Nagorno Karabakh. Nuove inquietanti dinamiche

19/12/2022

                                              

 

Il conflitto prodottosi nel 2020 tra l’Armenia e l’Azerbaigian sulla pluridecennale vexata quaestio della contesa regione del Nagorno-Karabakh, conclusosi con un enorme spargimento di sangue alla fine del medesimo anno con un armistizio che non ha impedito il ripetersi di ulteriori, anche recenti, cruenti scontri, secerne effetti collaterali che minacciano di aggravare le covanti tensioni nella più vasta regione, mai venute meno dalla fine nel novembre 2020 del sanguinoso conflitto tra i due suddetti Paesi.

Chi scrive queste note aveva avuto modo in un precedente articolo di segnalare le suaccennate negative incidenze che paiono ora interessare e coinvolgere più direttamente due potenze regionali quali la Turchia e l’Iran.[1]

In effetti quel che ha particolarmente colpito gli osservatori è stato l’atteggiamento tenuto di recente dall’autocratico leader dell’Azerbaigian Ilham Aliyev.

Atteggiamento verosimilmente determinato dal successo militare di tre anni fa che, come noto, ha permesso al governo di Baku, col sostanzioso supporto militare fornitogli dalla Turchia di Erdogan, di recuperare una larga parte del Nagorno-Karaback che, seppur popolato in larga maggioranza da armeni, è tuttavia riconosciuto dalla comunità internazionale come appartenente all’Azerbaigian.

Quale il principale pomo della discordia? Esso concerne l’ormai manifesto desiderio di Aliyev di mettere le mani su quella striscia di terra armena, non più di 40 chilometri, denominata dagli azeri “Corridoio di Zangezur”, separante l’Azerbaigian dalla Repubblica autonoma di Nakhchivan, parte integrante dello spazio azeri, di strategica rilevanza per il fatto di essere confinante con la Turchia e l’Iran (v. mappa).

In effetti l’armistizio firmato nel novembre 2020 contemplava l’impegno assunto dall’Armenia di garantire il libero passaggio di merci tra l’Azerbaigian e la sua Repubblica autonoma. Il rispetto o meno di tale impegno ha costituito la causa principale delle ricorrenti cruente schermaglie prodottesi tra Erevan e Baku nel corso di questi ultimi due anni.

Resta il fatto comunque che l’aggravarsi delle tensioni nell’area è stato provocato anche ed in più larga misura dal linguaggio bellicoso di Ilham Aliyev, forte del dichiarato sostegno del potente alleato anatolico. In tal modo sfruttando il desiderio di Erdogan di allargare l’influenza politica e culturale di Ankara nei vasti spazi dell’Asia centrale. Una proiezione del “soft power” turco in direzione di aree donde essa sconta di trarre ritorni più allettanti rispetto a quelli alquanto attenuati ottenuti finora altrove (Mediterraneo orientale e penisola arabica).

Come si è già detto il successo militare azeri si è potuto realizzare grazie all’aperto appoggio militare assicurato da Erdogan. I droni fabbricati in Turchia da un conglomerato, nel quale evidenti sono gli interessi della famiglia del Presidente, si sono rivelati lo strumento attraverso il quale si sono decise le sorti della guerra. Un vero e proprio “game-changer”.

Non si può omettere in tale contesto il profondo spessore dei legami e delle affinità esistenti tra i due suddetti Paesi. Affinità che affondano le loro radici nella comune appartenenza etnica e linguistica cui si aggiunge l’intensità dei rapporti politici, caratterizzati da una governance di stampo autocratico, ed economici. Al punto che da parte turca ed azeri la relazione esistente tra le due entità viene vista e definita come una sorta di “una Nazione e due Stati”.

Ciò spiega ampiamente come Ankara scorga da questa propiziante realtà il sentiero da percorrere per il conseguimento degli obiettivi in chiave geopolitica sopra delineati.

