Xinjiang, antiterrorismo e controllo sociale
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- Scritto da Maria Morigi
20 gennaio 2022
Il termine Changzhi jiu’an, fin dall’antica Dinastia Han significa “stabilità permanente”, “sicurezza a lungo termine”. Oggi il termine esprime i concetti di Stato securitario e stabilità, visto che esigenza prioritaria è tutelare l’unità nazionale combattendo separatismo e terrorismo. Se dal 2018 gli attentati terroristici nello Xinjiang sono diventati più sporadici e la situazione appare nettamente migliorata, al contrario si intensificano gli attacchi provenienti dalla stampa atlantista che mira a screditare la governance della Repubblica Popolare cinese. Tanto che Pechino convoca, periodicamente e con frequenza, congressi e seminari aperti alla stampa mondiale in cui si discutono problemi in vari settori, dall’industria del cotone alla situazione sanitaria, ma si risponde anche - con testimonianze dirette e credibili - alle accuse (“genocidio”, repressione, lavori forzati ecc.) mosse alla Cina da parte di sedicenti agenzie e difensori dei diritti umani.
E’ singolare osservare la differenza di metodo - rispettivamente in RPC e nel mondo occidentale –con cui vengono affrontati i temi dell’antiterrorismo e del controllo sociale. In seguito per esempio ad un attentato di matrice islamista, le nostre autorità si profondono in grandi proclami tipo “non ci faremo intimidire”, in riferimenti ai “valori democratici” della nostra civiltà, organizzazione di fiaccolate di solidarietà e, ovviamente, mobilitazione delle forze dell’ordine per arrivare ad identificare colpevoli e ispiratori dell’azione terroristica.
Pechino affronta il tema dell’ anti-terrorismo in tutt’altro modo. Innanzitutto non ne fa una questione conclamata sui social, ma, affermando che stabilità e sicurezza sono prioritarie in Xinjiang, implementa misure specifiche di controllo. Fin dalla costituzione nel 2001 della “Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai” (SCO), gli indirizzi politici prevedevano il rafforzamento del controllo sugli affari religiosi ed etnici. Fecero seguito la creazione del Consiglio di Sicurezza Nazionale annunciato il 12 novembre 2013 durante la 3° sessione del 18° Comitato Centrale del PCC e il lancio nel 2014 (dopo gli attentati a Pechino, Kunming e Urumqi) della campagna Strike Hard per combattere, insieme al terrorismo, corruzione e illegalità.
La campagna del “colpire duro” è sostenuta dalla Legge Antiterrorismo approvata dall’Assemblea Nazionale del Popolo il 28 dicembre 2015 (operativa nel 2016) in cui il terrorismo è definito come “qualsiasi proposito o attività che, attraverso mezzi violenti, sabotaggio o minaccia, generi panico sociale, mini la sicurezza pubblica, violi i diritti personali e di proprietà, e minacci gli organi governativi e le organizzazioni internazionali, allo scopo di portare avanti un certo obiettivo politico e ideologico”. Il testo della Legge stabilisce che la Cina “si oppone a tutte le forme di estremismo che cerchino di istigare all’odio, incitare alla discriminazione e fare appello alla violenza attraverso la distorsione delle dottrine religiose ed altri mezzi”.
Col fine di sradicare le basi ideologiche del terrorismo,la Legge implementa la normativa in materia di sicurezza pubblica e di procedura penale, inoltre fissa le linee guida per la cooperazione internazionale. Sono previsti: creazione di un’intelligence specializzata per coordinare le risposte agli attentati terroristici, misure sulla gestione della sicurezza cibernetica, ispezioni sui materiali ritenuti pericolosi, controllo e prevenzione dei finanziamenti ai terroristi.
