenere la sicurezza sia nei domini tradizionali che in quelli non tradizionali (“lavorare insieme per affrontare le controversie regionali e le sfide globali come il terrorismo, i cambiamenti climatici, la sicurezza informatica e la biosicurezza”).

 

Per realizzare la visione contenuta nella GSI, la Cina è pronta a impegnarsi nella cooperazione sulla sicurezza bilaterale e multilaterale con tutti i paesi e le organizzazioni internazionali (soprattutto in sede ONU) e regionali e nel promuovere attivamente il coordinamento dei concetti di sicurezza e la convergenza degli interessi. 

Con la GSI, seguendo il principio di apertura e inclusività, la Cina accoglie con favore e si attende la partecipazione di tutte le parti per arricchire congiuntamente la sua sostanza ed esplorare attivamente nuove forme e aree di cooperazione. “La Cina è pronta a lavorare con tutti i paesi e i popoli che amano la pace e aspirano alla felicità per affrontare tutti i tipi di sfide alla sicurezza tradizionali e non tradizionali, proteggere la pace e la tranquillità della terra e creare insieme un futuro migliore per l’umanità, in modo che la fiaccola della pace sarà trasmessa di generazione in generazione e risplenderà in tutto il mondo”.

 

Un nuovo ordine mondiale post-occidentale?

Mentre alcuni dei più grandi paesi in via di sviluppo, come Cina, Brasile, India, Messico, Indonesia e Sud Africa, si allontanano dalla dipendenza dagli Stati Uniti e dai suoi alleati occidentali, hanno iniziato a discutere una nuova architettura per un nuovo ordine mondiale. 

Ciò che è abbastanza chiaro è che la maggior parte di questi paesi, nonostante le grandi differenze nelle tradizioni politiche dei rispettivi governi, ora riconoscono che l’”ordine internazionale basato sulle regole” degli Stati Uniti non è più in grado di esercitare l’autorità che aveva una volta.

L’effettivo movimento della storia mostra che l’ordine mondiale si sta spostando da uno ancorato all’egemonia degli Stati Uniti a uno di carattere molto più regionale.

I politici statunitensi, come parte del loro allarmismo, suggeriscono che la Cina voglia conquistare il mondo, sulla falsariga dell’argomento della “Trappola di Tucidide“, secondo cui quando un nuovo aspirante all’egemonia appare sulla scena, tende a sfociare in una guerra tra i paesi emergenti e la grande potenza esistente. 

Tuttavia, questa argomentazione non si basa sui fatti.

Nessuno Stato-nazione è oggi in grado di organizzare l’ordine globale e mantenerne il controllo in maniera unilaterale.

Piuttosto che cercare di generare ulteriori poli di potere – sulla scia degli Stati Uniti – e costruire un mondo “multipolare“, la Cina e i paesi in via di sviluppo chiedono un ordine mondiale “multilaterale” radicato nella Carta delle Nazioni Unite, nonché forti sistemi di sviluppo e commercio regionale (BRICS, SCO, CELAC, ecc.). 

Un nuovo internazionalismo che può essere creato – evitando un periodo di balcanizzazione globale – solo costruendo sulle fondamenta del rispetto reciproco e della forza dei sistemi commerciali regionali, delle organizzazioni di sicurezza e delle formazioni politiche. 

Indicatori di questo nuovo atteggiamento sono presenti nelle discussioni in corso nel Sud del mondo sulla guerra in Ucraina e si riflettono nella GSI e nel piano cinese per la pace in Ucraina.

Un partner strategico della Cina di Xi in questo percorso è destinato a essere il Brasile di Lula, che potrebbe raggruppare una serie di paesi latino-americani (di una regione tradizionalmente sotto l’influenza degli Stati Uniti, in linea con la “dottrina Monroe” del 1823 per svolgere sulla scena globale quel ruolo di mediazione/accompagnamento di un nuovo ordine globale per il quale l’Unione Europea ha completamente abdicato. 

Il 26-31 marzo Lula avrebbe dovuto essere a Pechino con una foltissima delegazione di ministri, governatori, deputati, senatori e oltre 250 imprenditori (molti dei quali dell’agrobusiness e dell’allevamento da carne), ma ha rinviato il viaggio per un attacco di polmonite.

In ogni caso, Lula ha confermato la volontà di mantenere ottimi rapporti con la Cina. 

D’altra parte le relazioni economiche tra i due paesi si sono notevolmente intensificate negli ultimi anni e la Cina è già il più grande mercato di esportazione del Brasile, con un commercio bilaterale che ha superato i 155 miliardi di dollari nel 2022 (contro gli 88 con gli USA), con il Brasile che principalmente esporta in Cina prodotti come soia, ferro e suoi derivati, petroliferi e carni bovine

Il Brasile è oggi il maggior destinatario di investimenti cinesi in America Latina, trainati dalla spesa per linee di trasmissione elettrica ad alta tensione e per l’estrazione di petrolio.

Lula (come Xi) ha bisogno di contare su un’economia in buona salute per riprendere quelle politiche sociali e di attenuazione della povertà che avevano rappresentato la parte più significativa dei suoi due precedenti mandati (2003-2011). 

Politiche interne completamente abbandonate, come quelle contro la deforestazione in Amazzonia e nel Cerrado, e il cambiamento climatico, con la disastrosa presidenza di Bolsonaro.

È quindi possibile un asse Brasile-Cina, attorno al quale possano aggregarsi altri paesi come Sudafrica e Colombia o dell’Africa (Nigeria), Medio Oriente (Turchia, Iran e paesi del Golfo), dell’Asia (Indonesia, Malaysia, Filippine e Vietnam) e delle isole del Pacifico.

Gli Stati Uniti rimangono un paese potente, ma non hanno fatto (e sembrano non volerlo fare) i conti con gli immensi cambiamenti in atto nell’ordine mondiale.

Persiste la loro ricerca del primato globale (il progetto suprematista neoconservatore ideato da Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Colin Powell, Paul Wolfowitz, Scooter Libby e Zalmay Khalilzad, secondo cui non ci deve più essere una potenza straniera che possa competere con gli Stati Uniti), di essere il poliziotto del mondo, e come ha scritto lo storico Daniel Bessner sulla rivista Harper’s Magazine l’anno scorso, decenni di egemonia militare globale statunitense hanno conferito agli Stati Uniti “una cultura politica militarizzata, razzismo e xenofobia, forze di polizia armate fino ai denti con armi di qualità, un budget per la difesa gonfio e guerre senza fine”. 

