AFGHANISTAN, UNA ULTERIORE DOLOROSA CONFERMA

16 settembre 2021

 

 

           Precedenti storici

La guerra di vent’anni è terminata com’era inevitabile che terminasse.   Una guerra voluta, inutile, costata la vita a 240.000 afghani, in maggioranza civili, ed a 2.500 militari USA, apparentemente scatenata per punire l’Emirato afghano per il rifiuto frapposto da Kabul nel 2001 alla richiesta americana di consegnare Usama bin Laden, ritenuto reo del massacro delle Torri Gemelle in ordine al quale lati oscuri tuttora persistono.

 Una guerra scatenata contro un Paese, in guerra ormai da più di quarant’anni (1979-2021), fino a poco tempo fa retto da un governo presieduto da Ashraf Ghani, scampato alla furia dei Talebani poche ore prima del loro ingresso a Kabul, impedendo così facendo che un ultimo accordo meno disonorevole per gli USA potesse essere concluso con gli islamisti.

Un governo caratterizzato da livelli di corruzione, nei quali, secondo testimonianze rese al quotidiano inglese Guardian, anche personale militare USA era pesantemente coinvolto.

Dove malgoverno ed ostentati privilegi, riscontrabili del resto in altre deturpate realtà del mondo islamico, coesistono con livelli di violenza e noncuranza verso la massa dei sudditi, nell’indifferenza e mal dissimulata complicità della comunità internazionale.

Secondo l’ultima graduatoria redatta dall’organizzazione Transparency International, l’Afghanistan figura tra i venti Paesi al mondo più corrotti e mal governati. Meravigliarsi dunque se i Talebani l’hanno conquistato nello spazio di pochi giorni?

Ashraf Ghani ha trovato un suo rifugio nel dorato esilio di Dubai ivi accolto per “ragioni umanitarie”. Anche in questa occasione gli Emirati arabi uniti non hanno smentito la loro fama di Paese sempre pronto a dare ospitalità a figure screditate e vilipese, seppur finanziariamente ampiamente autosufficienti.

Guerra inutile abbiamo detto dato che, per quel che a posteriori si è appreso, la ragione principale di quella guerra fosse dovuta alla protezione accordata dai Talebani al fondatore di al-Qaeda legato da una profonda personale amicizia a Mullah Omar, il capo a quel tempo degli islamisti afghani e fondatore nel 1994 del movimento talebano.

All’indomani della strage delle Due Torri a New York pareri discordanti si erano manifestati in seno al gruppo dirigente dei mujahedeen in merito all’opportunità che Usama dovesse continuare a beneficiare della protezione dei Talebani. 

Questo lasciava prevedere, secondo un certo numero di analisti, che prima o poi Usama sarebbe stato pregato di lasciare quei luoghi venendo incontro non solo alle pressioni USA ma anche ai desiderata del vicino Pakistan, l’alleato storico degli estremisti afghani, comprensibilmente incline ad evitare che alla sua frontiera occidentale si venisse a creare un casus belli dai destabilizzanti effetti.

Tale premessa è indispensabile per comprendere come le condizioni fossero propizie perché un conflitto che doveva durare vent’anni potesse essere evitato, risparmiando in tal modo centinaia di migliaia di vite umane ed il ritorno trionfale dei Talebani in un Paese ora profondamente cambiato rispetto a quando negli anni novanta esso era sconvolto dalla guerra civile scoppiata all’indomani del ritiro dell’armata sovietica dall’Afghanistan nel 1989.

Mullah Omar fu successivamente ucciso da un bombardamento aereo USA nel 2013. Suo figlio Mullah Mohammad Yakoob, figura estremamente elusiva, quasi mai apparsa in pubblico, è stato recentemente nominato ministro della difesa di un governo risultato tutt’altro che inclusivo e tutt’altro che aperto alle diverse componenti della società afghana.

La morte di Mullah Omar, figura carismatica, ha segnato l’inizio di divisioni e contrasti in seno ai militanti afghani che ha spianato la strada alla penetrazione dell’ISIS nella regione, l’ISIS-Khorasan (ISIS-K), fondato nel 2015, al quale hanno aderito jihadisti pakistani e talebani afghani, visceralmente ostili ai nuovi orientamenti manifestatisi in seno alla leadership talebana.

L’ISIS-K viene giudicato dai servizi occidentali come l’organizzazione più temibile dopo quelle operanti in Iraq ed in Siria, ben approvvigionata dalla struttura centrale che non lesina in risorse finanziarie per renderla altamente performante nella sua terroristica missione.