Ciò spiega anche i timori che da questa situazione derivano per la Repubblica islamica d’Iran, alle prese da più di due mesi con un quadro interno alquanto agitato, determinato in larga misura dalle enormi difficoltà economiche funzione di sanzioni punitive di fatto mai cessate nel corso di più di cinquant’anni, sul quale soffiano i nemici esistenziali dell’Iran, Israele ed i sauditi, con l’ovvio beneplacito degli Stati Uniti.

Le apprensioni appaiono ben comprensibili ove si osservi la carta geografica postata all’inizio dello scritto. In effetti un possibile controllo azeri del cosiddetto Corridoio di Zangezur, spazio armeno –ripetiamo- separante l’Azerbaigian dall’enclave di Nackchivan, consentirebbe il venir meno della frontiera dell’Iran con l’Armenia. Una frontiera più sicura per l’Iran di quella, ben più estesa, esistente con l’Azerbaigian. Una frontiera che rappresenta per Teheran il tramite territoriale di contatto con il Caucaso e la Russia.

Non solo ma conseguenza negativa forse ancor più impattante, tale sviluppo garantirebbe alla Turchia attraverso l’Azerbaigian un diretto sentiero di transito verso l’Asia centrale, con l’esclusione della Repubblica islamica, dalle vantaggiose ricadute sul piano degli approvvigionamenti di energia emananti da ben forniti mercati, quali il Kazakhstan, Turkmenistan, al di là del Mar Caspio, oltre che beninteso lo stesso Azerbaigian, al di qua dello stesso mare.

Tale scenario permette di scorgere il carattere strategico della partita che si sta giocando nel più vasto spazio interessante il Medio Oriente e l’Asia centrale.

Permette anche di comprendere i timori che la politica espansionista di Erdogan, capace di sfruttare a suo vantaggio le conseguenze scaturite dal conflitto in corso in Ucraina che hanno consentito ad Ankara di uscire, seppur in maniera maldestra e controversa, dall’isolamento nel quale si trovava, suscitano a Teheran, aggravati da un altro dettaglio di non secondario rilievo.

Intendiamo riferirci all’esistenza, già menzionata nel mio articolo sul tema dello scorso giugno, nel nord ovest dell’Iran, confinante con lo spazio curdo, di una cospicua minoranza di lingua azeri, più di 20 milioni, verso la quale gli appelli dell’autocrate Aliyev inneggiante ad un “Grande Azerbaigian”, comprensivo ovviamente della comunità di lingua azeri in Iran, provocano le furiose reazioni di Teheran i cui media ed organi di stampa per converso non mancano occasione per “ricordare” che l’Azerbaigian fa “storicamente” parte dell’entità iraniana e che addirittura gli abitanti dell’enclave azeri di Nackchivan aspirerebbero a “divenire parte dell’Iran” (!).[2]

Che i rapporti ormai tra Baku e Teheran si rivelino essere più che precari è dato anche da un altro significativo particolare ovverossia dalla decisione assunta a metà novembre da Aliyev di aprire una rappresentanza diplomatica a Tel Aviv a coronamento di una cooperazione nel campo militare con Israele, già da tempo in essere, destinata ad allargarsi ed approfondirsi.

Come si può notare un mix tutt’altro che rassicurante tanto più che a nostro avviso difficilmente tali passi e tali bellicose esternazioni da parte dell’autocrate di Baku potrebbero essere state prese senza una luce verde del suo potente omonimo ad Ankara.

E questo è verosimilmente l’aspetto più impattante di una crisi dagli sviluppi non del tutto rassicuranti. Teniamo altresì presente come le elezioni presidenziali in Turchia siano piuttosto ravvicinate nel tempo, non oltre il prossimo mese di giugno, in un contesto interno dove, secondo quanto testimoniato dagli ultimi sondaggi, l’indice dei consensi si rivela non incoraggiante per Erdogan a causa anche di un quadro economico disastroso, aggravato peraltro da decisioni nel campo monetario che hanno fatto inorridire gli economisti [3].

