Nuove dinamiche in una turbolenta regione

8 giugno 2022

 

Iran opens border crossing with Iraqi Kurdistan region: state media - Egypt  Independent

 

Il quadro politico nella turbolenta area del Levante si è sempre caratterizzato per il suo andamento fluido in uno scenario dove le tensioni non accennano a diminuire.

Un’evoluzione degna di essere rilevata, in essere in verità da diverso tempo, ma raramente assurta all’attenzione dei principali media internazionali, riguarda l’alleanza di fatto creatasi tra la Repubblica Islamica d’Iran ed il Partito dei Lavoratori Curdi (PKK).

Un ulteriore esempio di come la “Real Politik”, alla cui base si celano corposi interessi, sia ancora una volta in grado di soverchiare differenze ideologiche apparentemente insormontabili.

Come si ricorderà il PKK è un movimento di matrice marxista che da quattro decenni porta avanti una sanguinosa guerra negli spazi del sud - est della Turchia, (più di 40.000 morti), finalizzata all’acquisizione di una reale autonomia politica della numerosa minoranza curda ivi residente (più del 20%).

Una guerra spietata che non ha conosciuto interruzioni significative nonostante i mutamenti politici prodottisi nel grande Paese anatolico, trasformatosi tra la fine del secolo scorso e gli inizi dell’attuale da regime autoritario diretto dalla casta militare, dichiaratamente filooccidentale, in una repubblica segnata dall’islamismo ancorato all’ideologia dei Fratelli mussulmani dell’uomo forte del Paese, Tayyip Erdogan, al potere ininterrottamente da più di vent’anni, opportunisticamente alleatosi da tempo con l’estrema destra nazionalista, una vera spina nel fianco dell’alleanza militare della NATO della quale peraltro continua egli a far parte. 

In realtà l’obiettivo strategico della forza irredentista, considerata “terrorista” non solo dalla Turchia ma anche dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, sarebbe addirittura quello di dar vita ad una entità indipendente curda che riunisse al suo interno le diverse frastagliate anime di una comunità, vista da molti come una delle due componenti storiche del Levante, unitamente alla martirizzata comunità palestinese, uscite perdenti dagli iniqui Trattati di pace stipulati alla fine del Primo conflitto mondiale.

Come già accennato il tratto peculiare dell’avvicinamento prodottosi tra il PKK e Teheran è dettato dalla condivisione di obiettivi interessi, resa più agevole dall’allargamento del teatro operativo della formazione irredentista curda e dallo scontro di interessi covante nella regione, a tutt’oggi indolore, tra le due potenze non-arabe, la Turchia e l’Iran.

L’allargamento del raggio d’azione del PKK comprende ora il nord dell’Iraq ed in particolare lo spazio del Kurdistan iracheno, ricco di petrolio, da sempre governato dalla dinastia Barzani, dall’impronta marcatamente conservatrice, tradizionalmente vicino alla Turchia, visceralmente ostile al PKK ed alle formazioni curde siriane ad esso ideologicamente vicine, per converso non considerate “terroriste” dall’Occidente.

Vi è altresì da rilevare come da qualche tempo il Kurdistan iracheno è esposto alle infiltrazioni israeliane, conseguenza principalmente degli Accordi di normalizzazione (“Abraham Accords”), conclusi con Israele nel 2020 da alcune autocrazie della Penisola arabica (Emirati arabi uniti e Bahrein).

 

Il contrasto del PKK con Erbil, la capitale della regione autonoma curda, non si è mai estinto nella misura in cui l’azione degli irredentisti viene, non senza ragione, vista dalla dinastia dominante e dallo schieramento politico che ne riflette gli interessi, il Kurdistan Democratic Party (KDP), come un pericolo per l’ossificata struttura dell’assetto di potere nel Kurdistan iracheno.