Vi è inoltre da notare come il rinfoltimento dei ranghi dell’ISIS-K sia stato facilitato dall’irresponsabile apertura delle prigioni da parte dei Talebani al momento della riconquista del Paese che ha consentito la liberazione di migliaia di adepti della formazione fondata nel 2014 dall’iracheno al-Baghdadi.

L’ISIS-K, nemico non solo dei Talebani ma anche di al-Qaeda per divergenti visioni ed un divergente modus operandi, si è reso protagonista negli ultimi due anni di una serie di attentati terroristici in Afghanistan contro obiettivi civili con un impressionante tributo di sangue da parte di vittime innocenti.

Essi sono poi culminati con gli attacchi del 26 agosto, enfaticamente rivendicati dall’ISIS-K, che hanno provocato, oltre ad una strage di civili afghani, la morte anche di tredici marines americani e di ventotto talebani.


 

  

        Ennesimo fallimento

Un vero fallimento per la politica imperiale americana che ha indotto taluni a stabilire un’analogia con la catastrofica ritirata del 1975 dello U. S. Army dall’ex-capitale del Vietnan del sud, Saigon, sotto i colpi dei guerriglieri del Vietminh guidati dal carismatico Ho Chi Minh.

Anche allora un governo corrotto cadde come un castello di carte travolto dal proprio deficit di rappresentatività. Quegli stessi livelli di corruzione e di malaffare riscontrabili nella compagine diretta da Ashraf Ghani, fuggito da Kabul, secondo la testimonianza resa da un alto funzionario afghano, portando con sé la modica somma di $169 milioni.

L’esercito nazionale afghano ed i suoi improvvisati alleati della screditata Alleanza del Nord, non sono stati in grado o hanno rifiutato di opporre un’efficace resistenza a causa anche dell’elevato grado di demotivazione delle unità combattenti, mal pagate, rose dal risentimento provato nei confronti dei privilegi goduti dai clan dominanti, asserviti agli interessi stranieri.

Quel che è accaduto nella prima metà di agosto in Afghanistan ha fatto rivivere quel che si era prodotto sette anni fa nel giugno 2014 in una realtà del Levante, l’Irak.

Anche in quella occasione l’esercito iracheno a favore del quale gli Stati Uniti, al pari di quel che hanno fatto in Afghanistan, avevano investito miliardi di dollari, aveva preferito di non opporre resistenza all’assalto delle orde dell’ISIS giunte quasi alle porte di Baghdad.

Ancora una volta centinaia di miliardi di dollari sono stati gettati alle ortiche da parte degli Stati Uniti, capaci persino di lasciare in mano al nemico sofisticati e costosissimi mezzi bellici, ostentati dai Talebani in occasione del loro incruento ingresso a Kabul.

Il che farà degli islamisti afghani, che hanno ripristinato l’Emirato islamico dell’Afghanistan, la forza militante la meglio armata nella multiforme galassia delle formazioni jihadiste pullulanti ormai in larghi spazi asiatici ed africani.

I Talebani sono ora sotto la guida del leader supremo Hibatullah Akhunzada, il cui figlio è morto in un attentato suicida, personaggio elusivo, rimasto al di fuori ed al di sopra del governo provvisorio recentemente annunciato, scomparso dalla scena pubblica da troppo tempo perché la cosa non desse adito a punti interrogativi finora senza risposta.

 A lui verosimilmente dovrebbe competere, al pari di quel che osserviamo in Iran, la parola decisiva nelle grandi questioni afferenti la sfera politica, militare e religiosa.

Le amare fallimentari passate esperienze dell’interventismo USA non sono servite a nulla, che si tratti delle amare conseguenze derivanti dall’aggressione del 2003 contro l’Iraq o dell’altrettanto fallimentare impresa contro la Libia del colonnello Gheddafi, entrambe portatrici di risultati che non solo hanno permesso al jihadismo militante di espandersi a macchia d’olio ma non si sono rivelate in linea con gli stessi interessi americani, come particolarmente dimostrato dal caso dell’Irak dove l’Iran ha potuto reinserirsi grazie proprio alle conseguenze dell’intervento USA.

More solito con la stessa ostinata imperiale mal meditata coerenza. Ed in conseguenza di ciò in Afghanistan donne, attivisti, giornalisti e tutti coloro desiderosi di non perdere le conquiste sociali acquisite negli ultimi vent’anni, vivono ora nella paura di subire i comportamenti abusivi posti in essere negli anni 90 con malsana brutalità da forze ispirantisi ad una visione degenerata dell’Islam.