Il potere degli Stati Uniti sta incontrando una resistenza crescente in tutto il mondo e Washington desidera contrastarla quasi tutta, ovunque, continuando a confondere la proiezione del potere degli Stati Uniti con gli interessi americani, cercando ancora di sopraffare i rivali ed evitare di frenare le loro ambizioni.

I risultati sono stati abbastanza disastrosi durante il “momento unipolare” degli Stati Uniti.

Ora, contro le grandi potenze armate di armi nucleari come Russia e Cina, potrebbero essere molto peggiori e mettere a rischio la vita umana sul pianeta.

Inquadrando la guerra in Ucraina come una lotta tra democrazia e autocrazia, Biden mostra che gli Stati Uniti non hanno imparato la lezione dell’Iraq. 

Dovrebbero temperare la loro fede nel loro “destino manifesto“ e finalmente riconoscere che gli Stati Uniti non sono altro che un altro paese tra i 193 Stati membri delle Nazioni Unite.

Nel nuovo mondo multipolare e multilaterale, le grandi potenze, a cominciare dagli Stati Uniti, o troveranno modi per adattarsi e cooperare per il bene comune dell’umanità e un futuro condiviso, o rischieranno la marginalizzazione e un innalzamento della conflittualità, polarizzazione e frammentazione politica interna.

Quello che appare certo è che la Cina sta cercando di dare una risposta ai cambiamenti del mondo, dei nostri tempi e dei processi storici in atto. I suoi detrattori sostengono che sia tutta propaganda ad esclusivo vantaggio della Cina, del governo comunista e del suo leader. 

La Cina da sola non è in grado di bloccare e invertire la spinta verso una nuova conflittualità globale, anche per il carattere autoritario del proprio regime e per il mantenimento di rapporti anche con regimi di dubbia legittimità (una scelta conseguente al rifiuto di ingerenze nelle vicende interne dei singoli paesi, ma che rischia di essere vista, come ha notato a ragione Franco Ferrari, come una difesa assoluta dello status quo). 

In ogni caso, solo il tempo dirà se e come la Cina di Xi sarà davvero in grado di promuovere praticamente un nuovo ordine internazionale alternativo “democratico” (“l’altro mondo possibile” di cui aveva parlato il movimento per la giustizia globale all’inizio del millennio?), e un nuovo tipo di relazioni con il Sud globale.

 * da Transform Italia

Ad esempio, il 3 novembre 2022 l’Assemblea Generale ha espresso una forte condanna per l’embargo degli Stati Uniti su Cuba (185 paesi hanno votato a favore di una risoluzione che condanna l’embargo, con il voto contrario di USA e Israele e l’astensione di Brasile e Ucraina).

È stata la trentesima volta che l’Assemblea ha votato per condannare la politica statunitense in vigore dal 1960, dopo la rivoluzione cubana guidata da Fidel Castro e la nazionalizzazione delle proprietà di cittadini e aziende statunitensi.

È bene ricordare che la Carta sancisce il principio della sovrana uguaglianza di tutte le nazioni che ne fanno parte.

Le vere sfide all’ordine delle relazioni tra Stati, quindi, vanno ricercate nelle prove di forza che mettono a repentaglio questo principio di equità.

Ne sono esempi l’ordine orientato alla supremazia di un’unica superpotenza, la ricerca dell’egemonia e la politica di potenza.

A ottobre 2022, il Consiglio per i diritti umani dell’ONU ha adottato un progetto di risoluzione contro il razzismo, la xenofobia e l’intolleranza.

La risoluzione descriveva il colonialismo e la schiavitù come «gravi violazioni del diritto internazionale».

Ha chiesto agli ex Stati coloniali e mercanti di schiavi, tra le altre cose, di pagare risarcimenti «proporzionati ai danni che hanno commesso».

In tutto hanno votato a favore 32 paesi su 47, per lo più latinoamericani, africani e asiatici.

Nove paesi hanno votato contro la risoluzione: Repubblica Ceca, Francia, Germania, Montenegro, Paesi Bassi, Polonia, Ucraina, Regno Unito e Stati Uniti.

Il voto contrario dei paesi euro-americani evidenzia che non sono ancora disponibili a riconoscere il ruolo che razzismo, colonialismo e imperialismo hanno giocato nel plasmare l’attuale ordine globale.

Doversi impegnare in un’azione riparatrice per questi crimini del passato potrebbe minacciare la posizione privilegiata dell’Occidente sulla scena globale.

Il rifiuto di riflettere in modo critico sulla propria storia e di riconoscere il razzismo e la xenofobia di oggi come eredità del colonialismo e dell’imperialismo è una scelta politica e morale miope.

Senza affrontare la responsabilità diretta di questa storia, non sarà possibile pacificare l’odierna società globale; senza una radicale messa in discussione del pensiero occidentale ereditato dal passato, non sarà possibile affrontare i problemi esistenziali del futuro come la crisi climatico-ambientale.

Tra l’altro questo rifiuto offre l’opportunità ai governi dei paesi del sud del mondo (molti dei quali effettivamente violano i diritti umani e le libertà fondamentali dei loro cittadini) di accusare i paesi occidentali di ipocrisia e di utilizzare la retorica dei diritti umani come mero pretesto per intervenire nei loro affari interni, diffamarli e ricattarli di fronte alle opinioni pubbliche nazionali e globali.

Si tratta di un ordine internazionale a guida USA che è venuto consolidandosi a partire dalla seconda metà del XX secolo sulla scia prima della dissoluzione degli imperi britannico, francese e di altri paesi europei, e poi del collasso dell’Unione Sovietica nel 1991.

È bene ricordare che 20 anni fa l’America di Bush jr invase l’Iraq (così come un anno fa Putin ha invaso l’Ucraina), innescando un’opposizione globale senza precedenti, mentre calpestava il diritto internazionale, il multilateralismo e le “norme” in cui ora i funzionari statunitensi si avvolgono in modo poco convincente.

Se gli Stati Uniti erano la potenza globale indiscussa, si erano improvvisamente rivelati profondamente irresponsabili e pericolosi, contribuendo poi a destabilizzare anche Libia, Siria e Yemen.

Il fallimento ventennale di Washington in Afghanistan ha lasciato il presidente degli Stati Uniti Joe Biden umiliato quando ha ritirato precipitosamente tutte le truppe statunitensi, dichiarando nell’agosto 2021 che stava ponendo fine agli sforzi statunitensi “per rifare altri paesi“.