Ciò ha indubbiamente facilitato l’avvicinamento tra il Kurdistan iracheno e la Turchia di Erdogan, ovviamente interessata sia alle ricchezze energetiche di quell’area sia a sfruttare il malanimo di Erbil con gli odiati militanti curdi.

Significative appaiono le ragioni di questa alleanza, apparentemente contro-natura, dettata dalla logica di una cruda real politik,emanazione di divergenti interessi.

In effetti Teheran ha sempre nutrito profonda diffidenza nei confronti di Ankara. Diffidenza che trae le sue radici fin dagli anni 80, al tempo della infame guerra scatenata all’indomani della rivoluzione islamica in Iran del 1979 dall’Iraq di Saddam Hussein, allora alleato degli Stati Uniti, da Washington sostenuto in un conflitto durato otto anni, costato la vita a più di un milione di iraniani.

L’Iran ha sempre ed a ragione ritenuto che la Turchia, allora retta dai militari, abbia alacremente appoggiato il dittatore iracheno nella sua mal concepita e mal riuscita avventura iraniana, sospetti che apparentemente uscirono rafforzati dal Trattato sulla Sicurezza concluso dalla Turchia con l’Iraq nel 1983, stipulato mentre il conflitto con l’Iran era in corso, che non mancò di accrescere a Teheran una profonda diffidenza verso l’allora governo militare al potere ad Ankara.

Al punto che a parere degli iraniani l’esistenza di basi militari turche nel Kurdistan iracheno sarebbe dovuta ai proficui rapporti di collaborazione esistenti all’epoca tra il defunto dittatore iracheno e la Turchia.

 

Tornando ai giorni nostri altre ragioni invero sussistono a conferma di una relazione turco-iraniana poggiante su basi alquanto fragili, ulteriormente indebolita dal successo elettorale di un anno fa in Iran del conservatore Ibrahim Raisi, dal quale è scaturito il pressoché totale controllo delle leve del potere iraniano da parte dei cosiddetti “hardliners” o elementi meno inclini al dialogo con un Occidente ritenuto non senza ragione colpevole dei principali mali che hanno afflitto la Repubblica islamica fin dal momento del suo avvento.

 

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Una delle principali ragioni, poco menzionata nei media internazionali, risiede a nostro avviso nel mai troppo celato supporto fornito da Ankara alla minoranza azeri residente nel nord-ovest dell’Iran, denominato “Azerbaijan iraniano”, composto di tre province, il più consistente, sotto il profilo numerico e politico, gruppo minoritario appartenente all’entità iraniana.

 

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Le comunità azeri parlano un idioma molto vicino al turco e comprensibilmente godono del supporto non solo del finitimo Azerbaijan ma anche della Turchia di Erdogan incline a considerare le ex-repubbliche asiatiche sovietiche come una sorta di un suo “near abroad”, dove poter far rivivere il glorioso passato ottomano.

La minoranza azeri in Iran costituisce una comunità valutata a più di 20 milioni di anime e da tempo è esposta agli ammalianti miraggi di una possibile futura secessione emananti da un organismo significativamente denominato “Pan-Turkist Azerbaijan National Resistance Organization” (ANRO). La sua denominazione è altamente indicativa di quali siano i sostenitori del suddetto movimento.

Tutto ciò viene visto con comprensibile inquietudine da Teheran. Si può da questo comprendere come l’alleanza con il PKK, nemico implacabile della Turchia, non abbia tardato a consolidarsi e svilupparsi, arricchendosi di gesti ed atteggiamenti di reciproco gradimento ed affidamento.

Il movimento di guerriglia curdo si avvale da tempo di rifugi e di preziose basi d’appoggio in territorio iraniano dove l’aviazione turca non osa effettuare le sue micidiali incursioni.

A differenza di quanto avviene nell’entroterra del Nord iracheno dove il PKK subisce da molto tempo i colpi inflitti dalla forza armata di Ankara che può contare sulle tenui rimostranze di Barzani e sulle patetiche proteste di un governo a Baghdad indebolito da una crisi politica interna dalla quale non riesce ad uscire.

