La sfida del lavoro

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Pensieri e parole sul lavoro e sulle sue trasformazioni. Sui diritti, quelli trasformati o negati, e quelli da cui ripartire. 

 

"Il metaverso è uno spazio virtuale, ma il suo impatto sarà reale". Uno slogan che sa di beffa per gli undicimila dipendenti licenziati da Meta (la filiale italiana della holding che controlla Facebook, WhatsApp e Instagram, ndr), persone reali con paure e speranze, non avatar pronti a colonizzare l'aldilà digitale. Anche Twitter non è da meno visto che Elon Musk, mentre fissa al 2029 l'anno dello sbarco su Marte, licenzia metà dei dipendenti.

Questi colossi del digitale, che hanno fatto della semplificazione e della banalizzazione del mondo e del pensiero una mission, che ha contagiato anche la politica e la nostra vita di tutti i giorni, sono finiti travolti dalla complessità del mondo che, invece, è in cerca di risposte profonde alle urgenze energetiche, ambientali e geopolitiche. Velocità, superficialità e decisionismo sono categorie delle democrature da contrapporre alla lentezza e ai tempi della democrazia che prevede discussioni, confronti, rappresentanza, consenso e regole istituzionali. In questo sconquasso dove presto, come ammoniscono alcuni studiosi, non sapremo più distinguere il reale dal virtuale, il lavoro può essere il faro per mantenere una rotta di speranza essendo, come sosteneva Francesco Novara, responsabile del centro di Psicologia della Olivetti, "un dato originario interno che concorre a definire il significato stesso dell'esistenza. È intersoggettività intorno a un compito, è ricerca di significati." (Rosario Iaccarino e Andrea Donegà: "Né impiego, né merce: il lavoro come linguaggio della trasformazione sociale", Passione&Linguaggi, 1 maggio 2022, www.passionelinguaggi.it).

Cambiamenti

Molto è cambiato dai tempi della grande fabbrica fordista con il suo operaio-massa e il suo meccanismo ordinatorio per classi. Un monolite autosufficiente che, progressivamente, ha esternalizzato fasi di lavorazione a piccole imprese limitrofe per poi spingersi più lontano, frammentandosi, rimpicciolendosi e sostituendo la classe operaia con una moltitudine, una dimensione di massa senza sistema ordinatorio delle classi, come spiega il sociologo Aldo Bonomi. Con l'apertura dei mercati e l'esplosione della globalizzazione le aziende, alla ricerca di efficienza, hanno iniziato a dislocare nella catena globale delle produzioni e delle forniture fasi di processo produttivo, soprattutto quelle a minor valore aggiunto, saldandosi in un'interdipendenza mondiale. La pandemia e la guerra hanno reso evidente che catene globali così lunghe sono vulnerabili, riscoprendo l'opportunità della regionalizzazione delle stesse. Epidemie e instabilità geopolitica possono, infatti, mandare in tilt la filiera e bloccare l'approvvigionamento di materie prime o componentistica, aumentando i prezzi o bloccando produzioni, come avvenuto per le auto a corto di microchip. Oggi, siamo di fronte a un'ulteriore accelerazione che Richard Baldwin chiama Rivoluzione Globotica, la combinazione tra globalizzazione e robotica, fondata sul mix tra intelligenza artificiale e remota, che sta facendo emergere, tra le altre, la figura dei telemigranti, persone che, senza spostarsi, lavorano per aziende di altri Paesi. Certamente una grande opportunità per i talenti nel mondo, ma anche un rischio di avvitamento verso il basso dei salari, stressati da una concorrenza mondiale fondata su rapporti di lavoro che possono essere chiusi con un click e che necessiterebbero di una nuova regolamentazione. Bernard Stiegler ne La società automatica spiega come "attraverso il controllo algoritmico generalizzato si risparmia lavoro e si tracciano e profilano i nostri comportamenti, alterando il senso delle esistenze" asciugando il confine tra utente e consumatore da una parte e lavoratore e produttore di dati dall'altra.