Un punto ampiamente ribadito da Xi nel corso dell’incontro on-line del 15 marzo “Il Partito Comunista Cinese in dialogo con i partiti politici del mondo” organizzato dal PCC, al quale erano presenti quasi 500 partiti di diverso orientamento di tutti i continenti.

“La questione di Taiwan è il fondamento delle basi politiche delle relazioni USA-Cina e la prima linea rossa che non deve essere oltrepassata nelle relazioni USA-Cina“, ha affermato il neoministro degli Esteri cinese Qin Gang.

La costituzione della Repubblica Popolare di Cina rivendica Taiwan come una parte “sacra” della Cina.

Joe Biden ha ripetutamente promesso di rispondere militarmente se la Cina tenta di prendere Taiwan con la forza, un allontanamento dalla retorica più cauta delle precedenti amministrazioni.

Secondo Qin Gang il conflitto sembra essere stato guidato da “una mano invisibile… che usa la crisi ucraina per servire determinati programmi geopolitici“, spingendo per il protrarsi e l’escalation della guerra.

L’identificazione della Cina come “avversario strategico” è uno dei pochi punti su cui concordano sia Democratici sia Repubblicani che infatti sono impegnati in un rilancio continuo su chi è più fermo nei confronti di Pechino.

La stessa campagna presidenziale del 2024 proseguirà su questo binario.

In queste condizioni, alcuni osservatori auspicano che si possa stabilire almeno un terreno di “rivalità cooperativa” tra USA e Cina per affrontare alcuni temi che riguardano il bene comune globale (una risposta efficace al cambiamento climatico, alla perdita di biodiversità, alle pandemie e ad altre sfide globali).

Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali presumono ancora, come oltre 20 anni fa nel pieno del “momento unipolare” con le invasioni di Afghanistan e Iraq (vedi nostro articolo), che una schiacciante superiorità tecnologico-militare sostenuta da un apparente super-potente military-industrial complex sia tutto ciò di cui hanno bisogno per controllare una nazione lontana e la sua popolazione.

L’industria bellica dei paesi occidentali costituisce una sorta di global military-industrial complex, cioè una formidabile concentrazione di interessi capace di esercitare una influenza determinante sulla politica internazionale, come evoluzione di quell’oligopolio privato nazionale intrecciato all’establishment militare governativo sorto negli USA nel corso della Seconda Guerra Mondiale, consolidatosi con la guerra di Corea (fino ad allora gli USA non avevano avuto truppe permanentemente di stanza nei Paesi alleati) e successivamente criticato dal sociologo Charles Wright Mills negli anni ’50 e dal presidente Dwight D. Eisenhower (nel farewell address del 17 gennaio 1961): “Dobbiamo stare in guardia contro l’acquisizione di un’ingiustificata influenza, sia cercata sia non cercata, da parte del complesso industriale militare [military-industrial complex].

Il potenziale per il disastroso aumento di un potere errato esiste e persisterà“.

Purtroppo gli eventi dei decenni successivi hanno dimostrato che questa formidabile concentrazione di interessi è stata in grado di dare vita ad una forma di “capitalismo politico” che prospera grazie ad una militarizzazione permanente, condizionando fortemente la politica estera e interna americana e occidentale.

Per salvaguardare “l’interesse nazionale” e prevenire la perdita di una superiorità tecnologica ritenuta il cardine del rapporto tra difesa, tecnologia e organizzazione, il Pentagono è sempre intervenuto pesantemente sui processi economici, orientando con miliardi di dollari di appalti la capacità innovativa e produttiva di una parte rilevante delle grandi corporations.

Gran parte del cambiamento tecnologico è avvenuto e continua ad avvenire nell’orbita militare. L’informatica, l’aeronautica e l’attività spaziale sono gli epicentri di questa sperimentazione.

Lo sviluppo del capitalismo digitale nell’ultimo decennio è una continuazione della precedente produzione militare ed è congruente con l’uso delle armi all’interno del Paese.

I grandi fornitori del Pentagono approfittano della protezione del bilancio statale per produrre dispositivi venti volte più costosi dei loro equivalenti civili.

Operano con grosse somme in un settore autonomo dalle restrizioni concorrenziali del mercato.

Il compito della politica estera USA è diventato quello di usare cronicamente il potere militare (il cosiddetto hard power) come “garante dell’ordine mondiale” e combattere ogni tipo di guerra (arrivando a teorizzare la “guerra infinita”, una sorta di orwelliana “guerra permanente”), senza essere in grado di vincerle o di mettervi fine in modo onorevole.

Ciò è in gran parte dovuto al fatto che il Pentagono ha finora impiegato il suo ampio budget nell’acquisto di armi ad alta tecnologia sempre più complesse e costose (sulle quali gli appaltatori industriali hanno grandi margini di profitto), progettate per combattere guerre contro Unione Sovietica/Russia e Cina, piuttosto che in armi più economiche e più semplici, e nell’addestramento delle truppe nelle tattiche necessarie per le guerre anti-insurrezione e anti-guerriglia che di fatto gli Stati Uniti hanno combattuto (in Vietnam, Afghanistan e nel Medio Oriente).

Ad esempio, dopo le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, con grave ritardo le forze militari sul terreno sono state dotate di veicoli corazzati e di giubbotti antiproiettile.

Il Dipartimento della Difesa americano è il più grande datore di lavoro del mondo, impiegando 3,2 milioni di persone, di cui 1,3 milioni di militari, donne e uomini in servizio attivo, 742 mila civili, 826 mila nella Guardia Nazionale e nelle forze di riserva. Ha centinaia di migliaia di edifici e strutture sparse in oltre 5 mila siti, beni stimati in oltre 2.400 miliardi di dollari, circa 800 basi militari con 173.000 soldati dispiegati in 159 paesi, e gestisce un budget che per il 2023 è di circa 858 miliardi di dollari e rappresenta il 40% del totale mondiale, più dei 15 successivi paesi messi insieme.

Secondo un rapporto della Tufts University, “Introducing the Military Intervention Project: A new Dataset on U.S. Military Interventions, 1776-2019“, gli Stati Uniti hanno intrapreso quasi 400 interventi militari a livello globale tra quegli anni, il 34% dei quali in America Latina e nei Caraibi, il 23% in Asia orientale e Pacifico, il 14% in Medio Oriente e Nord Africa e il 13% in Europa.

L’egemonia del dollaro consente agli USA, che rappresentano poco più del 20% del PIL mondiale, di finanziare un deficit persistente della bilancia commerciale con l’afflusso di capitali dall’estero: in sostanza, gli americani vivono al di sopra dei propri mezzi, acquistando sui mercati internazionali più beni e servizi di quelli che sono in grado di vendere, cedendo in cambio titoli (il debito ha raggiunto i 31,4 trilioni di dollari).