L’esplodere delle guerre civili prima in Iraq, conseguenza dell’aggressione USA del 2003, e successivamente in Siria hanno dunque portato ad una intensificazione dei contatti e delle sinergie tra i militanti curdi e l’Iran.

Il che ha permesso alla parte iraniana di trarne gli inevitabili vantaggi soprattutto sotto il profilo dell’intelligence e della raccolta di utili informazioni in merito agli intendimenti ed alle azioni perpetrate dalla Turchia nell’allargata area di interesse.

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Tale processo secondo un parere condiviso sembra destinato a consolidarsi nella misura in cui si sono accresciute le aree di divergenza e di contrasto tra Ankara e Teheran nel Levante.

Che si tratti della Siria, dove la Turchia dopo aver abusivamente espanso manu militari la sua presenza attraverso tre distinte aggressioni, annuncia ora nuove destabilizzanti avventure militari nel nord siriano, lesive della sovranità di un Paese sostenuto ad un costo altissimo dall’Iran, nonché dell’Iraq, dove le ripetute violazioni da parte turca della sovranità irachena suscitano le aperte proteste iraniane accompagnate dagli, seppur sporadici, attacchi contro le basi turche nel Kurdistan  da parte delle milizie sciite filoiraniane, il quadro che si presenta appare chiaramente indicativo di contrasti innegabili prefiguranti verosimilmente nuovi focolai di tensione mal auguranti dinamiche nella regione.

La guerra in Ucraina non ha certo sminuito lo spessore delle summenzionate rivalità nella misura in cui essa consente ad Ankara di trarre profitto dal pessimo andamento delle relazioni tra la Russia e gli Stati Uniti, sfruttando a proprio vantaggio l’accresciuto condizionante potere.

Nel frattempo Erdogan, campione di opportunismo, ha portato avanti con noncuranza profittevoli aperture verso le autocrazie arabe del Golfo e perfino nei confronti di Israele, nemico esistenziale della Repubblica islamica, dimentico di contrasti che fino ad un tempo recente apparivano assolutamente insanabili.

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Occorre altresì tener presente come la natura della contrapposizione in fieri tra Ankara e Teheran non si limiti al campo delle divergenze e degli antagonistici allineamenti nella regione.

Essa si allarga venendo ad includere la sfera della relazione tra i due Stati sotto il profilo più propriamente geopolitico. Come sopra segnalato il Kurdistan iracheno abbonda in risorse di strategica rilevanza. La consistenza dei suoi giacimenti di petrolio e gas naturale ammonterebbe al 30% del totale della manna energetica dell’Iraq.

Tutto ciò ha attirato le attenzioni di un Paese come la Turchia dall’economia disastrata, attenzioni e desideri che di recente, sotto la spinta anche dei tragici fatti ucraini, hanno acquisito una maggiore concretezza sotto la spinta del condiviso intento di Ankara, Bruxelles e Washington di contrastare ed indebolire la posizione dominante dell’Iran nella regione come Paese produttore ed esportatore di energia.

La Repubblica islamica in effetti è il secondo Paese al mondo in termini di disponibilità di gas naturale senza tralasciare la consistenza del suo export di petrolio, in grado quindi di incidere pesantemente nei delicati equilibri del mercato energetico. Tanto più vero questo ove l’attuale faticoso negoziato volto a conferire nuova vita all’accordo nucleare del 2015 dovesse conoscere un esito positivo.

Tale scenario aiuta a capire come gli intenti di Ankara vengano visti con profondo sospetto a Teheran dove ci si comincia a rendere conto come essi mirino a traguardi che vanno al di là della lotta contro il PKK; intenti in sostanza che traggono la loro linfa da un ragguardevole contrasto d’interessi nel “power game” nella regione.

