AFGHANISTAN BANANISTAN. Cinema, banane e piccole guerre

 

Afghanistan Bananistan: Mark Steyn explains it all to you because I'm busy  cleaning my gun

 

Il cinema di Hollywood è pieno di messaggi nascosti. Frasi o dettagli spesso concentrate in pochi frame che fornirebbero indizi premonitori su piani segreti o avvenimenti futuri come nel famoso caso della data di scadenza del passaporto di Neo in Matrix (11 settembre 2001).

Aldilà di ogni distopia, gli Usa sono ben consapevoli di quanto il cinema sia uno dei medium principali nell’esercizio del cosiddetto soft power e cioè l’influenza culturale e mediatica che contribuisce a consolidare l’immagine degli Stati Uniti nel resto del mondo, in altre parole uno strumento della narrazione o, per meglio dire, della propaganda.

Benché, fin dai tempi di Teddy Roosevelt e dei muckrakers,[1] anche il giornalismo d’inchiesta, la contro-narrazione e l’antimperialismo siano stati veicolati dall’alto attraverso una forma di controllo del dissenso da parte delle elite al potere, autori e registi del secolo scorso hanno cercato di portare sullo schermo le malefatte e le contraddizioni del sistema politico e imperiale statunitense soprattutto nella tradizione del drama politico e giornalistico da Frank Capra a Orson Welles, da Alan J. Pakula a Oliver Stone. Sta a noi cogliere e interpretare i messaggi espliciti o impliciti.

Tra questi grandissimi sicuramente c’è l’attore regista democratico Robert Redford che in una caper comedy dal titolo The Hot Rock del 1972, pronuncia la frase “Afghanistan Bananistan” come segnale per attivare lo stato di ipnosi di un impiegato di banca. Il film non ha nulla a che fare con la politica internazionale ma, considerando la situazione dell’Afghanistan, non si può sottovalutare la potenza di questa espressione che sembra indicare con estrema precisione la funzione e il destino di quel paese proprio alla vigilia del colpo di Stato del 1973 che rovesciò la monarchia e mise al potere Mohammed Daud Khan poi assassinato nel 1978, quando la guerra civile degenerò protraendosi fino ad oggi.[2]

Fin dagli anni ‘50 infatti, gli artisti di tutto il mondo hanno utilizzato l’ambivalente allegoria della Banana per alludere o denunciare i tratti distintivi di una forma imperialista tesa a destabilizzare i paesi sud americani (e non solo) tra cleptocrazia, corruzione, crimine, armi e naturalmente narcotraffico: Canto General di Pablo Neruda (1950), Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez (1967), Il dittatore dello stato libero di Bananas di Woody Allen (1971), Il fascino discreto della borghesia di Luis Buñuel (1972) fino a Banana Republic della coppia De Gregori/Dalla (1978). In un settore equivoco ed esoterico come quello dell’arte contemporanea poi, dalla famosa copertina dell’album The Velvet Underground & Nico (1967), la banana è praticamente onnipresente nelle collezioni private kitsch dei manager delle multinazionali.

È paradossale, ma questo frutto fallico e molliccio è un simbolo che rappresenta l’impero in maniera più veritiera e tragicamente ironica di quanto non faccia l’aquila dalla testa bianca.

Non riusciremo mai a comprendere in fondo le stelle e le strisce se non capiamo le banane e, per farlo, dobbiamo necessariamente ritornare agli albori dell’impero, quando lo zio Sam era ancora bambino e giocava nel cortile di casa.

Giustificata dalla dottrina Monroe, l’intromissione degli Stati Uniti nelle guerre di indipendenza latinoamericane era indirizzata a soddisfare gli appetiti economici dei settori del big business che all’epoca coincidevano soprattutto con il petrolio, le reti di trasporto e con la monopolizzazione della produzione bananiera, degli zuccheri e del tabacco principalmente nelle mani del colosso della frutta United Fruit Company

All’epoca della costruzione del canale di Panama, la compagnia oggi conosciuta come Ciquita, era quasi fusa con il Dipartimento di Stato grazie alla presenza di Robert Lansing e dei suoi fedeli giovani nipoti John F. Dulles e Allen W. Dulles che stavano appunto imparando come si fa a “bananizzare” i paesi assoggettati e cioè gestire il rapporto tra governo locale, il controllo del territorio e gli interessi monopolistici americani sulle risorse minerarie e agricole (frutta, tabacco …  e oppio e coca di conserva).

Fino al 1930, la compagnia disponeva di terreni di proprietà adibiti alla coltivazione intensiva di banane in quasi tutti i paesi latinoamericani (con una presenza particolarmente capillare in Colombia, Guatemala, Costarica e Honduras), possedeva le infrastrutture di trasporto ferroviario e una flotta di 95 navi mensilmente impiegate nella distribuzione oltreoceano dei raccolti.

