“Agricoltura e contadini nella Cina d’oggi”: una recensione e alcune riflessioni

 

 

L’esplorazione e lo studio dell’agricoltura cinese sono un’attività entusiasmante e affascinante, in quando obbligano a ricercare un nuovo paradigma, a scavare in un’altra maniera di concepire, intendere e praticare l’agricoltura. Nel farlo, l’osservatore deve dissociarsi dalla pretesa universalità del modo di pensare occidentale. Deve riconoscere che esistono altri modi, e altri paradigmi, che possono rivelarsi altrettanto efficaci ed efficienti di quello occidentale

Jan Douwe van der Ploeg

 

Agricoltura: un grande assente nel dibattito mainstream sulla Cina

Due anni fa, il 23 giugno 2019, nel corso della 41esima sessione della Conferenza FAO tenutasi a Roma, Qu Dongyu venne eletto direttore generale dell’agenzia delle Nazioni Unite che dal 1945 si occupa di alimentazione e agricoltura. Sbaragliando la francese Catherine Geslain-Lanéelle (in quota UE) e il georgiano Davit Kirvalidze (sostenuto dagli Stati Uniti), il biologo 56enne originario della provincia dello Hunan è il primo cittadino della Repubblica Popolare Cinese (di cui è stato viceministro dell’Agricoltura e degli Affari Rurali) a rivestire questa prestigiosa carica.

Anche nell’ambito delle politiche alimentari e agricole la Cina sembra avere qualcosa da dire al resto del mondo. Per farlo, si avvale dell’esperienza di uomini e donne che negli anni hanno dovuto affrontare numerose sfide in campo agricolo, ottenendo risultati eccezionali ma commettendo anche gravi passi falsi, in un continuo sforzo di “riaggiustamento”.

Tuttavia, fra i mille ambiti toccati dal dibattito pubblico concernente la Cina in Occidente, la questione agricola è raramente (e malamente) approfondita. Cosa sappiamo della “ruralità” in Cina? Come funziona l’agricoltura in un paese che conta un miliardo e mezzo di bocche da sfamare? Che ruolo hanno avuto e continuano ad avere i contadini nella società cinese? Come si autopercepiscono? Usufruiscono di qualche beneficio governativo? Quali relazioni sussistono fra la campagna e la città? La presenza dello stato è davvero asfissiante? Che ruolo gioca il mercato? Cosa possiamo imparare dalla Cina in campo agricolo?

A queste e altre domande prova a rispondere in poco più di 150 pagine Jan Douwe van der Ploeg, professore di sociologia rurale presso l’Università di Wageningen (Olanda) e la China Agricultural University di Pechino, in un saggio tradotto in italiano da Andrea Grechi e pubblicato da Donzelli Editore nel 2019, dal titolo “Agricoltura e contadini nella Cina d’oggi”. Un saggio che ha il merito di trattare in modo sintetico, ma rigoroso, un tema su cui sappiamo veramente poco…

 

Un apparente paradosso

L’autore parte da alcuni dati apparentemente sorprendenti: il sistema agricolo cinese è primo al mondo per capacità produttiva, contribuendo da solo a coprire il 20% della produzione alimentare globale; eppure, in Cina si concentra solo il 10% della superficie coltivata del pianeta e, ciò che è ancora più interessante, tale superficie è ripartita in 200 milioni di unità produttive relativamente piccole (in media 5 mu, corrispondenti a circa 0.33 ettari), a gestione famigliare. Si noti bene: unità produttive piccole e a gestione famigliare. Rispetto all’agricoltura occidentale, basata su unità produttive gigantesche, siamo quindi di fronte a un approccio opposto, che secondo i nostri parametri di riferimento non dovrebbe funzionare efficacemente. Oltre ai limiti spaziali e al bizzarro modo di ripartire i terreni disponibili, si aggiungono altri aspetti a prima vista controproducenti. Si pensi per esempio al notevole flusso di forza lavoro maschile (circa 200 milioni di uomini) diretto ogni anno dalle campagne verso le grandi metropoli cinesi, che si verifica ormai da tempo e scarica sulle spalle di donne e anziani una quota notevole di impegno nei campi, almeno per un certo periodo. Per non parlare dell’atteggiamento culturale nei confronti dell’agricoltura, che non è immediatamente percepita da chi la pratica come un’attività economica in senso stretto: “(…) l’agricoltura è orientata principalmente a provvedere ai bisogni alimentari della famiglia. In secondo luogo, è concepita come una sorta di assicurazione sulla vita. Solo in via subordinata viene vista come un mezzo per fare soldi”. Alla luce di tutto questo, la resa dell’agricoltura cinese dovrebbe essere tremendamente scarsa…