Sul piano operativo, l’articolo 18 dispone che gli operatori delle telecomunicazioni e i servizi di provider Internet attivi in Cina siano tenuti a fornire supporto e assistenza tecnica alla polizia, inclusa la decrittazione dei sistemi operativi. La Commissione Militare Centrale inoltre ha l’autorizzazione ad effettuare operazioni tramite l’ Esercito Popolare di Liberazione.
Ricordiamo anche la necessità espressa a marzo 2017 di “fortificare la Grande Muraglia” che protegge l’unità nazionale e la solidarietà interetnica, con l’obiettivo di debellare i “Tre Mali” (estremismo, terrorismo e separatismo). Il presidente Xi Jinping ha chiarito le basi teorico-legali della lotta al terrorismo: “il terrorismo nega i Diritti Umani fondamentali, calpesta la giustizia umanitaria e contesta le norme condivise della civiltà umana. Il terrorismo non è una questione di etnia, né una questione di religione; i terroristi sono il comune nemico di tutti i gruppi etnici” Citato in Li Wei, Cina e Antiterrorismo, il metodo cinese nella cooperazione internazionale e contro il terrorismo (Anteo ed. 2019, pag176)
Infine sono fondamentali i progressi compiuti nell’industria digitale: dal 2017, un programma prevede la raccolta delle informazioni biometriche (compresi impronte digitali e DNA) per qualsiasi operazione che coinvolga l’ hukou, il permesso di residenza necessario all’iscrizione in una scuola pubblica o all’ottenimento del passaporto[1]. Nelle città più a rischio, sono messe in atto tecnologie sempre più efficaci: telecamere, check-point dotati di scanner identificativi nelle stazioni di treni e autobus e nelle principali strade, polizia dotata di dispositivi portatili per analisi vocale e scannerizzazione di smartphone alla ricerca di contenuti sospetti, restrizioni sul web ecc.. Il bagaglio di dati personali è ormai (dal 2020) integrato al capillare sistema di videosorveglianza. Un traguardo riuscito se si considera che in alcune stazioni ferroviarie la polizia pattuglia utilizzando occhiali per il riconoscimento facciale che in pochi secondi smascherano i viaggiatori in possesso di documenti falsi. Scopo del programma, già bollato da acuti osservatori occidentali del Manifesto come “leninismo digitale”[2], è infatti quello di adottare un processo decisionale scientifico per promuovere una governance sistematica e innovativa che garantisca stabilità sociale.
La strategia di integrare i tradizionali metodi di controllo con le più recenti tecnologie non si limita al solo Xinjiang, ma investe tutto il Paese ed è già realizzata nelle grandi città, per smascherare evasori fiscali, contratti di lavoro non regolari, commercianti abusivi, passeggeri senza biglietto sui mezzi pubblici e altro. I suoi risultati si sono dimostrati molto efficaci nel combattere la pandemia,
in quanto perseguiti nell’ambito di una pianificazione ben gestita e con la piena partecipazione collaborativa dei cittadini che si dichiarano soddisfatti.
Infine viene da chiedersi: come mai tanti accusatori della Cina? quando anche da noi, se non ci fossero telecamere e strumenti di controllo - monitoraggio, nessun delinquente / violentatore / sabotatore / evasore di regole/ approfittatore…ecc. verrebbe perseguito?.
Si tratta forse della famosa “doppia morale” applicata a chi dispiace agli States?. E a fronte di tante accuse ci si chiede: perché e da chi proviene l’ invasività (o interferenza) con cui tanto accanitamente si accusa la Repubblica Popolare e il governo della Regione Autonoma Xinjiang
Maria Morigi componente del Comitato scientifico del CIVG
[1] https://cinaoggi.it/2017/12/20/la-cina-trasformato-lo-xinjiang-un-laboratorio-controllo-sociale/.
[2] Articolo in China Files “Laboratorio Xinjiang” del 6 luglio 2018 di Alessandra Colarizi pubblicato dal Manifesto (https://medium.com/china-files/laboratorio-xinjiang-b1ce6b389aca)