Islam in Cina. Storie, etnie, tradizioni. Questione dei diritti umani.
Segnaliamo il nuovo lavoro di Maria Morigi (Comitato Scientifico del CIVG) “Islam in Cina” - l’AD edizioni, pubblicando la prefazione dell’ex ambasciatore Alberto Bradanini
Il significato del termine "Religione" nella cultura cinese si colloca nella prospettiva di uno Stato che soddisfi "Tradizione e Armonia".
Ad una panoramica storica dalla prima diffusione dell'Islam sotto le varie dinastie, segue la descrizione delle istituzioni ufficiali (Associazione Islamica di Cina - A.I.C.), l'istruzione presso le Moschee (con la peculiarità delle moschee femminili) e l'orientamento della politica governativa nei confronti dell'Islam.
Un capitolo dedicato all'Islam dal vivo -luoghi di fede, costumi, modernizzazione e tutela dei beni culturali- anticipa la complessa questione dei Diritti Umani che risulta divisa in due parti, ovvero le accuse di persecuzione dell'Islam usate come arma contro la Cina e, d'altra parte, diritti e valori nella visione cinese.
Il saggio si conclude con una cronaca su recenti vertici internazionali e prese di posizione governative, anche con la presentazione in appendice di documenti.
Alberto Bradanini*
L’ottimo libro di Maria Morigi è quanto mai tempestivo, perché con coraggio e competenza sfida le strumentali fabbricazioni dei media, del mondo politico e delle accademie occidentali (salvo lodevoli eccezioni, beninteso), incaricati all’unisono di una sistematica demonizzazione della Repubblica Popolare Cinese, la sola nazione capace di sfidare l’egemonia statunitense nel mondo. Quando necessario, il libro adotta una postura critica sulla Cina, ma non lo fa con ingenuità. Le osservazioni sono modulate e documentate, mai cedevoli davanti a una facile narrazione, poiché è ben noto che il paradiso in terra non esiste, né in Occidente, né altrove.
In un celebre passaggio dell’ideologia tedesca Marx osserva: “le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti. La classe che dispone dei mezzi di produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa, in complesso, sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi di produzione intellettuale”.
Oggi, il dominio transnazionale americano-centrico – situato in cima alla piramide del potere mondiale - è in palese difficoltà, e dunque più pericoloso, poiché per difendere gli immensi privilegi di cui gode non si fa scrupolo di affiancare all’egemonia soft (cultura, media, accademia e via dicendo, oggi non più sufficiente) un’egemonia militarizzata, l’uso della violenza, la promozione di tensioni, divisioni e conflitti, sfruttando a tal fine ogni utile occasione. Il resto del mondo diviene tuttavia sempre più consapevole e intenzionato a favorire radicali cambiamenti. I paesi poveri ed emarginati non sono più disposti a piegarsi ai capricci dell’impero unipolare.
Quando nel 2001 Jim O’Neil (Goldman Sachs) coniò l’ acronimo BRIC (Brasile, Russia, India e Cina, il Sud-Africa si sarebbe aggiunto più avanti) pochi pensavano che quell’aggregato di nazioni avrebbe aperto la strada a una concreta prospettiva multipolare, di benessere e sviluppo anche per il Sud del mondo, sebbene O’Neil non nascondesse la sua ansia davanti a uno scenario inquietante per le nazioni ricche. Se l’odierna scena internazionale è fonte di preoccupazione, essa non è però priva di qualche spiraglio positivo. Il peso complessivo dei paesi Brics[1], Sco[2], Rcep[3] e dell’Unione Economica Euroasiatica - un aggregato politico-economico alternativo a quello dominato dagli Stati Uniti - è in espansione. Il prossimo ingresso nei Brics dell’Iran (che, non va dimenticato, è il primo paese al mondo in termini di riserve congiunte di gas e petrolio) ne rafforzerà la rilevanza, mentre al suo interno si vanno definendo accordi per la nascita di una moneta anti-dollaro.
