Il grande Gap

09/05/2022

 

 L'ad di Stellantis, Carlos Tavares

 

Il caso dell'ad di Stellantis ha riportato di attualità il fenomeno della differenza stellare tra le retribuzioni dei manager e i salari degli operai e dei tecnici. Quali sono le ragioni e quali le possibili alternative alla crescita infinita della diseguaglianza? Lo abbiamo chiesto a tre esperti

Il segretario generale della Cgil Landini urante una recente trasmissione delle Iene ha detto che è inammissibile la differenza tra remunerazioni dei manager e degli ad con quelle degli operai. Il caso è sorto per le battute del presidente francese Macron, che rispondendo alla domanda di un giornalista sullo stipendio milionario dell’ad di Stellantis, Carlos Tavares, ha parlato di un fenomeno scandaloso.

E infatti le cifre di questa nuova grande diseguaglianza fanno girare la testa. Tavares percepisce un compenso che è 625 volte superiore a una paga operaia negli stabilimenti Stellantis. Negli anni Cinquanta il mitico capo della Fiat Vittorio Valletta aveva portato il suo stipendio a 12 volte quello dei suoi operai. Una scelta di cui si era scandalizzato un altro imprenditore, Adriano Olivetti. Ma nel 2012 Sergio Marchionne, con i suoi 48,5 milioni, guadagnò circa 2.000 volte il salario medio dei dipendenti italiani.

Qualche altra cifra tanto per far capire l’entità del problema. Si è calcolato (nel 2021) che ci vogliono in media 36 anni di salario per arrivare alla retribuzione di un manager. Un altro calcolo parla della necessità di mettere insieme le paghe di 320 lavoratori 'normali' per fare lo stipendio di un ad. Ma con le cifre ci fermiamo qui. Tanto il discorso è molto chiaro. Quello che ci interessa piuttosto è capire le ragioni di fondo di questi fenomeni e magari cercare di capire se qualcosa si può fare per invertire la rotta.

Lo abbiamo chiesto a tre esperti della materia, Vincenzo Comito (storico dell’economia e della finanza), Leonardo Becchetti (professore di Economia all’Università Tor Vergata di Roma e membro del Comitato Etico di Banca Etica) e Michele Raitano (professore di Politica Economica all’Università La Sapienza di Roma, autore di vari studi sulle diseguaglianze). Ecco che cosa ci hanno detto.

VINCENZO COMITO  -    «ECCO PERCHÉ ACCADE OVUNQUE»
Il fenomeno della crescita delle diseguaglianze è globale, riguarda cioè tutti i Paesi… Ma per venire a noi, ovvero alla questione dell’enorme distanza che esiste tra le retribuzioni dei manager e quelle dei lavoratori dipendenti dalle stesse aziende, nell’ambito di questi processi una delle cose che colpiscono è la crescente divaricazione tra profitti e salari in generale. Da considerare poi che guardando i bilanci aziendali, la voce salari include anche le retribuzioni dei manager. La divaricazione con quelle degli operai è aumentata ovunque e in modo esponenziale. Quarant'anni fa un alto dirigente percepiva compensi di alcune decine di volte superiori di quelle dei salari. Ora siamo a una differenza di centinaia di volte. Queste distanze sono sempre state più elevate nei paesi anglosassoni (in particolare Usa e Gran Bretagna), mentre il fenomeno non era stato così accentuato in Paesi con culture diverse come per esempio la Germania, il Giappone, la Corea. Ora invece le tendenze alla divaricazione si stanno espandendo e generalizzando.

Quelle parti variabili. Per capire come stanno le cose bisogna fare molta attenzione alla composizione interna delle remunerazioni dei manager. Esiste infatti una parte variabile legata alle prestazioni. Ma è anche chiaro che oltre agli obiettivi conta la filosofia di fondo che travalica gli incentivi: queste retribuzioni sono costruite con meccanismi che permettono un risultato sicuro e immodificabile per i manager, che appunto ci guadagnano sempre, anche a prescindere dai risultati, a prescindere da come vanno le cose. D’altra parte non ci si può stupire di questo perché le regole le costruiscono gli stessi manager a loro uso e consumo.

La fuga dal lavoro. La tendenza all’aumento esponenziale delle diseguaglianze (un'ingiustizia sociale palese) è diventata molto accentuata anche in Italia. Sono molti i casi che si potrebbero citare ad esempio. La storia dell’ad Sergio Marchionne è stata da questo punto di vista esemplare. Perché mentre Valletta guadagnava decine di volte un salario operaio, con Marchionne il gap si è misurato in migliaia. E si tratta di un fenomeno che produce altri effetti collaterali. Io non escludo per esempio che queste diseguaglianze e queste ingiustizie siano alla base del fenomeno della fuga di manodopera dalle fabbriche. Una tendenza che abbiamo visto negli ultimi due anni in Paesi come la Gran Bretagna, ma che ora pare stia coinvolgendo anche l’Italia. Si tratta di storie sicuramente legate alla pandemia, ma a guardar bene, anche legate ad altri fattori. Non si accettano più le condizioni di lavoro imposte e le sperequazioni così grandi.