Dietro dunque l’obiettivo di colpire i militanti curdi ovunque essi operino, parrebbe celarsi una strategia più ramificata ed a largo raggio la cui finalità sarebbe in definitiva di ledere gli interessi strategici iraniani nella regione, già esposti ai colpi letali inflitti in maniera occulta da Israele.

Timori ed inquietudini alimentati, come già accennato, dalle conseguenze scaturite dal conflitto in Ucraina nonché altresì da nuovi contrasti, recentemente emersi, relativi alle iniziative assunte da Ankara sulla vexata quaestio dell’utilizzazione delle acque dei due grandi fiumi solcanti gli spazi turco ed iraniano, il Tigri e l’Aras, fonte di non celato e giustificato risentimento da parte non solo dell’Iran ma anche dei due Paesi finitimi, l’Iraq e la Siria.

Iniziative in merito alle quali tuttavia, diversamente da quel che è dato costatare a proposito di analoghi contrasti vertenti sul fiume Nilo a base dell’irriducibile contrapposizione tra l’Egitto e l’Etiopia, l’orientamento prevalente a Teheran ed Ankara sarebbe tuttora di ricorrere allo strumento negoziale per un loro auspicato superamento.

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L’Iran, non dimentichiamo, è il principale attore del cosiddetto Fronte della Resistenza alla penetrazione occidentale nell’area islamica.

Come vedremo più avanti il suo principale obiettivo resta quello di privilegiare i rapporti con i Paesi della sua area di appartenenza a tutto discapito delle Potenze esterne ritenute le principali responsabili delle gravi tensioni e delle guerre che da decenni insanguinano le terre d’Islam.

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Sulla base di quanto sopra delineato il Kurdistan iracheno verrebbe in definitiva ad acquisire un rilievo tutt’altro che secondario alla luce anche delle rivelazioni pubblicate nella stampa iraniana facenti stato della avvenuta stipulazione di un Accordo tra Erbil ed Ankara valido 50 anni (!) con il quale, oltre che il definitivo consolidamento dei flussi di petrolio dal nord iracheno (Kurdistan) in direzione del porto turco di Ceyhan, nel Mediterraneo, già in essere da diversi anni, si sarebbe, secondo le suddette fonti, altresì previsto un consistente allargamento della rete di rapporti e relazioni nel campo energetico, coinvolgenti anche Israele e l’Europa.

 

 

Kirkuk–Ceyhan Oil Pipeline - Wikipedia

 

Con buona pace, sia detto per inciso, del Governo centrale iracheno in difficoltà nell’arginare le iniziative assunte, in tutta autonomia da Baghdad, dalla famiglia Barzani.[1]

Se ciò venisse corroborato le apprensioni iraniane apparirebbero del tutto legittime. Il Kurdistan iracheno vedrebbe il suo ruolo ingigantito nel mercato energetico della regione a tutto detrimento degli interessi iraniani, con effetti sicuramente destabilizzanti anche nei confronti dell’Iraq, alle prese, come già accennato, con un precario quadro politico interno.

Non solo ma anche la Turchia vedrebbe il suo peso e la sua influenza nella medesima area accrescersi notevolmente sotto il profilo economico ed anche politico, venendo a rafforzare ipso facto lo schieramento anti-iraniano.

In verità parrebbe arduo immaginare come una tale evoluzione potrebbe materializzarsi senza una forte contrapposizione da parte della Repubblica islamica dove i gruppi conservatori attualmente al potere a Teheran non assisterebbero indifferenti a tale visibile diminutio del ruolo dell’Iran nel subsistema.

Diminutio che interverrebbe paradossalmente in coincidenza di un possibile positivo sbocco del negoziato, peraltro a tutt’oggi tutt’altro che scontato, in corso con 4 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU più la Germania, (gli Stati Uniti sono fuori dalla sala delle riunioni), per la conclusione dell’agognato e tuttora assai problematico Accordo nucleare.