La crisi ucraina ha reso più evidente il declino dell’unipolarismo americano, che per mantenersi in vita ha bisogno di conflitti, siano essi politici, economici o militari, a seconda di paesi e circostanze. Per sua parte, il G7 è già un simulacro di potere, che non riflette ciò che l’arrogante retorica occidentale chiama comunità internazionale. Le discussioni che vi hanno luogo, a porte più o meno chiuse, appassionano ormai solo i cultori di storia medievale. Il tempo è scaduto e se si vuole gettare uno sguardo sul futuro occorre oggi sondare gli umori del mondo emergente, non solo quelli dei cosiddetti padroni del mondo che siedono a Wall Street o nella City di Londra. Questi ultimi, insieme a Nato e Unione Europea, restano invece cruciali per capire tempi e luoghi del prossimo conflitto armato. In tutto questo, resta una domanda aperta: dove si collocano i contorni di una sana democrazia?. Basterà un esempio: senza che le popolazioni europee siano state consultate o almeno informate, la Nato e la Ue diventano uno strumento di proiezione militare globale, a sostegno degli interessi planetari della potenza egemone, come si può leggere nei comunicati degli ultimi due vertici Nato e nella recentissima dichiarazione congiunta Consiglio Ue-Nato[4].
Per comprendere l’ampiezza dei cambiamenti in corso, non sarà inutile guardare alla ricchezza prodotta nei due campi, quello occidentale e quello emergente[5]. Al 31 dicembre 2022, il Pil dei Brics in termini di potere d’acquisto interno ha quasi raggiunto i 60.000 mld di dollari, contro poco più di 49.000 miliardi dei paesi G7, mentre i tassi di crescita dei paesi emergenti sono sistematicamente superiori a quelli dei paesi sviluppati, caratterizzati ormai da una stagnazione strutturale. È pur vero che, tra i paesi ricchi dovremmo includere anche quelli medio-piccoli qui non considerati. Le distanze vanno comunque accorciandosi ogni giorno di più, e crescono di riflesso le inquietudini dell’Occidente a guida Usa.
Questi restano la prima economia e di gran lunga la prima potenza militare del pianeta. La Cina, che segue tuttavia a ruota, pur essendo una media potenza militare (ma anche nucleare), è già una grande potenza economica, per di più in ottimi rapporti con la Russia, che è a sua volta una media potenza economica (ricca di risorse energetiche) e una grande potenza militare. In tale scenario, non è un caso se la maggioranza dei paesi del mondo (rappresentanti 6,5 mld di individui), pur condannando formalmente la Russia per l’invasione ucraina, non si sia associata alle sanzioni Usa, a dimostrazione che gli ordini imperiali non vengono più eseguiti come un tempo, nemmeno se accompagnati da minacce o false lusinghe.
In verità, nella regione euro-asiatica i paesi europei avrebbero interesse a costruire un orizzonte di distensione e prosperità, non in alternativa ma a complemento della dimensione euro-atlantica, cui potrebbero associarsi, in uno scenario ideale, persino gli Stati Uniti. Ciò presupporrebbe però l’abbandono della postura imperiale e dell’insensato eccezionalismo di quella nazione (la sola indispensabile al mondo, secondo il lessico patologico di B. Clinton, 1999). Nelle condizioni odierne, invece, se dovesse avverarsi, tale prospettiva costituirebbe un’esiziale spina nel fianco dell’imperialismo unipolare, che si scoprirebbe emarginato oltre Atlantico. Se alla saldatura Russia-Europa, fortemente complementari per ragioni culturali, religiose, economiche ed energetiche, si sommasse anche la Cina, che con la Belt and Road Initiative - attraverso l’infrastrutturazione dei paesi intermedi - ha proprio l’obiettivo di accorciare le distanze tra le due estremità della massa euroasiatica, le fibrillazioni degli strateghi americani raggiungerebbero il parossismo. La cosiddetta Unione Europea, a sua volta, a fronte di tali problematiche produce soltanto lo sguardo perso (e francamente un po’ ebete) dell’ineffabile presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, o l’umiliante silenzio del Cancelliere tedesco Olaf Sholtz davanti alle parole pronunciate alla Casa Bianca dal presidente J. Biden il 7 febbraio 2022[6]: “se la Russia invade l’Ucraina, gli Usa faranno saltare il gasdotto North Stream” (un atto di terrorismo antieuropeo, questo, assai più che antirusso, come poi è avvenuto).