Nella divisione internazionale del lavoro, gli USA hanno il privilegio di potersi specializzare nella produzione di debiti, anche se a questo privilegio corrisponde il pericolo di sacrificare gli interessi industriali (in ogni caso protetti da protezionismo, sussidi e regole Buy America) e commerciali agli interessi finanziari.

Mentre da anni gli USA accusano Pechino di creare deliberatamente una “trappola del debito” attraverso i progetti della BRI, la Cina ha speso 240 miliardi di dollari per evitare che 22 paesi in via di sviluppo in difficoltà debitorie andassero in default tra il 2008 e il 2021, con un importo che è aumentato vertiginosamente negli ultimi anni poiché altri hanno faticato a rimborsare i prestiti spesi per costruire infrastrutture BRI.

Quasi l’80% dei prestiti di salvataggio è stato concesso tra il 2016 e il 2021, principalmente a paesi a medio reddito tra cui Argentina, Egitto, Mongolia, Sri Lanka, Suriname e Pakistan, secondo il rapporto dei ricercatori di Banca Mondiale, Harvard Kennedy School, AidData e Kiel Institute for the World Economy. Pechino è entrata nel rischioso business dei prestiti internazionali di salvataggio per cercare di salvare le proprie banche.

Nel 2022, il valore aggiunto industriale totale e il valore totale del commercio di beni della Cina hanno entrambi superato i 5,81 trilioni di dollari.

Il valore aggiunto dell’industria manifatturiera cinese rappresenta quasi il 30% del mercato globale e la quota di mercato internazionale delle esportazioni di merci è vicina al 15%.

Tuttavia, la forza della Cina è costruita su una base di tecnologie di base straniere e la guerra commerciale lanciata dagli Stati Uniti contro la Cina potrebbe avere un enorme impatto negativo sulla catena del valore globale, con la Cina come punto di produzione e assemblaggio e gli Stati Uniti come mercato e potrebbe influenzare la posizione della Cina nella catena di approvvigionamento globale.

Per questo il governo cinese spinge le aziende a cogliere l’opportunità della ristrutturazione della catena industriale globale per investire all’estero e accelerare il ritmo dell’internazionalizzazione.

La Cina ha bisogno di più multinazionali con i propri marchi e tecnologie di base indipendenti, in modo che abbiano più voce in capitolo nel modello delle catene del valore globali.

Un esempio di questa tendenza è la disputa in corso tra i Paesi del G20, molti dei quali si sono rifiutati di schierarsi contro Mosca nonostante le pressioni degli Stati Uniti e dei suoi alleati europei per condannare fermamente la Russia per la guerra in Ucraina.

Tra gli analisti si parla di una trasformazione della regione e di una potenziale espulsione degli Stati Uniti dalla regione mediorientale da parte della Cina, diventata il mediatore del riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita e leader di un blocco (politico, economico-finanziario e militare) euroasiatico e globale in formazione, alternativo a quello occidentale.

Il successo attuale della Cina mette in luce i difetti della politica di sicurezza nazionale americana, in particolare la politica del non riconoscimento e delle sanzioni, insieme alla dipendenza dall’uso della forza militare per ottenere guadagni nella politica internazionale.

In precedenza Pechino era stata attenta a evitare coinvolgimenti in Medio Oriente.

Ma i suoi fiorenti interessi economici hanno reso necessario assumere anche un ruolo diplomatico.

La regione è importante per la Belt and Road Initiative cinese; il governo cinese ha dovuto garantire, ad esempio, che i suoi investimenti nel settore energetico saudita non fossero minacciati dai missili degli Houthi dello Yemen.

Inoltre, la Cina ha costantemente ampliato la propria impronta economica in Iran ed è interessata a sostenere il piano di Mosca per sviluppare un corridoio di transito attraverso l’Iran che consentirebbe al commercio russo di raggiungere i mercati globali senza utilizzare il Canale di Suez.

Lo sviluppo di questo corridoio consentirebbe anche alla Cina di aggirare lo Stretto di Malacca di fronte alla formidabile armata navale e missilistica che Stati Uniti e alleati stanno costruendo.

Per portare avanti queste priorità strategiche, Pechino si sta ora preparando a sfidare Washington per l’influenza in Medio Oriente, una regione che gli Stati Uniti dominano sin dalla Seconda Guerra Mondiale e che i pianificatori statunitensi del secondo dopoguerra consideravano l’area strategicamente più importante del mondo. Washington non può più semplicemente esigere che i suoi alleati arabi si separino dalla Cina e si uniscano dietro la sua leadership per combattere l’Iran.

Questo approccio è obsoleto e non è al passo con le attuali esigenze dei suoi alleati.

Nel suo discorso di apertura al congresso delle “Due Sessioni”, Xi Jinping ha denunciato quella che ha definito la “soppressione” della Cina guidata dagli Stati Uniti.

“I paesi occidentali guidati dagli Stati Uniti hanno implementato il contenimento, l’accerchiamento e la repressione della Cina a tutto tondo, il che ha comportato gravi sfide senza precedenti per lo sviluppo del nostro paese“.

La Russia è una fonte di energia a basso costo e sostiene l’ampliamento del ruolo della Cina nell’Asia centrale (in Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan).

È stata anche una fonte di armi: tra il 2017 e il 2021, l’81% delle importazioni di armi cinesi proveniva dalla Russia, secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI).

Ancora più importante, la Russia è un alleato nel contrastare gli Stati Uniti.

Xi ha fatto visita a Putin a Mosca il 20-22 marzo.

Xi e Putin parlano entrambi di un mondo “multipolare“, che secondo loro è un rifiuto dei tentativi degli Stati Uniti di dominare l’ordine globale.

Cina e Russia rifiutano l’idea che gli affari interni siano influenzati dalle norme internazionali, promuovendo invece la sovranità territoriale in tutto, dai diritti umani all’accesso a Internet.

Sulla questione Ucraina, la Cina non condivide la via militare scelta dalla Russia.

Sebbene Xi e Putin hanno brindato all’”approfondimento del partenariato russo-cinese” e firmato 14 accordi, la retorica dell’alleanza “sconfinata, senza vincoli e illimitata” usata per descrivere la relazione sino-russa è scomparsa dai discorsi ufficiali cinesi.