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Da tutto ciò emergono conclusioni poco incoraggianti. La prima è che il contrasto d’interessi tra le due Potenze regionali non-arabe, Turchia ed Iran, tenderebbe ad acuirsi, particolarmente, seppur non esclusivamente, per quel che attiene al comparto energetico.

Tendenza che trae linfa dai nuovi orientamenti della diplomazia di Ankara alla ricerca di successi sul piano regionale ed internazionale (dal Nord Europa al Levante), alla vigilia di elezioni politiche previste tra un anno il cui esito pare tutt’altro che scontato per Erdogan, alla luce soprattutto di un quadro economico e sociale a dir poco preoccupante caratterizzato dal crollo verticale del valore della moneta nazionale, la lira, cui hanno contribuito le deliranti decisioni in tema di politica economica imposte a tutt’oggi da Erdogan.

Sotto questo profilo l’avvicinamento intervenuto tra la Turchia e l’Arabia saudita, immortalato dal caloroso abbraccio tra Erdogan e Mohammed bin Salman a Riyadh, suscita una comprensibile inquietudine a Teheran per le possibili incidenze nelle aree di crisi della regione (Siria, Iraq ed anche Yemen) che da tale sviluppo potrebbero scaturire per gli interessi iraniani in quei potenziali teatri di scontro. L’Iran ed il Regno saudita si trovano schierati su fronti opposti nelle succitate zone di conflitto.

La seconda conclusione attiene alla già descritta alleanza, alquanto inedita, tra la Repubblica islamica e gli irredentisti curdi del PKK, un’alleanza che mette in sordina l’enorme divario sul piano ideologico esistente tra le due parti, sovrastato dalla impattante convergenza degli obiettivi imposta dalle nuove dinamiche enucleatesi nella regione.

L’implacabile contrapposizione dei militanti curdi nei confronti della Turchia e la percezione avvertita in Iran dell’ostilità di Ankara, suffragata ora dall’evidente allineamento turco con le autocrazie sunnite del Golfo nonché dalle pressoché contestuali aperture verso Israele, si rivelano egualmente aspetti che non lasciano ben sperare in un allentamento delle tensioni nel subsistema.

Quel che si può in ogni caso affermare è che la summenzionata alleanza ha tutta l’aria di apparire come la prova tangibile del fermo intendimento di Teheran di contrastare, avvalendosi altresì del supporto della galassia delle milizie sciite appartenenti al cosiddetto Asse della Resistenza, i disegni di espansione dell’influenza turca nella regione, del resto storicamente osteggiata dalle comunità arabe.

Per converso l’intento di Erdogan è di sfruttare il radicato malanimo della dinastia Barzani nei confronti del PKK, assecondando in tal modo gli intenti americani ed israeliani nell’area in chiave anti-iraniana che si avvalgono dei preziosi apporti forniti dagli Abraham Accords attraverso i quali ha preso avvio una penetrazione israeliana interessante la vasta area della Penisola arabica, dal Kurdistan fino all’isola, di fatto non più yemenita, di Socotra nel golfo di Aden.

Tutto ciò si dispiega con il silente supporto dell’Occidente e costituisce nell’attuale inquietante congiuntura politica internazionale un ulteriore evidente segnale di come i giochi di potenza in chiave regionale e l’esplodere dei contrasti, alimentati dalla perdita di credibilità nell’area degli Stati Uniti, continueranno a pesare nel Levante, percorso da nuove dinamiche che rendono i relativi equilibri fragili e poco sostenibili.

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A tal proposito appare interessante in questo medesimo contesto rilevare come non appaia casuale il fatto che i due Paesi del Golfo, con i quali l’Iran intrattiene tradizionalmente proficui positivi rapporti, il Sultanato di Oman e l’Emirato di Qatar, siano anche quelli che maggiormente ispirano la propria condotta ai criteri del pragmatismo e di una sana costruttiva moderazione.