Già nel V secolo a.C., Confucio aveva rilevato la necessità di procedere a una rettificazione dei nomi. Se questi sono manipolati e non riflettono la realtà - egli rimarcava - il loro uso è fonte di malintesi, un dialogo autentico tra gli uomini diviene impossibile e la vita sociale ne risente in profondità. In un suo scritto, Malcom X afferma che “se non si fa attenzione, i media ci fanno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono”. E questo vale anche per le nazioni.
Agli inizi dell’Ottocento, John Quincy Adams, sesto presidente americano, aveva teorizzato che “la migliore garanzia della sicurezza degli Stati Uniti sarebbe stata l’espansione”. A quel tempo l’obiettivo era quello di impossessarsi delle terre spagnole sul continente americano, in epoca moderna l’obiettivo è il mondo intero, senza limitazioni.
Quando si evoca il complesso militare-industriale Usa, sfugge talora che esso non produce solo armamenti, ma si estende all’informazione, entertainment, cinema, tecnologia, accademia e via dicendo, tutto lautamente finanziato dal cosiddetto bilancio della difesa. Non è un caso se, in una trama inestricabile tra media, finanza e stato profondo, il Ceo di Amazon Jeff Bezos – è solo un esempio tra i tanti – abbia acquistato con le briciole del suo impero uno dei maggiori quotidiani del mondo, il Washington Post, e divida le informazioni con l’intelligence Usa.
Invece di riflettere su tali questioni, la narrazione occidentale presenta la Cina come una minaccia alla democrazia occidentale senza che venga avanzato uno straccio di prova[7], mentre è ben vero il contrario. Sono gli Usa che, senza alcuna rimostranza da parte europea, minacciano la Cina con basi militari disseminate nella regione e navi/sottomarini armati di testate nucleare davanti alle coste della Repubblica Popolare. Mentre non risulta un tale dispiegamento di forze cinesi nel golfo del Messico o davanti alle coste della California.
Nelle parole dell’ex-PM australiano, Paul Keating, “la Cina costituisce una minaccia non per quello che fa, ma per quello che è”. È la sua sola esistenza a turbare il sonno della superpotenza. L’emersione di un paese che ospita un quinto dell’umanità è considerata illegittima, un’insidia alla supremazia di un impero che non può tollerare chi non si lascia intimidire, chi non si piega al principio mafioso dell’obbedienza, come l’Europa o chi intende edificare il proprio futuro come paese sovrano.
Viene invece passato sotto silenzio, non solo negli Stati Uniti del tutto disinteressati al tema della povertà nel mondo, ma anche presso la cosiddetta sinistra europea, in specie quella italiana, la circostanza che in soli quarant’anni la Cina ha affrancato dalla povertà 800 milioni di individui, un risultato che le Nazioni Unite, se non fossero anch’esse sottomesse all’egemonia occidentalista, dovrebbero indicare come modello per tutti i paesi emergenti (e non solo, dal momento che anche in Europa i poveri superano i 90 milioni e negli Stati Uniti 42 milioni).
Secondo le analisi prevalenti, i punti critici potenzialmente generatori di un conflitto nucleare, oltre ai rischi di un’escalation del conflitto in Ucraina, sono situati in Estremo Oriente, Taiwan, Mar Cinese Meridionale e quello Orientale.