Verranno ampliati i collegamenti stradali e ferroviari, e Putin ha garantito che la Russia è “pronta a soddisfare la crescente domanda di energia” della Cina, assicurando che sono stati concordati “praticamente tutti i parametri” del gasdotto Power to Siberia 2 che trasporterà gas dalla Siberia alla Cina (ma un accordo non è stato siglato e la Cina può sempre accedere a gas e petrolio di paesi “amici” come Arabia Saudita, Qatar e Iran).

Il volume di scambi tra i due paesi, che ha già raggiunto cifre record lo scorso anno, dovrebbe salire nei prossimi mesi fino a 200 miliardi di dollari.

Ma se Mosca non ha alternative a questa torsione, la Cina ritiene che con la guerra in Ucraina la Russia l’abbia costretta in una posizione difficile con l’Occidente, proprio mentre sta cercando di riprendersi dalla propria recessione economica.

Va sempre ricordato che il Partito Comunista cinese basa tuttora la propria legittimità sulla promessa di una duratura crescita economica e dunque del benessere dei suoi cittadini.

Nonostante un aumento dei consumi interni e un aumento del 2,4% della produzione industriale nei primi mesi del 2023, la Cina è ancora alle prese con una disoccupazione giovanile al 18% e un debito totale pari al 273,2% del PIL.

La Cina di oggi ha ancora bisogno degli Stati Uniti e della UE per perseguire il “sogno” di “una società moderatamente prospera” e di “un socialismo con caratteristiche cinesi”, come nei prossimi anni avrà molto bisogno di un sistema globale degli scambi relativamente aperto.

Non a caso, le dichiarazioni di Xi e dei suoi portavoce nei consessi internazionali come l’Assemblea dell’ONU, G20 o Davos difendono la globalizzazione, il libero scambio, nonché la giustizia nel mondo.

Nella dichiarazione ufficiale congiunta del loro incontro del 21 marzo, Xi e Putin hanno affermato: “La parte russa accoglie con favore la volontà della Cina di svolgere un ruolo positivo per la soluzione politica e diplomatica della crisi ucraina e accoglie con favore le proposte costruttive contenute nella posizione cinese sulla soluzione politica della crisi ucraina”.

Zelensky ha detto di aver invitato la Cina al dialogo e di aspettare una risposta.

I leader occidentali hanno in gran parte respinto un piano di pace per l’Ucraina presentato dal governo cinese, sostenendo che Pechino non ha la credibilità internazionale per agire come mediatore nel conflitto Russia-Ucraina, non essendo “stata in grado di condannare l’invasione illegale dell’Ucraina” (come ha detto Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato).

In una intervista alla CNN, subito dopo la pubblicazione del documento, il consigliere per la Sicurezza Nazionale statunitense Jake Sullivan ha respinto gran parte del contenuto della proposta, dicendo che avrebbe potuto fermarsi “al punto uno”.

Il documento, per il quale l’Ucraina non è stata consultata, è stato accolto con cautela da Kiev, ma è stato aspramente criticato da funzionari statunitensi e da analisti occidentali che hanno sottolineato i crescenti legami tra Cina e Russia, sostenendo che privilegia gli interessi della Cina, contraria al perdurare indefinito della campagna militare, a scapito di quelli di Ucraina e Russia.

Da un lato, Stati Uniti e Occidente attaccano le relazioni amichevoli della Cina con la Russia, mentre dall’altro chiedono alla Cina di utilizzare queste relazioni per svolgere il ruolo che si aspettano nella crisi ucraina, esercitando pressioni sulla Russia.

La Cina sostiene di essere neutrale, mentre il governo degli Stati Uniti l’accusa (da mesi) di essere pronta a fornire armi alla Russia (a cominciare da grandi quantità di droni d’attacco), un’accusa sdegnosamente smentita da Pechino.

Inoltre, il 23 febbraio la Cina si è astenuta – per la quarta volta – nel voto di una risoluzione all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in cui si chiedeva il ritiro immediato delle forze russe dall’Ucraina.

La Cina e gli altri 38 paesi che non hanno sostenuto la risoluzione rappresentavano circa il 62% della popolazione del Sud globale.

Facendo ricorso solo a una piccola porzione del proprio colossale bilancio militare e utilizzando militari e civili ucraini come volontari sacrificabili di una “guerra per procura”, gli Stati Uniti sono in grado di deteriorare pesantemente le forze di uno dei loro principali avversari in campo militare, generando peraltro un’impennata negli utili e nelle vendite dell’industria militare.

Inoltre, bloccando il flusso di gas e petrolio russo verso l’Europa, hanno messo in ginocchio i settori industriali della Germania, uno dei principali competitor economici degli USA, indebolendo anche l’intera Unione Europea.

Questo in considerazione del fatto che “tutti i paesi sono uguali, indipendentemente dalle loro dimensioni, forza o ricchezza” (è il concetto di “democratizzazione delle relazioni internazionali” che Pechino sostiene da decenni).

Al contempo viene indicata la necessità di “un’applicazione identica e uniforme del diritto internazionale” e il rifiuto dell’uso di doppi standard.

Questa parte del documento è diretta all’Occidente, contro il suo unilateralismo, egemonia e continuo utilizzo di “doppi standard”.

Il documento mette in guardia contro “l’espansione dei blocchi militari“, un apparente riferimento alla NATO, e esorta tutte le parti a “evitare di alimentare il fuoco e aggravare le tensioni“, rispecchiando il linguaggio che i funzionari di Pechino hanno ripetutamente utilizzato per criticare il sostegno degli Stati Uniti all’Ucraina. Pechino sottolinea che la sicurezza regionale “non possa essere garantita rafforzando ed espandendo i blocchi militari”, ma tenendo “in debita considerazione i legittimi interessi e le preoccupazioni di sicurezza di tutti i paesi”.

È questo il concetto di “sicurezza indivisibile”, un concetto certamente non nuovo, essendo incluso negli accordi di Helsinki del 1975, e caro sia a Mosca sia a Pechino.

Si sottolinea come “i conflitti e le guerre non giovino a nessuno” e pertanto tutte le parti dovrebbero mantenere la moderazione, non aggiungere benzina sul fuoco e prevenire un’ulteriore escalation, lanciando un forte appello affinché si favorisca la ripresa del dialogo diretto tra la Russia e l’Ucraina.

Questo punto, in particolare, sembra mettere i due paesi sullo stesso piano, dimenticando il fatto che uno è l’aggressore e l’altro è l’aggredito, che l’uno ha violato i principi base del diritto internazionale e della Carta dell’ONU.