Il capitale è sempre più forte. Dietro questi fenomeni non ci sono solo le mode ovviamente, ma anche ragioni più profonde che rimangono legate al conflitto storico tra capitale e lavoro. Come ha scritto Thomas Piketty in vari saggi, il capitale è sempre più forte del lavoro. Lo studioso cita il 1985 come il vero punto di svolta. Fino agli anni Settanta le differenze non erano mai state troppo accentuate. Con la guerra e le difficoltà della ricostruzione il capitalismo (anche da noi) ha sofferto molto e per ripartire era stato costretto a mollare su alcune conquiste volute dalla classe operaia. Poi però negli anni Ottanta il capitalismo occidentale ha recuperato la sua forza e ha trovato dei validi portavoce nel cambio delle politiche e delle scelte. Erano gli anni del presidente americano Reagan e della premier inglese Margareth Thatcher. Le posizioni dei capitalisti sono diventate molto forti e le imprese hanno potuto riprendere nelle loro mani le redini. Da allora il rilancio delle diseguaglianze è diventato vorticoso.

Ci rimette anche l’ambiente. Il fenomeno della divaricazione e di questo grande gap condiziona anche tutto il resto. Il capitalismo – dopo aver ripreso le redini del gioco – ha subìto varie crisi e spesso ha mostrato la corda. Per evitare la stagnazione secolare si è disposti a fare di tutto, anche mettere in atto comportamenti e scelte che penalizzano l’ambiente. Cresce insomma una sorta di irresponsabilità sociale e ambientale. Si arraffa quello che si può. Le imprese non cercano più di massimizzare il profitto, ma i flussi di cassa. Sono tanti soldi in ballo, una grande àncora di salvezza che comporta però un blocco dello sviluppo. Il sistema occidentale, per difendersi dalle crisi, ha ricominciato a respirare buttandosi verso Oriente, dove un capitalismo nuovo prende il comando. Il caso più eclatante e più chiaro riguarda il settore dell’auto. Almeno il 40 per cento di tutto il fatturato tedesco si realizza in Cina. Ma nello stesso tempo non ci si rende conto che a Pechino sta crescendo il vero concorrente del sistema capitalistico occidentale. Infine, per spiegare l’aumento delle diseguaglianze, non si può non citare la finanza. L’importante è far aumentare i dividendi. Le retribuzioni dei manager sono legate alla massimizzazione dei guadagni per gli azionisti, una politica che favorisce il sotto investimento. Invece di investire per il futuro per far crescere la realtà imprenditoriale magari in modi ecosostenibili, le imprese preferiscono distribuire dividendi. Spendono i soldi per comprare le loro stesse azioni in Borsa, piuttosto che fare investimenti.

LEONARDO BECCHETTI. «UNA QUESTIONE DI DEMOCRAZIA»
Il problema delle grandi diseguaglianze di reddito tra i lavoratori e i manager delle aziende segnala prima di tutto una mancanza di democrazia nelle relazioni industriali. Sono sempre i vertici a decidere in modo autoreferenziale, a prescindere quasi sempre dai risultati concreti che si ottengono. E spesso di questa carenza di democrazia arrivano prove dirette dalla cronaca. Un caso recente è quello di Stellantis, dove la maggioranza dei soci aveva votato contro l’aumento della remunerazione dell’ad, Tavares, ma alla fine la decisione è passata lo stesso a prescindere appunto anche dal parere dei soci. In aprile gli azionisti di Stellantis hanno votato contro la politica di remunerazione che prevede per l'amministratore delegato Carlos Tavares 19,15 milioni di euro totali nel 2021. I voti contrari sono stati il 52,1 per cento. Il presidente John Elkann ha spiegato che si tratta di un voto di consultazione non vincolante, ma la società terrà conto delle indicazioni arrivate dai soci: bisogna tenere conto "dei risultati record raggiunti nel 2021" e che "l'aumento di stipendio di Tavares rispetto a quello che aveva in Psa è dovuto al fatto che Stellantis è un'azienda diversa e molto più grande".

Obiettivo profitti. Il problema però è che gli altissimi livelli delle remunerazioni degli amministratori delegati e dei manager vengono legati ai profitti dell’azienda a prescindere dalla qualità del lavoro e spesso anche dagli incidenti. Il punto centrale è portare a casa il bonus per rendere competitiva l’azienda. Queste dinamiche sono completamente avulse da qualsiasi valutazione sulla qualità dei prodotti e dei valori etici più o meno rispettati. Sono gli investitori dei fondi d'investimento etici che stanno facendo una battaglia per cambiare, a partire proprio dalle assemblee degli azionisti. Ci sono già esempi virtuosi di grandi gruppi industriali che mettono in atto comportamenti diversi. Il rispetto dei parametri ecosostenibili ed etici dovrebbe diventare obbligatorio, mentre per ora le scelte etiche delle aziende sono tutte basate sul volontarismo.