E tuttavia, al netto di alcune importanti criticità (non certo ignorate dall’autore, si veda sotto) questo sistema sembra funzionare piuttosto bene. Addirittura, a differenza di altri paesi dell’Africa o dell’America Latina, dove l’imponente processo di industrializzazione avviato negli ultimi anni ha condotto ad un drammatico deterioramento delle condizioni di vita della popolazione rurale, in Cina “questo processo si è accompagnato a una rivitalizzazione della classe contadina”.

Come è possibile?

 

Le ragioni dell’efficienza agricola cinese: l’importanza della famiglia e del lavoro

Nella storia delle moderne politiche rurali cinesi, merita particolare attenzione un avvenimento noto come “la pacifica sollevazione”, avvenuta nel 1978 nel villaggio di Xiaogang, nella provincia di Anhui. Resisi conto dei limiti intrinseci del sistema delle comuni sino a quel momento vigente nelle campagne, diciotto contadini decisero di spartirsi clandestinamente la terra assegnata alla propria brigata di produzione. La pratica si estese nel giro di poco tempo, erodendo l’impalcatura su cui si basava l’economia agricola cinese. Così, un approccio inizialmente tollerato solo da pochi dirigenti politici locali, iniziò ad essere attivamente sostenuto anche a livello nazionale, imponendo in definitiva una radicale riforma agraria. Nacque così il “Sistema di responsabilità famigliare”. Da allora, ciascuna famiglia contadina possiede il proprio appezzamento di terreno, di cui è totalmente responsabile.

Nella storia delle riforme agrarie, il passaggio al Sistema di responsabilità famigliare adottato in Cina è particolarmente interessante per una ragione: “fu la prima riforma agraria ridistributiva nella quale il rapporto terra-uomo appena introdotto eguagliò il rapporto medio terra-uomo”. Detto in altri termini, si trattò di una riforma che ottimizzò meglio di molte altre il rapporto fra superficie di terreno disponibile e uomini effettivamente necessari a lavorarla. Per fare alcuni esempi, a seguito della riforma agraria del 1952, in Egitto ciascuna impresa agricola poteva contare in media su 2.6 acri (contro gli 1.8 ottimali); analogamente, nel 1963 in Iran si raggiunse uno scarto dell’80% fra rapporto terra-uomo ottimale ed effettivo; in Perù, tra il 1969 e il 1974, addirittura del 400%. Allargare questa forbice significa compromettere la produttività e precludere a fette larghissime di popolazione rurale l’accesso alla terra. “Nonostante alcune eccezioni temporanee, la Cina rappresenta la principale discontinuità radicale e duratura in questa tendenza mondiale verso l’emarginazione e l’esclusione”. È vero, in Cina molte persone lasciano la campagna, ma si tratta di un drenaggio solo momentaneo di risorse umane. Niente a che vedere con i drammatici scenari africani o sudamericani. I contadini cinesi tornano a casa dopo aver lavorato nelle fabbriche (e da qualche tempo stanno anticipando sensibilmente l’età di rientro), e questo garantisce al tempo stesso continuità del lavoro e miglioramento delle condizioni di vita di tutta la famiglia. Infatti, il denaro guadagnato in città lavorando nelle fabbriche consente di bypassare il sistema bancario, scongiurando il rischio di indebitamento. Afferma uno degli imprenditori agricoli intervistati: “Sì, tutti gli investimenti che ho fatto, per piantare gli alberi, allevare le galline e acquistare il camion, li ho affrontati con i miei risparmi. Sono soldi nostri. Sono soldi miei, non li ho presi in prestito, non vengono dalla banca…”.