Di fatto, la GSI era stata lanciata nell’aprile 2022 da Xi Jinping, in occasione del Boao Forum for Asia (la Davos asiatica), il quale aveva auspicato la costituzione di un ordine internazionale alternativo a quello istituito a Bretton Woods al termine del secondo conflitto mondiale e guidato dagli Stati Uniti d’America.

“L’essenza di questa nuova visione della sicurezza è sostenere un concetto di sicurezza comune, rispettando e salvaguardando la sicurezza di ogni paese; un approccio olistico, mantenendo la sicurezza nei domini tradizionali e non tradizionali e migliorando la governance della sicurezza in modo coordinato; un impegno alla cooperazione, portando sicurezza attraverso il dialogo politico e il negoziato pacifico; e ricerca di una sicurezza sostenibile, risolvendo i conflitti attraverso lo sviluppo ed eliminando il terreno fertile per l’insicurezza. Riteniamo che la sicurezza sarà saldamente stabilita e sostenibile solo quando sarà sostenuta dalla moralità, dalla giustizia e dalle idee giuste. Crediamo che tutti i paesi, grandi o piccoli, forti o deboli, ricchi o poveri, siano membri uguali della comunità internazionale. I loro affari interni non tollerano interferenze esterne, la loro sovranità e dignità devono essere rispettate e il loro diritto di scegliere autonomamente sistemi sociali e percorsi di sviluppo deve essere rispettato. L’indipendenza e l’uguaglianza sovrane devono essere sostenute e dovrebbero essere compiuti sforzi affinché tutti i paesi godano dell’uguaglianza in termini di diritti, regole e opportunità. L’umanità è una comunità di sicurezza indivisibile. La sicurezza di un paese non dovrebbe andare a scapito di quella degli altri. Riteniamo che tutti i paesi siano uguali in termini di interessi di sicurezza. Le preoccupazioni di sicurezza legittime e ragionevoli di tutti i paesi dovrebbero essere prese sul serio e affrontate adeguatamente, non costantemente ignorate o contestate sistematicamente. Qualsiasi paese, pur perseguendo la propria sicurezza, dovrebbe tener conto delle ragionevoli preoccupazioni di sicurezza degli altri. Sosteniamo il principio della sicurezza indivisibile, sostenendo l’indivisibilità tra sicurezza individuale e sicurezza comune, tra sicurezza tradizionale e sicurezza non tradizionale, tra diritti e obblighi di sicurezza e tra sicurezza e sviluppo. Ci dovrebbe essere un’architettura di sicurezza equilibrata, efficace e sostenibile, in modo da realizzare la sicurezza universale e la sicurezza comune. La guerra e le sanzioni non sono una soluzione fondamentale alle controversie; solo il dialogo e la consultazione sono efficaci per risolvere le divergenze. Chiediamo ai paesi di rafforzare la comunicazione strategica, rafforzare la fiducia reciproca nella sicurezza, attenuare le tensioni, gestire le differenze ed eliminare le cause profonde delle crisi. I Paesi più importanti devono difendere la giustizia, adempiere alle proprie responsabilità, sostenere la consultazione su un piano di parità e facilitare i colloqui per la pace, svolgere buoni uffici e mediare alla luce dei bisogni e della volontà dei Paesi interessati. La comunità internazionale dovrebbe sostenere tutti gli sforzi che favoriscono la risoluzione pacifica delle crisi e incoraggiare le parti in conflitto a creare fiducia, risolvere le controversie e promuovere la sicurezza attraverso il dialogo. Abusare delle sanzioni unilaterali e della giurisdizione a braccio lungo non risolve un problema, ma crea solo maggiori difficoltà e complicazioni”.

Appena eletto Lula ha proclamato che “il Brasile è tornato” e che si impegnerà per riparare la reputazione all’estero del suo paese dopo l’era di antagonismo e isolamento di Jair Bolsonaro.

Il nuovo governo brasiliano si è associato alla condanna dell’invasione russa all’ONU, ma ha seccamente respinto le pressioni USA e tedesche per fornire armi all’Ucraina.

Lula ha dichiarato che non andrà né a Mosca né a Kiev fino a che continuerà il conflitto.

Lula ha da tempo lanciato l’idea della creazione di un gruppo di paesi neutrali ed equidistanti, che possano fare da mediatori per la pace.

Già durante la campagna elettorale e poi dopo il suo insediamento, attraverso il nuovo ministro degli esteri, ha rifiutato la lettura manichea del conflitto sulla quale sono allineati la quasi totalità dei mezzi d’informazione dei paesi NATO.

Basta pensare che nel 2023 ricorre mezzo secolo dal colpo di Stato in Uruguay (27 giugno 1973) e dal golpe fascista di Augusto Pinochet e dall’assassinio di Salvador Allende in Cile (11 settembre 1973).

Un periodo, quello degli anni ’70 del secolo scorso, in cui il continente si riempì di governi militari, sotto il ferreo controllo degli Stati Uniti.

“Vent’anni fa, la crescita della Cina era visibile, ma ora è senza dubbio una superpotenza“, ha detto il ministro degli Esteri brasiliano Mauro Vieira. “In meno di 20 anni, la Cina è diventata il principale partner commerciale del Brasile, e non solo del Brasile, ma di molti paesi latinoamericani. Quindi questo ha cambiato molto lo scenario e la geopolitica è cambiata”.

Questo anche se è probabile che Lula cercherà, per quanto possibile, di bilanciare il rapporto con la Cina con quello con gli USA nel breve-medio periodo, seguendo la strategia legittima di mettere le due maggiori potenze economiche del mondo l’una contro l’altra per cercare di rafforzare i legami commerciali e ottenere maggiori flussi di investimenti.

Lula andrà in Cina per cercare di ottenere più concessioni anche dagli Stati Uniti e viceversa.

Lula ha insistito sul fatto che non prende posizione nella competizione rancorosa tra Washington e Pechino. “Non ho intenzione di entrare in una guerra fredda con nessuno“, ha detto il mese scorso, affermando di volere relazioni “splendide” con entrambi. Una posizione confermata da Vieira: “Non abbiamo un allineamento automatico su entrambi i lati. Abbiamo invece ottimi rapporti con gli Stati Uniti, infatti il prossimo anno festeggeremo i 200 anni di relazioni diplomatiche con gli ambasciatori in ogni Paese. E abbiamo rapporti importanti anche con la Cina. Ciò che ci guida è l’interesse nazionale in un quadro di multilateralismo, di diritto internazionale. Gli allineamenti automatici non portano risultati positivi e vantaggiosi per l’interesse nazionale. Ci possono essere perdite quando c’è un allineamento automatico e ingiustificabile. In effetti, come negli ultimi quattro anni”.