Migliaia di afghani hanno dato l’assalto ai velivoli in partenza dall’aeroporto di Kabul per sfuggire ad un sistema di vita, la cui memoria è ben scolpita nella mens collettiva del popolo afghano, ora esposto altresì ai terribili colpi inflitti dal terrorismo dell’ISIS-K, che ripudia qualsiasi accordo o intesa con gli infedeli.

Il regime istallatosi a Kabul mutua la sua ideologia dal credo religioso Deobandi, severo ed ortodosso, ispirato alla scuola di pensiero hanafita, così chiamata dal nome del suo fondatore Abu Hanafi, la prima ad essere creata delle quattro esistenti in seno all’Islam sunnita. La dottrina Deobandi, dal nome della città indiana dove essa è nata, è particolarmente diffusa, oltreché in Afghanistan, anche in India ed in Pakistan. 

Il potere talebano risente tuttavia dei crudeli codici d’onore dell’etnia Pashtoun, il gruppo etnico più numeroso del Paese, abitante gli immensi spazi artificialmente segnati dalla frontiera separante l’Afghanistan dal Pakistan.

Molti dei commentatori dei media occidentali si peritano ora di affermare che l’infame ed inutile guerra, voluta da losche figure come Dick Cheney ed il defunto Donald Rumsfeld, non poteva non andare incontro a quell’umiliante esito.

Al momento è facile dirlo ma lo era di meno all’inizio del conflitto quando un cospicuo numero dei suddetti non esitava ad esprimere la ferma convinzione che quell’intervento si rendeva necessario per via dei contatti intrattenuti dai Talebani con le formazioni jihadiste, in primis al-Qaeda.

Scambiando gli stretti rapporti personali esistenti tra Mullah Omar ed Usama bin Laden per una stretta alleanza tra i Talebani ed al-Qaeda che in quel momento, come già accennato, non esisteva.

Pochi per converso erano coloro inclini fin da allora a ritenere gravido di letali conseguenze un intervento preceduto più di vent’anni prima da un altro, egualmente fallito, posto in essere dall’ex-Unione sovietica, costato la vita a due milioni di afghani ed a decine di migliaia di militari sovietici.

Un intervento, durato dieci anni (1979-1989), nel corso del quale gli USA hanno formato, appoggiato e sostenuto militarmente senza scrupoli di sorta gli estremisti afghani, formatisi in larghissimo numero nelle scuole coraniche in Pakistan, ignari o facendo finta di ignorare le conseguenze derivanti da scelte che dovevano poi pagare a caro prezzo.

Non a caso l’Afghanistan è chiamato il “cimitero degli imperi”. Anche l’impero coloniale britannico aveva patito la stessa infausta sorte un secolo prima, incapace di sottomettere un popolo visceralmente restio a subire il diktat ed i condizionamenti imposti da attori esterni.


 

       Un futuro denso d’incognite

Ed ora un’altra area di pericolosa instabilità si è venuta a creare nel sud ovest asiatico gravida di poco rassicuranti conseguenze per i già precari equilibri dell’allargato subsistema. Le immagini filmate dai media di quel che è accaduto all’aeroporto di Kabul danno l’idea di quel che si prepara in un Paese dove manifestazioni di dissenso e di rifiuto verso i nuovi padroni hanno avuto e continuano ad aver luogo con il loro cruento lascito.

Alcuni osservatori si chiedono quale grado di sostenibilità potrà vantare un regime che, oltre a soffocare gli aneliti di un popolo ostile a vedere calpestata la sua libertà e la sua bandiera, viene a trovarsi confrontato ad una gravissima carenza di mezzi e di risorse.

In effetti gran parte degli averi liquidi della Banca centrale afghana sono depositati presso banche USA. Il che ha consentito quasi immediatamente agli Stati Uniti di congelare $9,5 miliardi appartenenti all’Afghanistan dei quali le nuove autorità del Paese, appartenenti alla pletora delle formazioni definite “terroriste” dalle cancellerie del pianeta. non potranno quindi de jure minimamente beneficiare.

Analoga risposta è stata fornita sia dal Fondo monetario internazionale che prontamente, né poteva essere altrimenti, ha a sua volta bloccato l’erogazione di qualche centinaio di milioni di dollari cui in verità gli afghani avevano diritto in base al meccanismo dei cosiddetti “diritti speciali di prelievo” (SDR), come previsto dalla prassi vigente in seno al FMI, sia dalla Banca Mondiale che ha sospeso l’erogazione di $800 milioni a titolo d’aiuto all’Afghanistan per l’anno in corso, interessante particolarmente il settore sanitario, creando in tal modo una situazione disperata per gli ospedali ed altri centri affini, non più in grado di curare ed assistere malati.