Oltre al ruolo svolto dal nucleo famigliare, un altro aspetto centrale dell’agricoltura cinese è che la sua intensificazione è basata essenzialmente sul lavoro, non sulla tecnologia. Attenzione: ciò non significa che l’agricoltura in Cina faccia a meno della tecnologia, così come il massiccio impiego della tecnologia in Occidente non fa ancora totalmente a meno del lavoro. La differenza è sottile, ma sostanziale: l’intensificazione basata sul lavoro prevede che la tecnologia venga impiegata per esaltare abilità e competenze del lavoratore, mentre al contrario, l’intensificazione basata sulla tecnologia si basa sulla semplice e sistematica meccanizzazione del lavoro, producendo in definitiva la dequalificazione del lavoratore o la sua esclusione dal processo produttivo. In Cina “(…) la crescita del settore agricolo è un processo gestito dai contadini e radicato nelle decisioni prese da milioni e milioni di famiglie contadine riguardo a cosa produrre, a chi lo produce, in che modo e per quali ragioni. Tali decisioni sono assunte in un contesto nel quale i mercati, le politiche, le opportunità tecnologiche, gli ecosistemi, le relazioni di genere, le relazioni di potere a livello locale e regionale e i repertori culturali sono tutti elementi che rivestono un ruolo importante (e a volte contraddittorio). Tuttavia, questi elementi contestuali non esercitano un’influenza diretta e deterministica nei luoghi della produzione. Essi sono sempre soggetti alle decisioni dei contadini, che li interpretano e li traducono in strategie e iniziative specifiche”. L’economia agricola cinese è trainata da “processi di conversione socialmente definiti”. In altre parole, il denaro guadagnato non viene reinvestito perseguendo una mera logica di massimizzazione del profitto, ma piuttosto di utilità sociale. La dimensione del villaggio conduce il proprietario dell’azienda agricola a interfacciarsi costantemente con altre figure professionali, infittendo la sua rete sociale. Si giunge così a reinvestire in mezzi, infrastrutture e professionalità che molto spesso tornano utili a tutti i nodi di questa rete, non solo alla singola azienda agricola. Diventa allora innaturale, o addirittura dannoso, il semplice perseguimento del profitto ad ogni costo.

 

Quattro problemi ineludibili dell’agricoltura cinese

Ovviamente, il settore agricolo cinese non è esente da contraddizioni, i cui risvolti sono in alcuni casi allarmanti. L’autore individua quattro aspetti particolarmente rilevanti: 1) il degrado ambientale: “Vasti ecosistemi sono stati compromessi, a volte in maniera irreversibile: le falde acquifere sono in via di esaurimento e si registra una massiccia contaminazione dovuta al ricorso generalizzato agli anticrittogamici (…). Tutto ciò ha reso possibili rapidi incrementi di produzione, ma a un prezzo assai elevato, che potrebbe benissimo minare lo sviluppo futuro”; 2) il degrado socio-culturale: “Raggiungere questi tassi di crescita ha comportato tremende privazioni per le decine di milioni di persone coinvolte: le donne e gli anziani ‘lasciati a casa’, che hanno dovuto sobbarcarsi gran parte delle attività agricole, e i bambini che non vedono i loro padri per lunghi periodi”; 3) il degrado demografico: “Alle famiglie contadine è stato consentito di avere due figli, ma l’andamento demografico è tale da generare (in combinazione con gli stenti e la durezza della vita di campagna) rischi enormi per il futuro: ci saranno ancora persone in numero sufficiente per il lavoro nei campi?”; 4) il degrado della qualità alimentare: un “inesorabile scadimento della qualità del cibo che si traduce in ripetuti allarmi alimentari”. Evitiamo fin troppo banali confronti con altri paesi. Chi vorrà approfondire questo genere di comparazioni, troverà nel saggio utili riferimenti bibliografici.