Taiwan. In un incontro dell’American Enterprise Institute tenutosi il 2 novembre a Orlando in Florida, persino autorevoli esponenti della destra americana sostenitrice di Trump - tra cui Hal Brands, Dan Blumenthal, Gary Schmitt, Michael Mazza, John Bolton e altri - hanno riconosciuto che recuperare l’isola ribelle non ha per Pechino nulla di ideologico o stravagante. Persino un ipotetico governo cinese amico dell’America metterebbe in cima alla sua agenda politica il recupero dell’isola, territorio storico della Cina.
Certo, per la Repubblica Popolare sarebbe bene che ciò avvenisse con il consenso dei taiwanesi - i quali però, come sappiamo, sono contrari. Pechino, tuttavia, è consapevole che un conflitto con Taiwan avrebbe profonde ripercussioni sulla stabilità e l’economia del paese, senza contare che la deterrenza militare di Taipei (a prescindere dal possibile intervento degli Stati Uniti) non renderebbe la conquista dell’isola una passeggiata. In realtà, a dispetto della narrazione occidentale che attribuisce a Pechino l’intento di usare la forza, la leadership cinese ha mostrato sinora tutto il suo sangue freddo. Mancano evidenze che l’esercito cinese stia preparando l’invasione dell’isola. La Cina opera sub specie eternitatis, sa aspettare - e rebus sic stantibus, in linea con gli auspici esposti da Deng Xiaoping poco prima di morire - intende demandare la soluzione del problema alle future generazioni di dirigenti “quando le condizioni politiche sui due fronti lo consentiranno”. Non è un caso, del resto, che Taipei non abbia mai superato la soglia critica della formale dichiarazione d’indipendenza, la sola che potrebbe indurre Pechino a considerare un ipotetico ricorso all’uso della forza. Taipei, d’altra parte, non ha alcun interesse a trovarsi esposta a una tale evenienza poiché, di fatto, indipendente lo è già. Essa è invece il sogno segreto degli americani, una trappola esiziale che fermerebbe l’ascesa della Cina, di cui d’altra parte la dirigenza cinese è quanto mai consapevole.
Il Mar Cinese Meridionale. In quelle acque si trovano due gruppi di isolotti, l’arcipelago delle Paracels (nome cine Xisha) e quello delle Spratly (nome cinese Nansha). Le Paracels sono costituite da una trentina di isolotti, quasi tutti sotto controllo cinese, ma rivendicati dal Vietnam. Pechino li occupa dal 1974, quando l’esercito sudvietnamita era alle prese con i Vietcong. Pechino vi ha costruito alcuni porti e un aeroporto. Dal 2012, la marina cinese controlla anche lo Scarborough Shoal (in cinese Huangyan, situato a 150 km dalle Filippine), ma rivendicato da Manila, oltre che da Taiwan.
L’arcipelago delle Spratly è invece costituito da un centinaio tra isole e scogli disseminati in 410 mila kmq di acque e rivendicati dalla Cina e in parte da Malesia, Vietnam, Filippine e Brunei (quest’ultimo occupa e rivendica solo il Louisa Reef). Negli isolotti dell’arcipelago non vi sono terre arabili e solo in alcune è reperibile acqua potabile.Il Vietnam ne occupa nove,le Filippine sette, Taiwan, Malesia e Brunei uno. La superficie totale non supera i 177 ettari cui si aggiungono 200 ettari di scogli e aree che la Cina ha strappato al mare. In questi ultimi, che non violano il diritto del mare, Pechino ha costruito impianti di attracco, abitazioni e attrezzature militari. Le risorse sfruttabili nell’insieme di tali isole/scogli sono costituite da guano, forse gas e petrolio, sicuramente molto pesce e in prospettiva un turismo d’alto bordo.