A partire da questo momento nei confronti di uno dei più poveri Paesi del mondo gli aiuti saranno implacabilmente sostituiti dalle sanzioni che incideranno ulteriormente su un quadro economico e sociale disastrato dove il flagello della fame verrebbe ad aggiungersi agli effetti di una terribile siccità e di un’assistenza sanitaria sempre più carente.

In definitiva quel che resta in termini di fonti di reddito per gli estremisti sunniti afghani viene a ridursi in larga misura al settore informale, in particolare ai proventi derivanti dalla coltura dell’oppio, dei quali verosimilmente la nomenclatura al potere sarà la principale beneficiaria, nonché all’imposizione di tasse a carico della esasperata indigente massa dei sudditi.

Nulla di tutto questo allevierà in minima misura la disperante quotidianità degli afghani. Il che spiega la massa di coloro che cercano di fuggire da quel che si preannuncia uno scenario da incubo.

In queste condizioni, descritte dal responsabile del Programma alimentare mondiale David Beasley una sorta di “Inferno in Terra”, una vera catastrofe umanitaria, riesce arduo immaginare come l’Afghanistan non vada ad infoltire la lista dei cosiddetti “failed states”, il risultato più evidente della strategia del “regime change” perseguita per decenni dalle cancellerie occidentali nell’area islamica (Iran, Algeria, Iraq, Afghanistan, Siria, Libia e, seppur indirettamente ma in maniera altrettanto brutalmente impattante, lo Yemen).

Dalla mal concepita avventura afghana gli Stati Uniti hanno visto la loro immagine ulteriormente lesa con conseguenze non positive anche sul fronte dei rapporti con i partner europei.

Un investimento colossale ed un prezzo amaro, molto amaro, in termini umani e finanziari vanificatosi in pochi giorni come neve al sole. Un colpo terribile alla credibilità politica del più potente Paese al mondo.

La serie dei fallimenti della policy di dominio e sfruttamento USA iniziata alla metà degli anni ’70 nel sud est asiatico e proseguita nelle terre d’Islam si è arricchita di una nuova mal odorante “gemma”, questa volta nel sud ovest del medesimo continente.

Ed una nuova sfida si presenta ora per la potenza americana chiamata a reperire una sorta di relazione con i nuovi padroni a Kabul nell’ottica di politiche volte ad evitare che dal caos afghano il terrorismo jihadista o altri attori della regione colmino il vuoto lasciato dalla sua disastrosa uscita dal teatro afghano.

 

        Un nuovo “Great Game”?

Il vuoto lasciato dagli USA attirerà le attenzioni dei Paesi della regione, in primis la Cina, già ivi ben presente.

A tal proposito basti pensare alla “Partnership strategica”, prevista per 25 anni, firmata lo scorso marzo con l’Iran, che, seppur tuttora avara di dettagli, resta pur sempre un evento dal rilevante spessore politico nonché al cosiddetto “Corridoio Economico Pakistan-Cina” comportante inter alia l’acquisizione di fatto da parte di Pechino del porto pakistano in acqua profonda di Gwadar sull’Oceano indiano.

Le ricchezze minerarie dell’Afghanistan, delle quali poco si parla, principalmente oro, rame e litio che, secondo recenti valutazioni avrebbero un valore aggirantesi sui $3 mila miliardi, sono un vero eldorado ed è del tutto normale che un Paese confinante come la Cina, alla ricerca di beni di strategica rilevanza, provi per esse interesse.

Vi sono comunque anche considerazioni di ordine strategico che entrano in conto, meritevoli di essere menzionate.

Riuscire a stabilire un proficuo rapporto con i nuovi padroni afghani consentirebbe a Pechino di fruire di un prezioso alleato, incastonato nel bel mezzo di due Paesi quali il Pakistan, alleato storico della Cina, ed ora anche l’Iran con cui i cinesi, come abbiamo visto, possono vantare relazioni profonde, con il quale avviare nel tempo una relazione dai proficui ritorni.

Tanto più importante tutto ciò per il gigante asiatico ove si pensi al precario stato dei rapporti con un altro gigante del subsistema, il nemico storico, l’India, da tempo coinvolta nella rete della Santa Alleanza anticinese orchestrata dagli Stati Uniti in Asia, cui aderiscono anche il Giappone, l’Australia e, in maniera alquanto velleitaria, la Gran Bretagna del nostalgico Boris Johnson, artefice del distacco di Londra dall’Europa.