Quel che si teme in definitiva a Teheran è come questa non favorevole congiuntura interna nel Paese possa indurre l’uomo forte turco ad imprimere maggiore impeto e velocità alla tigre nazionalista, fomentata dal suo alleato di governo Devlet Bahceli, leader del “Nationalist Movement Party” e fondatore dei famigerati “Lupi Grigi”, responsabili in un passato non remoto di gravissimi atti di violenza nel Paese.

Non soltanto quindi il fervore nazionalista turco continua a colpire in modo cruento e dissennato i finitimi spazi siriani, abusivamente occupati manu militari con l’ausilio di milizie jihadiste al servizio di Ankara, nonché iracheni, bersaglio da anni delle incursioni aeree mirate a debellare il nemico mortale dell’entità anatolica, il movimento di matrice marxista del PKK. Non soltanto e non esclusivamente.

L’espansionismo di Ankara, fonte del resto di mal celata irritazione nei circoli atlantici ed europei, si orienta da qualche tempo in direzione anche di quell’immenso spazio rappresentato da quei Paesi asiatici, un tempo facenti parte della defunta Unione Sovietica, non alieni ora dal venire incontro al desiderio di Erdogan di rinverdire un comune retaggio storico, culturale e linguistico.

Del resto il canale attraverso il quale percorrere il succitato sentiero esiste già. Esso è dato da una struttura, appositamente creata, dalla significativa denominazione: “Organization of Turkic States”, ovverossia un organismo intergovernativo chiamato a promuovere la cooperazione tra i cinque Paesi membri, valorizzando nel contempo le obiettive affinità esistenti tra la Turchia, la cui collocazione geografica la rende l’ineliminabile punto di passaggio tra l’Europa e l’Asia, e quelle entità asiatiche dove, unitamente al russo, un idioma simile al turco è largamente diffuso.[4]

Non è arduo immaginare come l’Iran veda un rafforzamento della suddetta organizzazione, veicolo dell’espansionismo turco, costituire un pericolo per la stessa sostenibilità del regime alla luce dell’effetto di calamita che tali sviluppi potrebbero provocare presso le minoranze di azeri e turcomanni presenti in Iran.

Non solo ma la stessa proiezione esterna iraniana nel subsistema verrebbe in tal modo ad essere colpita attraverso processi che progressivamente allontanerebbero la Repubblica islamica da aree di vitale importanza per i suoi interessi quali il Caucaso, la Russia e l’Europa.

Le dure reazioni dei vertici politici e religiosi a Teheran al profilarsi di simili poco gradite dinamiche fanno presagire come possibili nuove contrapposizioni possano maturare nel prossimo futuro in una regione già scossa da gravi destabilizzanti tensioni.[5]

Il dato non rassicurante in tutto ciò si rivela essere la costatazione che ogni accrescimento dell’influenza turca nella suddetta area venga visto come una perdita netta da parte della Repubblica islamica.

E lo stesso ben visibile avvicinamento di Ankara ad Israele ed all’Arabia saudita non potrebbe non rafforzare i timori dei vertici iraniani verso un Paese, la Turchia, con il quale fino ad un tempo non remoto convergenze non secondarie avevano per converso avuto modo di manifestarsi.

Le rassicuranti esternazioni di Erdogan, a tal proposito indirizzate alla controparte iraniana, paiono a tutt’oggi non aver prodotto gli effetti desiderati nel mentre le trattative di pace tra l’Armenia, paladina dei valori cristiani ma molto vicina all’Iran, e l’Azerbaigian, interamente in linea con gli obiettivi perseguiti da Ankara, non decollano a causa dell’enorme muro di diffidenza tra le parti e di una sterile ed inconcludente mediazione europea, indebolita da un maldestro protagonismo francese che a tutt’oggi blocca il proseguimento del negoziato.

A dire il vero comunque ove si abbiano a mente il peso e lo spessore delle incidenze derivanti dalla temuta perdita della frontiera con l’Armenia ed il conseguente controllo di quel medesimo minuscolo spazio territoriale, denominato “Zangezur Corridor”, da parte dell’Azerbaigian, come enfatizzato, anche di recente ad alta voce dal Presidente Aliyev, difficilmente si potrebbero non condividere le apprensioni iraniane.