L’intervento globale degli Stati Uniti viene giustificato sulla base del mito dell’“eccezionalismo americano”, ossia del fatto che gli Stati Uniti si sono auto-assegnati il “destino speciale” (che si dice sia voluto dalla Provvidenza divina e per questo considerato “manifesto” e plasmato da ideali universali) di trasformare il mondo promuovendo la democrazia attraverso la guerra (insieme alla tortura ad Abu Ghraib e altrove, all’eliminazione fisica dei nemici con bombardamenti di aerei e droni e all’incarcerazione senza processi nel centro di detenzione di Guantánamo Bay dei sospettati).

La dottrina dell’eccezionalismo, forgiata nel corso della conquista del territorio continentale che va dalla costa orientale atlantica a quella occidentale pacifica, condotta con continue guerre contro i popoli nativi, gli inglesi, gli spagnoli e i messicani, sostiene che gli Stati Uniti sono intrinsecamente diversi e superiori alle altre nazioni.

Questa superiorità significa che gli Stati Uniti sono soggetti a uno standard diverso (mettono al primo posto il proprio interesse nazionale, si allontanano dai trattati e dalle organizzazioni internazionali, ponendo il proprio diritto interno al di sopra del diritto internazionale).

Si dice che le sue azioni siano benevole e al di sopra del diritto internazionale, e gli Stati Uniti hanno il diritto di intervenire a loro piacimento in tutto il mondo, inclusa la costruzione di una rete globale di basi militari e guarnigioni che non permetterebbero mai a un altro potere di avere.

Ma, “eccezionalismo”, “internazionalismo” e “leadership globale“, altro non sono stati e sono che degli eufemismi escogitati da politici, giornalisti e storici per mascherare ambizioni e comportamenti imperiali dell’America.

 

I neoconservatori, basandosi sulla convinzione di una superiorità politica e anche morale (“la più grande democrazia del mondo“) che va affermata e difesa, identificano gli interessi americani in modo espansivo, sostenendo che gli Stati Uniti possano e debbano applicare il proprio potere politico-economico e militare – unilateralmente e universalmente – per preservare la loro posizione dominante, proteggere i loro interessi e promuovere i loro ideali conservatori in tutto e su tutto il mondo.

Molte di queste posizioni neocon – a cominciare dalla visione della Cina come “avversario strategico” – sono ormai condivise sia dai Repubblicani sia dai Democratici sia dall’establishment che gestisce la politica estera americana nell’amministrazione Biden.

Le maggiori differenze riguardano l’enfasi retorica. Biden parla di multilateralismo in relazione alla coalizione occidentale delle “democrazie”, ma nei fatti si tratta di un multilateralismo ristretto (ai paesi a maggioranza di pelle bianca, oltre a Corea del Sud e Giappone), sotto lo stretto dominio americano e gestito attraverso la NATO e altre alleanze a guida USA. L’Unione Europea è stata e si è sacrificata sul piano politico ed economico sull’altare dell’obiettivo di indebolire la Russia (che prima della guerra in Ucraina era il suo principale fornitore di combustibili fossili – gas e petrolio – e altre materie prime a basso costo, ora in parte sostituiti dal gas liquefatto statunitense comprato a prezzi ben più alti), cercando anche di spingerla contro la Cina (il principale partner economico del blocco).

Biden usa la retorica dei diritti umani, ma in modo molto selettivo per quanto riguarda i paesi target, mentre continua ad adottare la politica di Trump dei respingimenti in materia di immigrazione e di accoglienza dei richiedenti asilo.

Da questo punto di vista, è emblematico il caso degli Stati Uniti.

Come dimostra la frustrazione dell’amministrazione Biden, le forze politiche che animano la gigantesca macchina - Stato sono diventate faziose e incoerenti all’interno di una battaglia tra il pluralismo della liberal-democrazia e il fascismo autoritario proposto dal Partito Repubblicano dominato da Trump.

Potrebbe essere solo questione di tempo prima che quell’incoerenza politica cominci a colpire le maggiori leve del potere economico e militare.

Ora che gli Stati Uniti sono entrati nel lungo ciclo elettorale che porta al 2024 dovremmo aspettarci che le disfunzioni diventino ancora più evidenti. L’enigma che devono affrontare gli alleati dell’America – a cominciare dagli europei che fanno parte della NATO, un’alleanza difensiva rilanciata dagli USA come strumento per restaurare il proprio dominio globale – è come far fronte al declino (e alla possibile implosione) di una grande potenza imperiale che è ancora una grande potenza imperiale, il garante dell’ordine mondiale che è la più grande fonte potenziale del suo disordine.

 

Cfr. T. McTagu, What America’s great unwinding would mean for the world, «The Atlantic», 8 August 2022; C. McGreal, US political violence is surging, but talk of a civil war is exaggerated – isn’t it?, «The Guardian», 20 August 2022,; B. Tannehill, Preparing for the Worst, «The New Republic», 12 December 2022.

9 Aprile 2023 - © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

 


 

Macron esorta l'Europa a ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti

 Fonte: Chinadaily.com.cn                 11 aprile 2023                        di CHEN WEIHUA        Redattore web: Zhong Wenxing, Liang Jun

 

 

Il presidente Xi Jinping ha tenuto un incontro con il presidente francese Emmanuel Macron a Pechino il 6 aprile 2023. [Foto/Xinhua]

 

Il presidente francese Emmanuel Macron ha esortato l'Europa a ridurre la sua dipendenza dagli Stati Uniti ed evitare di essere coinvolta nel confronto tra Stati Uniti e Cina.

Gli esperti hanno detto che il recente viaggio di tre giorni di Macron in Cina ha contribuito alle relazioni bilaterali e alle speranze di una soluzione pacifica del conflitto Russia-Ucraina.

In un'intervista con i giornalisti a bordo di un aereo presidenziale francese che volava da Pechino a Guangzhou, nella provincia del Guangdong, Macron ha sottolineato l'importanza dell'"autonomia strategica" dell'Europa per diventare una "terza superpotenza".

Ha detto che "il grande rischio" che l'Europa deve affrontare è che "venga coinvolta in crisi che non sono le nostre, il che le impedisce di costruire la sua autonomia strategica", ha riferito domenica il sito web di notizie Politico.

