Il ruolo dei tecnici nell’industria e nella ricerca.

30 Novembre 2021

Questo testo è il frutto della riflessione di un gruppo di ingegneri, dottorandi di ricerca o persone che lavorano nel settore privato, solidali con la Gkn, la fabbrica metalmeccanica di Campi Bisenzio occupata dagli operai dal 9 luglio 2021, quando la proprietà – il fondo di investimento britannico Melrose – ha comunicato la decisione di delocalizzare la produzione e licenziare tutti i dipendenti. Uno stabilimento che produce semiassi per automobili, il cui principale cliente è Stellantis-FCA. Come gruppo, abbiamo deciso di rispondere all’appello del collettivo di fabbrica e mettere a disposizione il nostro tempo per contribuire a immaginare delle proposte di riconversione della fabbrica, una riconversione pensata con le teste degli operai e non sulle teste degli operai.

La prima riflessione che facciamo verte sulle condizioni in cui si trova a fare ricerca oggi, in Italia, un dottorando di ricerca. Il progressivo definanziamento dell’università italiana negli ultimi anni ha messo i dipartimenti nella condizione di dover reperire i fondi da altre parti; in particolare nelle discipline scientifiche, che hanno costi di laboratorio maggiori, la maggior parte dei fondi per fare ricerca vengono trovati grazie al “generoso” intercedere di soggetti privati, che però impongono le proprie condizioni. Si tratta spesso di condizioni relative alle tematiche di ricerca, per cui su cosa orientare la ricerca, quali problemi affrontare, è prestabilito, oppure anche condizioni più stringenti: per esempio, se la ricerca dovesse fruttare qualcosa di concreto, come un prototipo o un brevetto, questo non sarà nemmeno in parte proprietà dell’università (salvo poche eccezioni), che ha contribuito a svilupparlo (e a volte lo ha sviluppato quasi per intero), ma sarà di proprietà dell’azienda che ha finanziato o co-finanziato il progetto di ricerca, con la ragione che senza i soldi del privato il brevetto non ci sarebbe stato, sminuendo così i costi che invece l’università ha dovuto sostenere per svolgere quel lavoro di ricerca.

Questo accade in tanti campi. In uno dei dipartimenti universitari in cui lavoriamo, presso l’Università di Firenze, è il caso dell’azienda Leonardo, ex-Finmeccanica, uno dei più grossi contractor della difesa, presente in Toscana in due siti produttivi, (Campi Bisenzio e Montevarchi), che finanzia costantemente progetti di ricerca. Ma quanto detto vale anche per altre aziende, molte operanti nel comparto militare. La conseguenza di questo è che l’Università di Firenze sviluppa tecnologie all’avanguardia come radar per carri armati o software per droni, tecnologie che non contribuiscono per nulla al benessere della popolazione della Toscana o del resto del paese, e che sono invece mortali per coloro che vivono nei teatri di guerra dove poi quelle tecnologie vengono impiegate. Però, a causa del potere economico che le riforme dell’università hanno messo in mano a queste aziende private, ci si trova nella condizione di avere molte attività di ricerca che non producono alcunché di buono per la collettività.

Per inciso, ci piace fare il confronto con un paese come Cuba, che con possibilità tecnologiche molto inferiori rispetto a quelle che possono esserci nell’università italiana riesce a sviluppare brevetti e invenzioni che garantiscono il benessere della popolazione (cubana e non), come nel caso del vaccino per il Covid19 che hanno sviluppato senza aiuti esterni.

Questa condizione dell’università italiana è destinata a peggiorare, chiaramente a meno che una mobilitazione non riesca a imporre un cambiamento di direzione da questo punto di vista. I fondi del Pnrr ne sono un esempio, in quanto devono sottostare a una serie di condizionalità per essere erogati. Da quest’anno si è vista una grossa spinta da parte dell’ateneo fiorentino per finanziare – in parte grazie proprio al Pnrr – un maggior numero di posti di dottorato industriale, che però vanno a togliere posti alle borse di dottorato classiche. Il dottorato industriale si fa all’interno di un’azienda, con un progetto di ricerca scritto sostanzialmente dall’azienda, anche se formalmente dovrebbe proporlo il candidato. Questi dottorandi dunque si ritrovano per tre anni a utilizzare strutture, tempo, soldi, laboratori, strumentazione dell’università, per sviluppare prototipi e invenzioni con lo scopo di portare benefici a un soggetto privato che finanzia questi posti di dottorato in misura minima rispetto ai benefici che ne trae.