Se l’America Latina era il cortile di casa degli Stati Uniti, la United Fruit Company era il “giardiniere adibito al taglio delle erbacce”[3] e rappresentava per gli Usa ciò che la Compagnia delle Indie era stata per l’impero della Regina. Tra colpi di stato, campagne propagandistiche, tangenti milionarie e acquisizioni di terreni e imprese operanti in altri settori, la United Fruit Company, sotto l’egida del Dipartimento di Stato, riuscì ad instaurare un sistema di dominio politico-economico in America Latina, ancora oggi perdurante.[4]

Nel suo War is a Racket (1935) il generale Butler, protagonista militare della fase delle Banana Wars, si descrive come un gangster per il capitalismo di Wall Street.

E pensare che ancora non esisteva nemmeno la CIA!

È proprio grazie alle banane che gli Stati Uniti affinarono dunque le loro abilità nel settore della guerra non convenzionale e asimmetrica. Nel 1921, infatti, il corpo della Marina abituato a intervenire così frequentemente nelle Banana Wars, diede alle stampe “Il manuale delle piccole guerre” (Small Wars Manual), un testo di nicchia illustrante le varie strategie per sovvertire i governi scomodi del subcontinente e direttamente ispirato a Small Wars Their Principles and Practice (1896) del colonnello inglese C. E. Callwell in cui sono analizzate le tattiche militari e lesson learned acquisite in Afghanistan dai “vecchi padroni” inglesi nelle due guerre anglo-afgane del 1839 e del 1878. Small War Manual sarebbe stato il punto di partenza verso l’elaborazione successiva di altri documenti di strategia politica e militare su come combattere in determinate aree geografiche, pilotare proteste o rivoluzioni, provocare colpi di stato, condurre operazioni psicologiche e scatenare guerre civili; in breve, le radici delle guerre ibride della nostra contemporaneità affondano nel contesto delle guerre delle banane e fanno tesoro dell’esperienza coloniale inglese in Afghanistan.[5]

Solo dopo queste premesse riusciamo a comprendere appieno il gergo tecnico dell’ex generale della NATO, Fabio Mini, quando afferma che “quella in Afghanistan non è una missione di peacekeeping (…) ma una normale operazione di quelle che noi chiamiamo Small Wars”.

In effetti, che non ci fosse stata una reale volontà di combattere il terrorismo in Afghanistan, è evidente analizzando la tipologia delle offensive che sembrano più incentrate al controllo di determinate zone strategiche, non in senso militare bensì economico, perché legate alla produzione di oppio.[6]

Tornando al cinema, Robert Redford ci ha abituato a film coraggiosi e nel suo Leoni per Agnelli dedicato proprio alla guerra in Afghanistan, ci fornisce una lucida e intrigante versione su come sono state condotte e propagandate le operazioni di guerra. La bravissima Meryl Streep che interpreta una giornalista che sta per scrivere una cronistoria della guerra al terrorismo, non vuole restare vittima della propaganda di un senatore di Washington e dice al suo direttore:

“Sei così vecchio da ricordarti gli Who? Meet the new boss! Same as the old boss! L’era Vietnam, la stessa tattica, l’hanno soltanto riconfezionata. Manderanno dei piccoli plotoni … dei ragazzi come esca. È sempre la solita storia”.

Cambiano le epoche, cambiano gli scenari di guerra ma che si tratti di banane o di papaveri, le operazioni vengono sempre eseguite come da manuale.

 

 

Alberto Piccinni è laureato in Relazioni Internazionali all’Università di Bologna e lavora come cooperante internazionale in Libano e in Algeria. Educatore e MusicArTerapeuta, ha coordinato in Italia e all’estero progetti dedicati all’infanzia e alla disabilità nei campi profughi di lunga permanenza e ricerche storiche e antropologiche nel campo culturale e geopolitico a scopo scientifico o divulgativo.

 

 



[1] Prima forma di giornalismo investigativo che denunciava la corruzione del senato, degli ambienti industriali e della finanza soprattutto sulle riviste tra tutte McClure’s Magazine. Passò alla storia il libro di denuncia del 1904 della giornalista Ida Tarbell The history of Standard Oil, la società petrolifera gestita da John D. Rockefeller.

[2] Intanto il deposto monarca afgano Mohammed Zahir Shah rimase in esilio in Italia fino al 2002.

[3] Emanuel Pietrobon, Banane di Sangue, Lintellettualedissidente.it, 20 giugno 2018.

[4] Nel periodo tra il 1898 e il 1954, Panama, Cuba, Repubblica Dominicana, Nicaragua, Messico, Haiti, Colombia, Honduras, Costarica e Guatemala hanno subito gravi ingerenze da parte statunitense sotto forma di incursioni fulminee, invasioni di breve durata, omicidi mirati di politici e attivisti, colpi di stato e massacri strategici come nel caso del famoso masacre de las bananeras del 6 dicembre del 1928.

[5] “Una guerra ibrida (hybrid warfare) è una strategia militare che impiega una guerra politica e mescola una guerra convenzionale, una guerra irregolare e una guerra cibernetica con altri metodi di influenza, come fake news, diplomazia, guerre legali e interventi elettorali stranieri. Combinando le operazioni cinetiche con gli sforzi sovversivi, l'aggressore intende evitare l'attribuzione o la retribuzione.” da wikipedia.org.

[6] Enrico Piovesana, Afghanistan 2001-2016. La nuova guerra dell'oppio, Arianna Editrice, 2016.