Per rappresentare un mondo in continua e rapida evoluzione dobbiamo innovare anche il linguaggio perché "i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo", come sosteneva Ludwing Wittgenstein. Serve, dunque, un nuovo approccio che sviluppi e promuova la soggettività e il benessere di ogni persona. Siamo ancora abituati a ragionare a valle dei processi, gestendo le ricadute delle decisioni prese altrove secondo modelli che non funzionano più e che hanno puntato, sempre e troppo, sulla riduzione dei costi del lavoro – e degli stipendi – scegliendo la via bassa dello sviluppo e finendo per impoverire il sistema Paese. Se rimaniamo nel solco ideologico continueremo a pensare il lavoro come destino, condanna, sacralità, merce da vendere e da comprare quando il lavoro non può avere le stesse logiche del mercato del pesce, come diceva il Nobel Robert Solow. Dobbiamo scegliere, in alternativa, una visione umanistica in cui il lavoro sia un'azione intersoggettiva, generatrice di senso condiviso e di significati comuni, nonché di individuazione personale e collettiva. Il fenomeno delle grandi dimissioni si spiega con questa tendenza a rivalutare i benefici relativi al mutamento qualitativo e di senso della relazione tra lavoro e tempo libero. Un grande ripensamento che sembra voler ristabilire priorità tra i valori che fondano il nostro stare insieme nella società e nelle comunità, perché le persone cercano ciò che dà maggiore soddisfazione e benessere. Di contro, anni di svuotamento di senso del lavoro hanno finito per portare al rifiuto del lavoro stesso: chi accetterebbe un qualcosa privo di senso? E chi sarebbe disposto a pagare di più un qualcosa privo, appunto, di senso  percepito e vissuto come fastidioso e derubricato a "favore" e "concessione"?

Occorre sostenere e far crescere la libertà positiva, offrendo a ciascuno l'opportunità di esercitare il proprio talento e adoperare le sue dotazioni per esprimere se stesso ai fini dell'individuazione personale e del riconoscimento sociale. Servono protezioni universalistiche e di welfare – che intervengano prima e non solo in seguito a crisi – ridisegnate sui bisogni e desideri soggettivi e intersoggettivi; un welfare moderno, non assistenziale, che sia promotore di benessere, in grado di supportare le persone, evitando di imprigionarle nell'assistenzialismo.

Vale soprattutto per i giovani, che sono lontani dalle culture del Novecento che continuiamo a richiamare e su cui sono ancora modellate le istituzioni, i diritti e le politiche del lavoro, ma vale anche per gli anziani per costruire uscite anticipate dal mondo del lavoro, dando la possibilità magari di rendersi utili occupandosi di beni comuni. Ognuno deve ritagliarsi lo spazio su ciò che vuole essere perché non abbiamo più bisogno di norme che definiscano la persona nel lavoro bensì di una flessibilità normativa che accompagni la persona nel suo pieno sviluppo.

La formazione

La sfida è, dunque, alta ma entusiasmante. La formazione può giocare un ruolo decisivo. Certamente, c'è da superare il problema del disequilibrio, tra domanda e offerta, che ha due facce: da una parte le imprese accusano la scuola di non fornire le professionalità necessarie; una questione che può essere risolta potenziando e valorizzando le migliori esperienze di istruzione e formazione professionale. Dall'altra, le competenze sfornate dal nostro sistema formativo sono troppo elevate rispetto alle richieste delle imprese che, dunque, palesano un gap di innovazione. Spesso nelle imprese digitali e ad alto contenuto tecnologico, come quelle citate all'inizio, si pensa che le competenze ingegneristiche, specie nelle posizioni apicali, siano sufficienti e necessarie, a scapito di una pluralità di metodi e punti di vista. Serve, invece, un approccio alla conoscenza che sappia integrare competenze tecnico-scientifiche con quelle umanistiche. Un passaggio che sarà sempre più fondamentale per le imprese impegnate a trattenere e attrarre i talenti e a ri-generare i contesti organizzativi attraverso la cura delle relazioni e dell'intersoggettività attorno a un compito e al ben fatto.

Abbiamo la possibilità di ripensare il lavoro dal lato del suo significato intersoggettivo, emancipativo, realizzativo, perché il lavoro è ancora fonte di riconoscimento sociale per ogni persona che ha diritto di sentirsi realizzata e felice.

 

Da mosaicodipace