Di passaggio, van der Ploeg affronta anche il tema del cosiddetto land grabbing, l’accaparramento di terreni agricoli che si realizza soprattutto a discapito del continente africano: “Per quanto sia indubbiamente coinvolta (…), la Cina non è, come spesso si presume, il protagonista più attivo di questo fenomeno. I paesi del Golfo persico e i grandi gruppi a capitali occidentali si stanno accaparrando molta più terra rispetto alla Cina. In Africa (…) la Cina si posiziona solo all’ottavo posto in questa speciale graduatoria”; “Inoltre, la terra attualmente controllata da entità cinesi non è quasi mai utilizzata per produrre alimenti da esportare in Cina. I generi alimentari prodotti in loco sono venduti perlopiù sui mercati nazionali”.

Come al solito, la storia è più complicata di quanto si sente e legge normalmente dalle nostre parti…

 

Il mercato nell’agricoltura contadina cinese: uno strumento, non un dogma

Che ruolo gioca il mercato in questo scenario? Un intero capitolo del saggio di van der Ploeg è dedicato a questo tema, e svela dei retroscena piuttosto sorprendenti. Il mercato di Xin Fa Di, alla periferia sud di Pechino, fornisce un esempio eloquente di come funzionino concretamente i giganteschi mercati alimentari cinesi. Xin Fa Di è gestito da una società i cui proprietari sono gli abitanti dell’omonimo villaggio che nel 2002 decisero di ampliare l’areale occupato dal mercato, sorto nei primi anni ’80. Contrariamente a quanto si penserebbe, mercati all’ingrosso come quello di Xin Fa Di approssimano molto bene il modello “ideale” di mercato teorizzato da Adam Smith: qui domanda e offerta si incontrano senza che fra loro si interponga la mano (molto visibile) dei grandi monopoli alimentari. Come sottolinea van der Ploeg, in Occidente tali gruppi costituiscono quelle catene del valore che hanno sancito la fine di qualsiasi libera transazione fra produttori e grossisti: “Qui [in Occidente] grandi sistemi di mercato (come le catene del valore), che spesso nella pratica escludono le interazioni e l’adeguamento reciproco tra domanda e offerta, tendono a favorire strutture agricole sclerotizzate (generalmente prive di flessibilità o resilienza). Al tempo stesso queste ultime alimentano i mercati, non solo con materie prime a basso prezzo, ma anche e soprattutto con valore di cui si appropriano le catene”. Conosciamo bene uno dei risultati più deleteri di questo processo: è l’allargamento del divario tra i prezzi che vengono pagati ai produttori e quelli che vengono pagati dai consumatori. In altre parole: “In Italia, nel 2000, per ogni 100 euro pagati dai consumatori per beni alimentari, gli agricoltori hanno ricevuto solo 25.60 euro. La quota destinata ai vari attori che hanno il controllo della catena è stata di 68.40 euro. Nel 2009 questa ‘quota di gestione’ è arrivata a 72.90 euro, mentre la quota destinata agli agricoltori è scesa ulteriormente fino a 20.10 euro”.

Può suonare strano, ma nei mercati alimentari cinesi vige realmente quel rapporto tra venditori e acquirenti che l’Occidente celebra astrattamente ma non mette in pratica. Questo sistema sembra funzionare bene, perché consente l’approvvigionamento alimentare su base quotidiana di una megalopoli come Pechino: “(…) in Occidente, generalmente si sostiene che il fabbisogno delle grandi città possa essere soddisfatto unicamente da grandi aziende agricole agroalimentari. Xin Fa Di (e mercati simili sparsi per la Cina) dimostrano che non è necessariamente vero. Piccoli produttori e grandi città possono trovare un ottimo punto di incontro in mercati ben funzionanti”.

Scopriamo poi che a Pechino sono numerosi i gruppi di acquisto che mettono a diretto contatto i produttori con i consumatori, il che dimostra come alcune buone pratiche possano funzionare efficacemente anche nel contesto di enormi conglomerati urbani: “(…) le consegne non seguono opportunità commerciali ma accordi sociali. (…) Non fanno parte di reti oligopolistiche più ampie, né sono governati da centri di comando esterni che orchestrano sistemi di mercato più ampi. Questo sistema tende verso una forma incipiente di sovranità alimentare”.