C’è una alternativa? Come si può tentare d'invertire la corsa verso ulteriori diseguaglianze tra lavoratori e manager? La soluzione – risponde Becchetti – ovviamente non è facile, come vediamo per esempio nel mondo del calcio. Come si fa a mettere un tetto allo stipendio di un calciatore? Il modo di ragionare che vale per il calcio si applica anche all’economia e all’industria. Se metti un tetto alla remunerazione, dicono, rischi di perderti i migliori talenti che sul mercato vengono attratti dagli stipendi più elevati. In realtà non è sempre così perché le qualità morali, e spesso anche le capacità, dei manager importanti per il destino di un’azienda, non sempre sono correlate positivamente con il loro desiderio di guadagno. Per questo non è detto che sia negativo anche per i risultati di un’azienda fissare quanto meno dei tetti massimi nelle differenze. Per Banca Etica, per esempio, vale il rapporto 6 a 1. Ovvero un dirigente, un manager, non può percepire uno stipendio più alto di sei volte di un semplice dipendente.

Conta la qualità dei rapporti. L’altro elemento da considerare non riguarda solo i livelli quantitativi delle differenze, ma la qualità dei rapporti che si costruiscono nel mondo del lavoro. E questo è un tema centrale per il sindacato. Ci vuole un collegamento con la produttività ed è necessaria una nuova valorizzazione del lavoro, come è successo in passato tante volte nella storia. Penso per esempio al caso della Ford negli Usa nel 1914, quando con l’introduzione di un premio economico per gli operai si ridusse l’assenteismo. Si devono premiare insomma i manager che fanno effettivamente qualcosa in più per il bene dell’azienda e quindi anche dei lavoratori. Ci sono studi che abbiamo realizzato di recente che dimostrano come l’applicazione di valori etici e di buone pratiche nei rapporti tra manager e lavoratori migliorino le performance generali. Non sono ostacoli ma qualcosa in più che valorizza complessivamente il risultato della produzione e la collocazione dell’azienda sul mercato. Uno degli studi recenti molto chiaro in questo senso è disponibile in internet su Google Scholar. 

MICHELE RAITANO. «LA SVOLTA DEGLI ANNI OTTANTA»
Sicuramente dagli anni Ottanta in poi si è osservato un fenomeno di concentrazione dei redditi fra i molto ricchi (top 1% o 0,1%, soprattutto negli Stati Uniti e non solo) e la vera novità di questo fenomeno è che i super-ricchi sono in grandissima misura persone che ottengono il loro reddito principale dal lavoro (in passato invece erano rentier). Sulla crescita delle retribuzioni al top della distribuzione, la teoria economica non fornisce una risposta univoca. La visione mainstream la reputa frutto di uno sviluppo tecnologico che permette ai super-manager più bravi (e superstar dello show business) di giocare su mercati globali ampliando la loro fetta di mercato in contesti in cui i consumatori vogliono essere serviti dal migliore (i cosiddetti mercati dove the winner takes all). 

Le ragioni di fondo. Ma è evidente che non si tratta solo di bravura, per quanto legata a un progresso tecnico peculiare. Contano sicuramente, e in tutta probabilità di più, altri fattori che magnificano le super-retribuzioni in contesti ben poco competitivi: la loro popolarità (quando sono chiamati da qualsiasi impresa come "salvatori" perché hanno la fama di esserlo...); il loro potere, che diventa massimo in contesti di capitalismo clientelare, legato anche alla politica, e in contesti di separazione fra proprietà diffusa e management); infine, una modifica delle norme sociali che ha portato a considerare accettabili super-retribuzioni in altri tempi definite oscene. Pensiamo anche al pubblico, dove si sono alzati gli stipendi del management in base all'assunto che altrimenti si sarebbero persi i migliori a vantaggio del privato.

Guadagnano anche per ridurre i salari operai. La situazione dipende strettamente dal ruolo del potere dei manager di cui sopra, che rende di fatto quelle retribuzioni come un elemento fisso e incomprimibile. Addirittura molti manager hanno super-bonus nella misura in cui riescono a ridurre la massa salariale pagata complessivamente... Ecco, al top della retribuzione, l'azione sindacale può purtroppo fare ben poco, se non cercare di porre sempre più l'attenzione in modo da invertire quelle norme sociali pro-ricchi di cui dicevo prima. Il principale ruolo sarebbe dell'azione pubblica che dovrebbe porre una serie di misure vere per combattere la presenza di rendite nei mercati. Le super-retribuzioni sono sempre il frutto di rendite dovute a una distribuzione diseguale del potere fra manager e azionisti e lavoratori, trattandosi di manifestazioni di potere estremo in mercati lungi dall'essere concorrenziale, come accade per i big tech.

 

Da collettiva