 

 

Come già accennato l’accesso iraniano al Caucaso ed alla Russia diverrebbe ipso facto assai problematico, per non dire virtualmente precluso. Lo stesso accesso al Mar Nero si rivelerebbe di ardua concretizzazione, considerando le barriere che inevitabilmente si erigerebbero in quel percorso.

Senza contare che la stessa importanza dell’Iran come punto di transito tra l’Asia e l’Europa e come nodo di rilevante importanza sotto il profilo economico-commerciale si troverebbe ad essere seriamente compromessa.

Né potrebbe essere passato sotto silenzio il non secondario particolare che, dati i tutt’altro che trascurabili rapporti esistenti tra Baku ed Israele e la normalizzazione intervenuta nella relazione della Turchia, Paese NATO, con lo Stato ebraico, Tel Aviv verrebbe in tal modo a disporre di un ulteriore canale, dopo quello assicuratogli dagli “Abraham Accords” conclusi con gli Emirati e Bahrein, attraverso il quale intensificare la propria azione destabilizzante contro la Repubblica islamica.

Tutto ciò fa comprendere come alta sia la posta in gioco nella regione ed il visibile peggioramento del quadro internazionale non aiuta davvero a facilitare un allentamento delle tensioni.

In conclusione la pluridecennale faida tra l’Armenia e l’Azerbaigian riveste un rilievo nell’ambito regionale che sarebbe errato sottovalutare, vista l’ampiezza delle ramificazioni sotto il profilo geopolitico da essa emananti. Dalle quali sviluppi deleteri per la precaria stabilità dell’area potrebbero discendere.

Una variabile dunque da tener ben presente nell’analisi delle dinamiche attualmente in essere in un contesto dove irrisolte aree di crisi consentono interferenze e condizionamenti suscettibili di incidere negativamente su equilibri poggianti su basi fragili ed alquanto vulnerabili.

 



[1]Nuove dinamiche in una turbolenta regione”, pubblicato su queste colonne lo scorso giugno

[2]  Il credo religioso praticato in larga maggioranza in Azerbaigian si ispira all’Islam sciita. Ma simile affinità di fede con l’Iran è largamente sovrastata dal fervore nazionalistico che pervade il Paese, vissuto ben più vibratamente di quello religioso.

[3]Il calante andamento della popolarità di Erdogan risente anche dei suoi ripetuti repentini voltafaccia sul piano diplomatico che hanno portato l’autocrate turco a stringere la mano di leader della regione, dall’Egitto agli Emirati, giudicati fino ad un recente passato colpevoli dei peggiori mali. Fonte di indignate reazioni non solo dei locali ambienti islamisti ma anche delle non celate recriminazioni di commentatori vicini alla sua linea politica per i quali simili nuovi indirizzi avrebbero dovuto essere presi “molto prima”, evitando di subire perdite di credibilità e di influenza di Ankara nella più vasta regione, dal Mediterraneo orientale allo Yemen. Alcuni sono arrivati a parlare perfino di una “mancanza di visione politica” del criticato leader.

[4]Il suddetto organismo ha visto la luce nel 2009 e la proposta per la sua creazione fu lanciata all’epoca dall’allora Presidente del Kazakhstan Nazarbayev. I Paesi di esso membri sono cinque. Turchia, Azerbaigian, Kazakhstan, Kirghizistan ed Uzbekistan. Anche l’Ungheria partecipa alle attività dell’Organizzazione in qualità di Paese osservatore.

[5]L’inaugurazione recentemente avvenuta di una rappresentanza consolare iraniana nel conteso Corridoio di Zangezur in prossimità della frontiera dell’Armenia con la Repubblica islamica ha costituito la manifestazione visibilmente impattante di un atteggiamento di Teheran poco incline a transigere sulla questione.