Che ruolo gioca lo stato in questo scenario? Fondamentalmente, corregge il tiro, armonizza, intervenendo laddove le dinamiche di mercato rischiano di portare fuori strada. In altre parole, mentre in Occidente le aziende agricole sono organizzate e producono secondo logiche di mercato ma, concretamente, si interfacciano con catene del valore egemonizzate da pochi gruppi, in Cina le aziende agricole sono organizzate e producono secondo meccanismi che prevedono “la circolarità, la multifunzionalità, le reti sociali, l’auto-approvigionamento” e, nei fatti, si interfacciano con un mercato vero e proprio, seppur suscettibile di interventi statali mirati. Scrive van der Ploeg: “In Occidente il mercato è descritto (e, apparentemente, percepito) come qualcosa di dato. Il mercato è semplicemente fatto così: è una realtà ovvia, che prescinde da qualunque intervento (…). In Cina, invece, il mercato è inteso come qualcosa che viene intenzionalmente costruito, adattato, negoziato, contestato e anche (eventualmente) ridiscusso”.

Riassumendo, siamo di fronte alla “(…) opposizione tra un Occidente che si autodefinisce dinamico, ma che irrigidisce la propria istituzione portante (il mercato), e un Oriente che è spesso considerato come un gigante goffo e lento, ma che in realtà è capace di modellare i mercati secondo i suoi bisogni”.

 

Agricoltura contadina, sovranità alimentare: temi centrali per il prossimo futuro

Abbiamo tentato di tratteggiare per sommi capi ciò che ci ha maggiormente colpito del lavoro di Jan Douwe van der Ploeg. Un lavoro che invita a non considerare il nostro modello agricolo (ma vale per molti altri ambiti) come il migliore fra quelli possibili. Soprattutto, il libro di van der Ploeg contribuisce, da una prospettiva originale, al dibattito su due temi cruciali della nostra epoca: l’agricoltura rurale e la sovranità alimentare.

Come per l’ambito sanitario, l’affidabilità e la stabilità del sistema agricolo sono due elementi fondamentali per garantire il futuro delle nostre società. Viviamo in sistemi complessi, proprio per questo potenzialmente fragili. Immaginare di affidare al fato temi come la salute e la nutrizione umana significa rischiare poste molto elevate, che qualcuno prima o poi dovrà necessariamente pagare. I contadini, come i medici, si prendono cura di sistemi viventi, la cui salute non dipende da leggi economiche, ma da quelle biologiche. Che si pretendono modificabili a proprio totale piacimento, salvo mantenere le sacre leggi dell’economia inviolate. I contadini rappresentano pertanto una forza globale intrinsecamente ostile al dispiegarsi incontrollato di quelle dinamiche caotiche, e sempre più spesso distruttive, in cui vive gran parte dell’umanità. Un aspetto che inizia ad essere indagato con interesse da alcuni autori nostrani. Scrive a questo proposito van der Ploeg: “è importante riconoscere che le società nelle quali vi è una chiara egemonia dei rapporti di produzione capitalistici possono ospitare al loro interno anche vasti settori economici non capitalistici. Questi ultimi possono essere indispensabili per la società nel suo complesso e anche diventare fonte di ribellione e di cambiamento”.

La Cina dimostra anche nel caso dell’agricoltura come sia possibile evitare, o quantomeno mitigare, gli effetti più deleteri dell’approccio neoliberista. È una lezione importante, perché non proviene dall’esperienza circoscritta di gruppuscoli autogestiti che vivono ai limiti della società, ma dalla seconda potenza mondiale. Ovviamente, come insegna la stessa storia della Repubblica Popolare Cinese, non esistono ricette politiche pronte per essere esportate; questa è casomai l’impostazione occidentale... Da noi, le strade concrete da percorrere per trovare un valido compromesso fra le necessità alimentari dell’umanità e i meccanismi produttivi finalizzati a soddisfarle, sono sicuramente molto diverse. Tuttavia, l’idea di fondo alla base di possibili, futuri cambiamenti, ha un carattere universale, almeno a nostro parere: le forze del mercato si possono imbrigliare, manipolare e utilizzare in modo potenzialmente virtuoso. Per farlo, è “solo” necessaria la volontà politica.