L’Oman e Qatar sono regimi anch’essi assoluti ma non tirannici. I due governi non sono mai venuti meno nella loro proiezione esterna al rispetto dei valori fondanti dell’Islam basati sul dialogo e la reciproca comprensione.

E di ciò non è soltanto l’Iran a trarne giovamento ma anche altre entità, esterne alla regione, che non esitano a far tesoro delle capacità di mediazione offerte dai due Stati islamici.

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In tale medesimo quadro vi è altresì da menzionare un’importante intesa recentemente conclusa da Teheran nello scacchiere dell’Asia centrale.

Essa concerne l’Accordo sulla cooperazione militare e sulla sicurezza che ha visto recentemente la luce con il Tagikistan, l’unica Repubblica asiatica ex-sovietica dove si parla un idioma affine al farsi persiano, confinante con l’Afghanistan e la Cina.

 

 

Tajikistan | People, Religion, History, & Facts | Britannica

 

Il Governo di Dushanbe è sempre stato, fermamente e coerentemente, impegnato nella lotta al terrorismo internazionale ed intrattiene proficui rapporti di collaborazione sul piano militare e della sicurezza con la Russia.

In occasione dei drammatici eventi prodottisi nell’agosto dello scorso anno in Afghanistan il minuscolo Paese dell’Asia centrale ebbe a fornire un prezioso contributo negli sforzi prodigati per attenuare i terribili effetti conseguenti alla catastrofica fine dell’intervento militare USA, durato ben vent’anni con i ben miseri risultati sotto i nostri occhi.

La conclusione da parte di Teheran di una simile intesa con una entità, quale il Tagikistan, collocata in un’area di strategica rilevanza, non può certamente passare inosservata per le importanti incidenze che da essa potrebbero derivare nei fluidi equilibri di quel subsistema.

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Tale ultimo sviluppo riveste un indubbio rilievo nella misura in cui suona conferma di come la Repubblica islamica stia gradualmente uscendo dall’isolamento sul piano regionale ed internazionale al quale si è trovata esposta per più di trent’anni fino alla stipulazione dell’Accordo nucleare del 2015 voluto dall’ex-Presidente Obama.

La strategia iraniana della “Look East” policy (Sguardo verso l’Oriente) abbinata a quella del perseguimento di una politica volta ad enfatizzare ed approfondire le relazioni con i Paesi vicini (“Neighbours First”) comincia a secernere i suoi frutti.

Essa ha preso formalmente inizio con la conclusione poco più di un anno fa dell’Accordo di cooperazione con la Cina che prevede nei prossimi 25 anni ingenti investimenti cinesi e profonde sinergie in campi di strategica rilevanza.

Ergo si può verosimilmente concludere come la proiezione esterna iraniana nel Levante non si baserà più da questo momento esclusivamente sul supporto delle cosiddette “proxy forces” o “non-state actors”, come da tempo è dato di rilevare, particolarmente in Libano, Iraq e Yemen e verosimilmente da questo momento anche negli spazi del Nord iracheno, avvalendosi in funzione anti-turca degli apporti degli irredentisti curdi del PKK.

Tutto lascia credere per converso che essa sia destinata in futuro ad arricchirsi, seppur in forme diverse, di una rete di relazioni con Stati e Governi con i quali sussistano contiguità geografica ed affinità politiche, comuni interessi e significative impattanti convergenze.

Tali fattori si riveleranno di decisiva importanza nel prossimo futuro. L’inaffidabile andamento della policy USA nel subsistema, fonte di malcelata diffidenza da parte di partner storici di Washington quali il Regno saudita e gli Emirati, sembra favorire il manifestarsi di un dialogo tra la Repubblica islamica e le autocrazie del Golfo.

Più marcata invero emerge questa linea di tendenza a proposito degli Emirati, perseguenti politiche ispirate anch’esse ai dettami della real politik, rispetto all’Arabia saudita la cui contrapposizione alla Repubblica islamica appare tremendamente difficile da sormontare.