Secondo Pechino, documenti storici proverebbero che i cinesi sarebbero stati i primi a battere questi mari e ad aver abitato quelle isole, esercitandovi la sovranità in modo continuo sin dal II secolo a.C. (dinastia Han Occidentale), in assenza di rivendicazioni di altri paesi. La Cina ha dichiarato la disponibilità a sfruttare insieme ai paesi rivieraschi le risorse in questione, senza rinunciare tuttavia alla sovranità.
Quanto al lodo reso il 12 luglio 2016 dal Tribunale Arbitrale dell’Aja su richiesta di Manila, Pechino ne ha a suo tempo denunciato l’illegittimità e la non-cogenza (le questioni di sovranità territoriale non sono soggette all’Unclos), raccogliendo il sostegno di 120 paesi. Nel 2006, insieme ad altri 30 paesi, tra cui alcuni europei, Pechino aveva dichiarato, ai sensi dell’art. 298 della Convenzione medesima, che tali controversie devono intendersi escluse dalle procedure di risoluzione obbligatoria, ed è inoltre contraria alla via multilaterale temendo il formarsi di insidiose coalizioni anticinesi. La via bilaterale è invece avversata dai paesi rivieraschi che temono di esporsi al rischio di possibili ritorsioni economiche. Tuttavia, a dispetto di un lessico talora assertivo, nessuno crede che Pechino ricorrerà all’uso della forza, sia perché contrario alla sua tradizione, sia per i danni politici ed economici che gliene deriverebbero.
In sintesi, secondo i dati disponibili e tralasciando un’infinità di altri armamenti, gli Stati Uniti dispongono nei mari cinesi già oggi di 14 sommergibili nucleari, ognuno con 24 batterie di missili Trident, ciascuna a sua volta dotata di 8 testate indipendenti. Ogni sommergibile, dunque, è in grado di polverizzare con testate nucleari 192 città o siti strategici nel mondo intero. Essi, per di più, verranno presto sostituiti da una nuova generazione di sommergibili ancor più micidiali (classe Colombia). La Cina possiede solo quattro sommergibili, rumorosi e di vecchia generazione, che non possono allontanarsi molto dalla costa, ciascuno dei quali dispone di 12 missili a testata singola, non in grado di raggiungere il territorio americano, i quali entro il 2030 potrebbero essere integrati da altri quattro, anch’essi rumorosi, ma un po’ meno.
La logica suggerisce che, trattandosi di acque cinesi, le attività militari americane costituiscano una minaccia alla sicurezza della Cina, non viceversa. E possiamo solo immaginare le reazioni americane se - per simmetria - una flotta cinese (navi e sottomarini) armata di missili nucleari si aggirasse davanti alla Florida. Meglio non pensarci (o meglio, basta pensare a Cuba ‘62).
Non contenti dell’enorme disparità di potenza di fuoco, gli Stati Uniti - Biden o Trump, in un paese a dominazione corporativa non è un presidente a far la differenza - rafforzano il dispositivo militare in mari lontani dalle loro coste, investendo su armamenti nucleari che sarà l’Australia a pagare e che non faranno certo scendere la tensione. A questo fine chiamano all’appello due dei cosiddetti Five Eyes (i cinque occhi) - Australia e Regno Unito, in attesa che si aggiungano Canada e Nuova Zelanda, in qualche ruolo di comparsa - creando un’inedita alleanza, l’Aukus appunto, incaricata di contenere la Cina con il pretesto di garantire la libertà di navigazione, una libertà che Pechino non ha mai messo in discussione. È così che Stati Uniti e Regno Unito, paesi dotati di armi atomiche, trasferiranno materiali militari nucleari all’Australia, uno stato non-nucleare, violando la lettera e lo spirito del Trattato di Non Proliferazione, spingendo altri paesi non dotati di armi nucleari a seguirne l'esempio, rendendo ancor più insicura la regione Asia-Pacifico.