Macron ha avanzato l'idea dell'autonomia strategica dell'Unione europea nel settembre 2017, quattro mesi dopo essere diventato presidente.

"Il paradosso sarebbe che, sopraffatti dal panico, crediamo di essere solo seguaci dell'America", ha detto. "La domanda a cui gli europei devono rispondere... è nel nostro interesse accelerare (una crisi) su Taiwan? No".

Le tensioni attraverso lo Stretto di Taiwan sono aumentate dopo l'incontro della leader di Taiwan Tsai Ing-wen con il presidente della Camera degli Stati Uniti Kevin McCarthy in California mercoledì scorso durante il suo recente provocatorio viaggio di "transito". In risposta, l'Esercito popolare di liberazione cinese ha effettuato esercitazioni da sabato a lunedì, compresi attacchi simulati contro obiettivi chiave sull'isola di Taiwan e nelle acque circostanti.

"Gli europei non possono risolvere la crisi in Ucraina; come possiamo dire in modo credibile su Taiwan: "Attenzione, se fate qualcosa di sbagliato noi ci saremo"? Se vuoi davvero aumentare le tensioni, questo è il modo per farlo", ha detto Macron.

Ha anche detto che l'Europa ha aumentato la sua dipendenza dagli Stati Uniti per le armi e l'energia e ora deve concentrarsi sul potenziamento delle industrie europee della difesa.

Ha aggiunto che l'Europa dovrebbe ridurre la sua dipendenza dall'"extraterritorialità del dollaro USA".

"Se le tensioni tra due superpotenze si riscaldano... non avremo né il tempo né le risorse per finanziare la nostra autonomia strategica e diventeremo vassalli", ha detto Macron.

Molti europei si sono lamentati della "militarizzazione" della sua valuta di riserva da parte degli Stati Uniti, che ha costretto le aziende europee a tagliare i legami commerciali con paesi terzi o affrontare sanzioni secondarie.

Domenica sera, Macron ha pubblicato su Twitter un video clip della sua visita di tre giorni in Cina in cui ha detto: "Mi sento a mio agio con (il presidente Xi Jinping), anche sulla sostanza. C'è un'attrazione reciproca tra Francia e Cina, un fascino, un'amicizia, un viaggio singolare".

Arnaud Bertrand, un imprenditore francese con esperienza in Cina e commentatore di geopolitica, ha dichiarato su Twitter lunedì: "Tutto sommato non potrebbe essere più chiaro ora, con questa e la precedente comunicazione di Macron che lui (Xi) vede la Francia come il principale alleato della Cina in Occidente per contrastare gli sforzi guidati dagli Stati Uniti per contenere il paese".

Hosuk Lee-Makiyama, direttore del Centro europeo per l'economia politica internazionale con sede a Bruxelles, ha affermato che Macron ha dimostrato che Europa e Cina potrebbero non condividere necessariamente lo stesso risultato ideale per quanto riguarda il conflitto Russia-Ucraina, ma condividono la seconda migliore opzione, un cessate il fuoco che rispetti la Carta delle Nazioni Unite, aggiungendo che alcuni falchi dimenticano che la diplomazia consiste sempre nel perseguire la seconda migliore opzione.

Ha detto che sia l'Europa che la Cina hanno molto da guadagnare dal rafforzamento dei legami commerciali e di investimento, dagli aerei Airbus alle energie rinnovabili e ai progetti infrastrutturali.

Yan Shaohua, professore associato presso l'Istituto di studi internazionali dell'Università di Fudan, ha affermato che il fatto che Macron abbia portato con sé una grande delegazione commerciale e la firma di una serie di accordi commerciali, dimostrano che il commercio e la cooperazione economica sono ancora il pilastro centrale delle relazioni Cina-Europa.

He Zhigao, ricercatore presso l'Istituto di studi europei dell'Accademia cinese delle scienze sociali, ha affermato che la dichiarazione congiunta di Cina e Francia è ricca di contenuti, copre 51 argomenti ed è pratica e facile da implementare.

"C'è una grande motivazione per una maggiore cooperazione e sviluppo nelle relazioni sino-francesi e sino-europee", ha affermato.

 

Night view of Haikou, S China's Hainan   Vista notturna di Haikou, S China's Hainan

Workers busy harvesting chrysanthemums in Dongfang, S China's Hainan   Dongfang, S Hainan Cina

People enjoy themselves during Qingming festival across China  Le persone si divertono durante il festival di Qingming in tutta la Cina

Glowing fireflies light up night in Xishuangbanna, SW China’s Yunnan  Lucciole incandescenti illuminano la notte a Xishuangbanna, nello Yunnan cinese sud-occidentale

 

 



Ricercatori cinesi trovano un nuovo meccanismo per migliorare la qualità della fibra di cotone

Fonte: Xinhua            11 aprile 2023            Redattore web: Zhang Kaiwei, Liang Jun

 

Un raccoglitore di cotone che lavora nei campi nella contea di Xayar, nella prefettura di Aksu, nella regione autonoma uigura dello Xinjiang nel nord-ovest della Cina, il 26 settembre 2022. (Foto di Liu Yuzhu / Xinhua)

 

Ricercatori cinesi hanno recentemente scoperto un ormone vegetale che può regolare la crescita della fibra di cotone e dovrebbe migliorare la qualità della fibra di cotone.

Il cotone è un'importante coltura da reddito in Cina e la principale materia prima utilizzata dall'industria tessile, il che significa che la qualità della fibra di cotone determina la qualità dei tessuti.

Il brassinosteroide (BR), un fitormone che promuove la crescita, regola molti processi di crescita delle piante, incluso lo sviluppo cellulare. 

Tuttavia, il meccanismo con cui BR regola la crescita delle fibre è stato poco compreso.

I ricercatori dell'Istituto di ricerca sul cotone dell'Accademia cinese delle scienze agricole hanno scoperto che la BR può promuovere il meccanismo molecolare dell'allungamento della fibra di cotone modulando la biosintesi degli acidi grassi a catena molto lunga.

Diversi geni chiave che regolano importanti caratteristiche del cotone possono essere utilizzati come riserve tecniche per guidare la produzione di cotone in futuro, ha detto Li Fuguang, leader del team di ricerca.

"Successivamente, continueremo a studiare se BR svolge un ruolo in altri modi, sperando di realizzare la trasformazione dei risultati della sci-tech per aumentare la produzione agricola", ha affermato.

I ricercatori hanno pubblicato i risultati del loro studio in tre riviste: Plant Cell, Plant Physiology e Plant Biotechnology Journal.