Cosa c’entra questo con la vicenda della Gkn? Per fare un esempio, nello stabilimento della Gkn c’è una macchina che si chiama Vision, che è stata sviluppata da un dottorando dell’università di Pisa, che, quindi, per due o tre anni della sua carriera come ricercatore universitario, si è dedicato a sviluppare questo macchinario, il cui brevetto è di proprietà di Gkn, o meglio di Melrose. Un brevetto può essere inteso come beneficio per la collettività nella misura in cui rende una fabbrica efficiente, ma lo è davvero solo se il brevetto è legato al territorio. Se invece è di proprietà di un fondo di investimenti, questo può delocalizzare il brevetto così come tutta la fabbrica.

Sarebbe importante invece mantenere pubblica la proprietà dei brevetti, anzitutto attraverso un maggiore finanziamento pubblico dell’università. Oggi le università, a causa della presenza anche di privati nei consigli di amministrazione, sembra non abbiano interesse ad avere brevetti pubblici, ma in ogni caso non hanno la forza economica, né lo stato ha quella produttiva, per poterli utilizzare; quei pochi brevetti pubblici che ci sono raramente hanno delle applicazioni che consentono di farli fruttare. Alla Gkn abbiamo anzitutto cercato di fare una valutazione dei macchinari presenti nello stabilimento e degli investimenti per l’automazione realizzati dal management negli anni scorsi. “Gkn è un’azienda all’avanguardia, altamente automatizzata e punto di riferimento per l’industria 4.0”: questo era lo slogan del management aziendale.

L’industria 4.0 indica un nuovo paradigma produttivo che fa affidamento sulle potenzialità della robotica nella produzione e che risponde soprattutto a tre esigenze cardine: primo, la connettività e la digitalizzazione, cioè il fatto di raccogliere continuamente dati all’interno dell’azienda, sulle linee produttive; secondo, garantire maggiore sicurezza e minore usura fisica del lavoratore; terzo, poiché i concetti che vengono introdotti in un sistema capitalistico non possono prescindere da questo, un incremento della produttività.

Noi nello stabilimento della Gkn non abbiamo trovato niente di tutto ciò. Da un lato, la produttività delle futuristiche celle 4.0 automatizzate non era poi diversa dalle versioni precedenti, che presentavano un grado di automazione minore; dall’altro lato, i dati che venivano raccolti dalle macchine non presentavano un minimo coordinamento volto a una maggiore efficienza e alla risoluzione di criticità che si ripresentavano poi sempre in modo ciclico. E, infine, dal punto di vista dell’usura fisica del lavoratore, guardando al funzionamento concreto delle celle automatizzate ci siamo resi conto che nell’idea di fabbrica della proprietà gli operai sono maratoneti, che passano otto ore al giorno a correre come delle trottole intorno a una cella automatica, e solo l’azione sindacale ha in parte contenuto questo fenomeno.

Le proposte di riconversione e di miglioramento che ci siamo prefissati come obiettivo per ora vertono su tre binari. Il primo è quello della digitalizzazione e della raccolta più organizzata di informazioni da parte delle macchine, con l’obiettivo di risolvere delle problematiche sulle celle di produzione che si presentano in modo sistematico. Il secondo è immaginare qualcosa che faccia impazzire un po’ meno l’operaio e che funzioni in modo più lineare rispetto alle macchine che ci sono ora. I dipendenti della Gkn erano circa 500 ed erano pochi per quello che dovevano fare. L’azienda cercava di non pagare stipendi in più, ma sarebbe più intelligente avere più di un operaio su alcune macchine, perché si eviterebbero tempi morti e inceppamenti. Una criticità importante di questo stabilimento è il fatto che ci sono almeno 800.000 euro di robot di troppo per ogni cella automatica, acquistati con l’aiuto anche dei contributi statali all’industria 4.0.