Un quadro dunque in piena evoluzione dove spinte contrastanti hanno luogo che confermano in ogni caso come sempre più rilevante emerga il ruolo delle potenze regionali in luogo di condizionamenti da parte di attori esterni meno incisivi e meno impattanti che in passato, mal celanti distacco ed un minore interesse nei confronti delle agitate dinamiche della regione.

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Quale che sarà dunque l’esito della travagliata trattativa in corso per una nuova edizione dell’Accordo sul programma nucleare iraniano, brutalmente ed abusivamente denunciato dall’ex-Presidente Trump, la proiezione esterna della Repubblica islamica sembra dar vita a nuove forme di estrinsecazione, percorrendo sentieri suscettibili di alleviare l’isolamento al quale decenni di imposta e subita emarginazione l’hanno condannata.

Un isolamento ed una emarginazione dei quali l’Iran continua a pagare un amaro prezzo sotto il profilo di equilibri interni dall’andamento, fino a tutt’oggi, piuttosto precario ai fini del mantenimento della coesione politica al livello della leadership nonché della pace sociale in quel grande Paese.

L’isolamento e l’emarginazione appaiono decisamente molto più contenuti rispetto a quanto era dato di costatare fino a pochi anni orsono anche se implacabili contrapposizioni, come quello con lo Stato d’Israele, si manifestano, in maniera cruenta e senza esclusione di colpi, e nuovi contrasti, come quello trattato in questa riflessione, si profilano minacciosamente all’orizzonte.

 

Nota integrativa

 

Il Kurdistan è un’entità incorporata nello spazio iracheno che beneficia a tutt’oggi di un alto ed assai contestato, dal governo centrale, grado di autonomia.

Il Kurdistan Democratic Party (KDP), di cui si parla nel testo, la cui sede è nella capitale della regione Erbil, non è l’unica formazione politica operante nella regione autonoma.

Ve ne sono altre di variegata importanza che svolgono un ruolo di rilievo in rappresentanza di interessi e caratteristiche intrinseche diverse da quelle di cui il KDP si considera portatore.

La principale e la più rilevante, non solo nel Kurdistan ma anche nel contesto nazionale, è senza alcun dubbio il Patriotic Union of Kurdistan (PUK), fondato da Jalal Talabani nel 1975, figura storica del movimento curdo in Iraq, scomparso da qualche anno, personalità di primo piano nello scenario politico iracheno, essendo stato durante una legislatura Capo dello Stato a Baghdad.

Il PUK, operante a Sulaymaniya, città di storica rilevanza nell’areopago curdo, situata nell’est del Kurdistan, contigua alla frontiera con l’Iran, ha una piattaforma politica diversa dal KDP dominato dalla dinastia Barzani, conservatore, incline a riservare poco spazio alle istanze riformatrici.

La base ideologica del PUK è ancorata per converso ad un riformismo moderato di matrice socialdemocratica, portato a riconoscere il ruolo della dialettica politica e del pluralismo delle idee.

Ma anche sul fronte delle relazioni esterne il KDP ed il PUK presentano proiezioni differenziate. Infatti, mentre il primo dei due schieramenti, come già evidenziato in precedenza, mantiene rapporti di proficua, poco trasparente collaborazione con la Turchia di Erdogan e perfino con Israele, il PUK per converso è sempre stato, non solo per ragioni geografiche, più vicino all’Iran.

Infatti una parte non secondaria della comunità curda abitante l’est del Kurdistan iracheno professa il credo religioso sciita, a differenza di quanto riscontrabile in altre contrade dello spazio curdo, all’interno ed all’esterno del Kurdistan, dove una larga maggioranza è di fede sunnita.

Differenze profonde sussistono anche sul delicato fronte dei rapporti del KDP e del PUK con il governo centrale a Baghdad.