Quanto alla libertà di navigazione, quello che la Cina contesta - ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (firmata a Montego Bay nel 1982) - è la facoltà dei paesi terzi di svolgere attività militari e di intelligence entro le 200 miglia dalla costa, nella cosiddetta Zona economica esclusiva, istituita dalla Convenzione stessa. E la Cina non è la sola a resistere a tale pretesa. L’India, ad esempio, ha lo stesso contenzioso con gli Stati Uniti, i quali beninteso se ne infischiano e continuano a fare i loro comodi. La Convenzione è in effetti ambigua, si tratta dunque di un tipico problema d’interpretazione, che andrebbe affrontato per le vie diplomatiche, non mettendo mano al grilletto.
Infine, mentre impongono una strumentale interpretazione estensiva del Diritto del Mare, gli Stati Uniti tacciono sulla banale circostanza di essere il solo paese marittimo a non aver ratificato tale cruciale Convenzione, perché ciò impedirebbe alla marina americana di entrare a piacimento in acque altrui.
Il Mar Cinese Orientale. In queste acque Cina e Giappone si contendono un piccolo arcipelago, chiamato Daoyu da Pechino e Senkaku da Tokyo. Esso è situato tra Taiwan e le isole meridionali del Giappone. Storicamente appartenente alla Cina, fu strappato a quest’ultima dai giapponesi insieme a Taiwan nella guerra del 1895. Nel secondo dopoguerra, fu amministrato dagli Usa fino agli anni ’50, quando fu poi restituito ai giapponesi, e non ai cinesi o a Taiwan. Un deliberato pomo della discordia, dunque, sebbene Pechino per il momento non sia disposta a lasciarsi attirare in uno scenario insidioso. Per la Cina, tali isole disabitate, che oltre a un certo valore strategico potrebbero forse contenere gas o petrolio, non meritano tuttavia il rischio di un conflitto.
L’ostilità nei riguardi della Cina non ha pertanto a che fare con la sicurezza degli Stati Uniti, situati a migliaia di chilometri di distanza. Il sogno dell’egemonismo americano è che il gigante asiatico imploda e venga sostituito da un insieme litigioso di staterelli deboli e facilmente asservibili al dominio imperiale. Secondo tale patologia, un mondo plurale è inconcepibile. Le nazioni non possono convivere pacificamente nella diversità, ciascuna con le proprie caratteristiche ideologiche, sociali ed economiche. No, questo non è consentito.
Se mira a emanciparsi, prima politicamente (con Mao Zedong), poi anche economicamente (Deng Xiaoping riteneva che la sola gamba politica non sarebbe stata sufficiente per affrancarsi dal dominio coloniale o neocoloniale), la Cina deve fare i conti con l’aggressione politica, economica e forse anche militare.
Un trattamento, si dirà, che non viene riservato solo alla Cina. Basti pensare a Cuba, Venezuela, Iran, Siria e così via, tutti orwellianamente accusati a modulazione di frequenza di mettere a repentaglio la sicurezza degli Stati Uniti, senza che questo susciti non dico lo sdegno universale ma almeno qualche sorridente presa di distanza. Tuttavia mentre le nazioni-vassalle come quelle europee (media, accademici e politici) restano in silenzio, il mondo emergente ha preso coraggio e non intende più piegarsi alle American preferences, anche se si espone all’accusa di violazione di diritti umani, terrorismo, possesso di armi di distruzione di massa e via minacciando.
L’elenco delle guerre, interferenze e sistematiche violazioni del diritto e dell’etica internazionale da parte Usa è noto, ma proprio perché noto, come affermava Hegel, non è conosciuto: un sintetico rinfresco di memoria si può trovare nella nota[8]. È bene chiarire che non si tratta di pregiudiziali posizioni antiamericane, poiché quel popolo è il primo a soffrire delle amorali politiche di potenza e arricchimento illimitato. Del resto, le coscienze più sensibili di quel popolo si son sempre battute contro tali aberrazioni, pagando pesanti tributi personali.