Il terzo obiettivo è quello di contribuire a pensare la riconversione, cercando di valorizzare il sapere operaio che si è sviluppato durante i 70-80 anni di vita di questa realtà industriale. Questa è l’unica cosa che di fatto Gkn-Melrose non può delocalizzare.

La priorità di questa azienda deve essere quella di continuare a produrre semiassi per autoveicoli, perché ci sono macchinari per produrre i semiassi, operai che sanno farlo, tecnici che sanno riadattare la produzione per fare semiassi per differenti modelli di automobile. Si potrebbe potenziare la produzione di semiassi per l’auto elettrica, che in parte in Gkn già veniva fatta. A questo fine si potrebbe utilizzare, per una volta a nostro vantaggio, il Pnrr, in cui è previsto l’acquisto di circa 8.000 autobus elettrici per rivoluzionare la flotta del trasporto pubblico urbano. Si può immaginare un semiasse per un autobus elettrico prodotto dalla Gkn; stiamo lavorando allo sviluppo di un primo prototipo di questo semiasse. Per fortuna, il semiasse per le auto elettriche non è molto diverso da quello per le auto con motore a combustione interna, quindi la progettazione non è eccessivamente complessa.

Tuttavia, stiamo provando a immaginare una Gkn futura in cui non si producano solo semiassi, perché il settore dell’auto è in crisi, perché non sappiamo se la domanda calerà ed è necessario cautelarsi. La Cina diventerà un produttore di automobili elettriche molto importante e quindi le grandi case automobilistiche occidentali soffriranno, in qualche misura, di una contrazione della loro capacità produttiva. Per questo abbiamo provato a immaginare qualcosa che fosse nelle corde degli operai, che hanno fatto storicamente grandi battaglie per il riconoscimento delle malattie professionali: abbiamo provato a sviluppare dei prototipi di esoscheletro, che vadano a vantaggio sia degli operai stessi che lavorano in Gkn, sia di qualsiasi operaio metalmeccanico ma anche di altri settori in cui lo sforzo fisico prevede la movimentazione di carichi importanti, come ad esempio il settore dell’edilizia. Un esoscheletro, quando si tratta di spostare materiali pesanti, può fare la differenza tra il ritrovarsi a quarant’anni con la schiena completamente andata e l’ernia del disco, oppure riuscire ad arrivare fino alla pensione abbastanza integri. Questo peraltro si tradurrebbe anche in un vantaggio per il nostro sistema sanitario e quindi di nuovo si va a pensare a una riconversione che possa avere anche dei vantaggi per la collettività e per il pubblico.

È importante cambiare il ruolo del tecnico all’interno dell’ambiente di fabbrica, specialmente dell’ingegnere ma in generale di tutte le figure tecniche. Queste figure ricoprono un ruolo a metà tra quello degli operai e quello della dirigenza che prende le decisioni. Tuttavia, spesso il tecnico, che comunque è un salariato (e quindi perde il lavoro in caso di chiusura e delocalizzazione della fabbrica proprio come un operaio) si sente più vicino alla dirigenza aziendale che all’operaio per il solo fatto di avere un livello un po’ più elevato di contratto, di tutele e di salario. Noi abbiamo voluto mettere in discussione questa gerarchia; ci siamo detti che la fabbrica può sicuramente funzionare senza padroni, forse non può funzionare senza tecnici, ma allora proviamo a costruire una relazione orizzontale e non gerarchica, in cui i 70 anni di storia operaia della Fiat, prima di Novoli, poi Campi Bisenzio, poi Gkn, si parlino con chi fa o ha fatto ricerca e può dare il proprio contributo per provare a sostenere questa lotta.

Fonte: gliasinirivista.org