Travagliata e contestata si rivela essere la relazione di Erbil con il governo iracheno, apparentemente ora maggiormente propenso a contenere le spinte indipendentiste della dinastia Barzani, i cui obiettivi tendono, come già evidenziato, ad assecondare i disegni turchi di espansione nell’area, sfruttando a proprio vantaggio la manna energetica degli spazi da essa amministrati.

Ciò per converso appare in patente discrasia con gli orientamenti prevalenti a Sulaymaniya dove si ha l’interesse contrario ovverossia mantenere una relazione di sinergia e collaborazione con il governo di Baghdad. Saddam Hussein è scomparso da tempo!

In definitiva ed in sostanza all’interno del Kurdistan iracheno coesistono due distinte entità i cui rapporti risentono tuttora delle conseguenze scaturite dalla sanguinosa guerra civile, durata tre anni (1994-1997), scoppiata nel Kurdistan iracheno.

Basti pensare che le due formazioni politiche del KDP e del PUK si avvalgono, in totale indipendenza l’una dall’altra, di distinti apparati di sicurezza e di intelligence, disponendo in tal modo di unità militari (“peshmerga”), che rispondono quindi esclusivamente ai due rispettivi partiti politici di appartenenza e non al governo centrale a Baghdad.

Il referendum per l’indipendenza del Kurdistan organizzato dal KDP nel 2017, con un risultato ampiamente favorevole al sì ma conclusosi con un intervento militare di Baghdad che ha vanificato l’esito dello scrutinio, ha fornito l’ulteriore illuminante esempio delle profonde divergenze esistenti tra Erbil e la formazione fondata da Jalal Talabani.

Il riferimento è a quanto prodottosi nel corso di quel breve ma sanguinoso conflitto e delle decisioni adottate, in stridente contrasto con il KDP, dal PUK.

Esse hanno segnato una profonda ferita tra le due formazioni rivali. In effetti la decisione da parte del PUK di ritirare le proprie forze dall’area di Kirkuk, consentendo la rioccupazione di quello spazio, ricco di energia e di risorse, da parte dell’esercito regolare iracheno, non poteva mancare di suscitare lo sdegno di larga parte della comunità curda in Iraq ed altrove.

Questo fa comprendere quanto fluida sia la situazione sia all’ interno della provincia autonoma sia, come già segnalato, nella sua proiezione esterna.

Situazione che parrebbe aver suscitato le attenzioni delle Nazioni Unite donde partono appelli perché i problemi ed i confliggenti interessi vengano risolti attraverso il dialogo e lo strumento negoziale.

Appelli tanto più opportuni quando si pensi al quadro politico interno iracheno dove non si è ancora giunti, dallo scorso 10 ottobre (!), alla formazione di una compagine politica in grado di governare un Paese in crisi profonda nel mentre si assiste, al pari di quel che avviene in Siria, ad una recrudescenza dell’azione terroristica dell’ISIS.

Concludendo quel che si può affermare con una certa verosimiglianza è che il peggioramento della relazione tra le due Potenze regionali della Turchia e dell’Iran che minaccia di coinvolgere il Kurdistan iracheno, non sembra prefigurare momenti del tutto rasserenanti in una regione di strategica rilevanza dove le cause profonde dei mali che l’affliggono continuano ad essere ignorate.

Le tensioni che scuotono l’area del Levante, dalla Siria all’Iraq, dalla Palestina allo Yemen, restano collocate ad una soglia alquanto precaria, funzione anche del verticale peggioramento del quadro internazionale al livello globale cui da qualche tempo con preoccupazione stiamo assistendo nonché dell’apparente presa di distanza dallo spazio islamico degli Stati Uniti con il venir meno, a discapito dei principali attori della regione, di certezze e punti di riferimento ora non più scontati.

 

*Angelo Travaglini diplomatico in pensione, membro del Comitato Scientifico del CIVG  

 

 



[1]  Secondo rivelazioni fornite dall’autorevole Financial Times di Londra quantità rilevanti di petrolio sarebbero esportate dal Kurdistan iracheno in direzione di Israele.