L’imperialismo Usa odierno non è diverso nei metodi e obiettivi da quelli del passato, ma ricchezza e potere vi sono concentrati come mai prima nella storia, mentre disinformazione e propaganda hanno raggiunto livelli senza precedenti.
Nel mondo occidentale, il capitalismo autoritario si manifesta attraverso politiche di disciplina sociale, quelle europee di austerità (imposte da una tecnocrazia globalista non-democratica), la strategia della paura (terrorismo, disoccupazione, precariato permanente, invasione cinese, Russia, virus, Iran …). In America, si agitano milizie armate e solo in parte controllabili, l’irrisolto divario razziale, etnico e di benessere, le nefandezze dello stato profondo, il proliferare delle spese belliche, conflitti diretti o per procura. In Europa, al blocco unico di centro è affidato l’incaricato di sorvegliare il disagio sociale per scongiurare il punto di non ritorno: ormai sinistra e destra si distinguono solo per i tratti somatici dei rispettivi vertici, e per una diversa perizia nell’organizzare l’intrattenimento, mentre le ali estreme, a destra impraticabili, a sinistra ridotte in cenere, non contano. A fronte di ciò, la maggior parte degli abitanti della terra dispone di redditi di sopravvivenza, mentre la natura strutturale del conflitto tra dominati e dominanti è tenuta nascosta da analfabetismo politico, ritardo culturale, emarginazione e manipolazione.
Il pianeta avrebbe invero ben altre urgenze:
1) i rischi di una guerra nucleare che segnerebbe il crepuscolo del genere umano. Secondo il doomsday clock - l’orologio dell’apocalisse - la distanza dalla mezzanotte, che segnerebbe la fine del mondo, è oggi misurata non più in minuti ma in secondi (per l’esattezza cento secondi), tanto più che quel pulsante è ormai affidato alle macchine;
2) un capitalismo privo di limiti, inasprito dall’onnivora crudeltà neoliberista, che concentra immense ricchezze nelle mani di pochi;
3) la distruzione dell’equilibrio ecologico, la cui ragione strutturale risiede nella bulimia delle corporazioni interessate solo al profitto.
In una diversa prospettiva, anche gli Stati Uniti potrebbero riflettere sulla necessità di sedere intorno a un tavolo come un paese normale per contribuire alla soluzione pacifica delle emergenze. Oggi, tale prospettiva è una chimera. L’ipertrofia oligarchica, pericolosa per la pace e lontana dai bisogni del popolo americano, non può essere contenuta dalle deboli restrizioni del diritto internazionale, ma solo da profondi cambiamenti interni, valoriali e di potere (che però non sono alle viste) o da un graduale riequilibrio di forze sulla scena internazionale, al raggiungimento del quale il contributo delle nazioni resistenti - a partire da quello cruciale della Cina - verrebbe ancor più apprezzato se accompagnato da istituzioni politiche rinnovate sul tema della libertà e partecipazione (sempre nel rispetto del principio di sovranità), un orizzonte al quale anche le nazioni occidentali dovrebbero mettere mano con la massima urgenza.
A dispetto del fallace storicismo di F. Fukuyama, per cui democrazia liberale ed economia di mercato sono l’imbuto nel quale tutte le nazioni del mondo sarebbero destinate a precipitare, l’uomo resta arbitro del proprio destino. E dunque l’aspirazione a un mondo migliore rispetto a quello attuale continuerà a sopravvivere nel cuore degli uomini di buona volontà.
* Alberto Bradanini, Ex-diplomatico. Tra gli incarichi ricoperti, è stato Consigliere Commerciale all’Ambasciata a Pechino (1991-96), Console Generale a Hong Kong (1996-98), Coordinatore del Comitato Governativo Italia-Cina (2004-07), Ambasciatore a Teheran (2008-12) e a Pechino (2013-15), È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea e autore di saggi e libri, tra cui “Oltre la Grande Muraglia” (2018), “Cina, lo sguardo di Nenni e le sfide di oggi” (2021) e “Cina, l’irresistibile ascesa” (2022).
A cura del CIVG
[1] Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa
[2] Shanghai Organization Cooperation
[3] Regional Economic Cooperation Partnership, oggi la più grande area di libero scambio al mondo
[4] Vedansi i comunicati stampa vertici Nato di giugno 2021 (Bruxelles) e giugno 2022 (Madrid, oltre al comunicato congiunto Consiglio Ue-Nato del 10 gennaio 2023: https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2023/01/10/eu-nato-joint-declaration-10-january-2023/
[5] Al 31 dicembre 2021 il Pil complessivo dei paesi del G7, in potere d’acquisto internazionale (PAI), era stato di 42.368 mld di dollari (e 44.558 in PPP[5], potere d’acquisto interno). Al 31 dicembre 2022 tale Pil aggregato dovrebbe superare i 43.538 mld in PAI e 49.186 mld in PPP[5]. Per i paesi Brics[5], al 31 dicembre 2021 i dati sono rispettivamente 24.709 mld di dollari in PAI[5] e 46.615 in PPP[5], e nella proiezione al 31 dicembre 2022, rispettivamente 26.227 mld in PAI e 51.117 in PPP. Se all’attuale composizione dei Brics si aggiungono i paesi che hanno chiesto di aderirvi – vale a dire, Argentina, Algeria, Iran e Turchia – il Pil totale in PAI è 26.682 mld (al 31 dicembre 2021) e 28.497 mld (nella proiezione al 31 dicembre 2022), mentre in PPP è stato di 52.151 mld (al 31 dicembre 2021), e di 57.845 mld di dollari in PPP (nella proiezione al 31 dicembre 2022). Aggiungendo quindi l’Arabia Saudita – che intende anch’essa aderire ai Brics – il Pil complessivo al 31 dicembre 2021 è stato di 27515 mld di dollari in PAI e 53902 in PPP, mentre la proiezione al 31 dicembre 2022 è di 29.507 mld (in PAI) e 59.863 mld (in PPP).
[6]https://www.repubblica.it/esteri/2022/02/07/news/biden_riceve_scholz_berlino_affidabile_ma_il_tedesco_tace_su_nord_stream_2-336898277/
[7] i diritti umani, tema spinoso e complesso, le discutibili attività antiterrorismo nel Xinjiang e altri ambiti non condivisibili della politica cinese – sui quali si può e si deve essere critici - nulla hanno a che vedere con la sicurezza degli Stati Uniti o dell’Occidente. Solo uno sprovveduto, del resto, potrebbe credere che gli Stati Uniti si preoccupino davvero dei musulmani del Xinjiang alla luce, se vi fosse bisogno di altre ragioni, delle tante guerre di aggressione antislamiche da essi scatenate in Medio Oriente negli ultimi settant’anni.
[8] Cuba, Vietnam, Iran, Serbia, Iraq, Siria, Libia, Afghanistan, 15 altri solo in Sud America, tra cui Nicaragua, Cile, Panama, le prigioni/torture di Guantanamo, Bagram, Abu Graib altre segrete, omicidi extragiudiziali “al drone”, la vicenda Jullian Assange e quella di Edward Snowden, e via dicendo. Solo dal 1947 al 1989 gli Stati Uniti hanno organizzato 70 tentativi di regime change (l’eufemismo sta per colpi di stato), 64 sotto copertura, 6 con sostegno militare aperto. In 25 casi, i tentativi hanno avuto successo con l’instaurazione di un governo amico, in altri 39 sono invece falliti (Covert Regime Change, Linsday A. O’Rourke, Cornell University Press 2018). Ciò ha causato milioni di vittime, rifugiati, distruzioni, degrado e via dicendo, tutto per promuovere i sani valori della democrazia e dei diritti umani.