Questo in larga misura spiega sia la disponibilità mostrata da Pechino ad avviare una costruttiva relazione con Kabul, beninteso “ove certe condizioni siano soddisfatte”, in primis un quadro di stabilità, nonché a loro volta le aperture dei Talebani in direzione del potente vicino, consapevoli dei vantaggi derivanti da una cooperazione con un Paese che fa delle iniziative di aiuto in nevralgici settori a favore delle realtà meno ricche del mondo, quali la ben nota “Belt and Road Initiative” (BRI), uno dei caposaldi della propria proiezione esterna.

Né si può tralasciare un’altra considerazione di non secondario rilievo ovverossia che da un consolidamento dei rapporti con Pechino potrebbe derivare sul piano politico interno anche un consolidamento del sistema di potere dei Talebani alla ricerca di punti di appoggio nella drammatica congiuntura, sotto ogni profilo, materiale, d’immagine e di credibilità, in cui attualmente si trovano.

Le condizioni parrebbero dunque essere propizianti per una penetrazione economica cinese nel turbolento vicino anche se alla luce del contesto afghano, infestato dal jihadismo militante e dove le infrastrutture sono in uno stato fatiscente, le difficoltà e le incognite rendono questo sviluppo più arduo di quel che parrebbe a prima vista.

Una situazione altrettanto delicata e di indubbio rilievo esiste per la Russia, anch’essa presente in quegli spazi. Mosca vanta un’imponente base militare in un Paese confinante con l’Afghanistan, il Tagikistan, con le cui forze armate, unitamente ad unità militari del finitimo Uzbekistan, il Cremlino ha organizzato manovre militari congiunte nei giorni successivi alla presa del potere da parte degli “studenti del Corano”, traduzione nell’idioma Dari, parlato dalla maggioranza degli afghani, del termine Talebani.

La Russia rimane il garante della sicurezza e degli equilibri politico-militari in tutta l’area costellata dalle Repubbliche ex-sovietiche asiatiche. Anche se la Cina ha posto in essere una cospicua penetrazione economico-commerciale nella regione, essa non ha assunto il grado di rilevanza politica della presenza russa sulla quale contano per la difesa dei rispettivi regimi le succitate Repubbliche.

L’atteggiamento di Mosca nei confronti dei Talebani rimane improntato ad una cauta apertura, con ripetute richieste agli islamisti al potere a Kabul di dar vita ad un governo rappresentativo di una società afghana indubbiamente cambiata rispetto al 1996 quando essa cadde per la prima volta sotto la morsa talebana. Cambiamento indotto anche dal progresso tecnologico e dal “soft power” di internet e dei social media, onnipresenti e pervasivi in ogni angolo del mondo.

Quanto la Russia ritenga fattibili gli auspici sopra espressi appare difficile dire alla luce di quel che si è visto finora da parte dei Talebani.

La distruzione di una statua commemorativa di un leader dell’etnia Hazara, Ali Abdul Mazari, professante la fede degli odiati sciiti, brutalmente assassinato dagli estremisti sunniti nel 1995 nonché, secondo quanto riferito dalle Nazioni Unite, recenti efferate abominevoli uccisioni di innocenti civili del succitato gruppo etnico perpetrate dai Talebani in un’area del Paese non paiono in verità gesti rivelatori di un approccio diverso da quello esecrabile del passato.

Da qui la cautela e, alquanto significativamente per il loro impatto, le prime rivelazioni apertamente esternate dal Ministro degli esteri Serghei Lavrov in merito all’esistenza di un movimento di resistenza che ha preso forma e sostanza nella storica valle del Panjshir a nord-est di Kabul.

E’ utile ricordare in proposito come in quella stessa valle nell’oscuro periodo della guerra civile (prima metà degli anni ’90), le forze anti-islamiste ingaggiarono una lotta spietata contro i Talebani prima che questi ultimi prendessero il sopravvento ed il potere a Kabul nel 1996, senza riuscire peraltro a sgominare definitivamente il movimento di resistenza che ha continuato ad essere una spina nel fianco degli islamisti.

L’attuale formazione, denominata Fronte Nazionale di Resistenza (NRF), è ora capeggiata da due personaggi di rilievo, entrambi di etnia tagiki, il deposto Vice-Presidente Amrullah Saleh, nemico giurato degli islamisti, e Ahmad Massoud, figlio di una figura tutt’altro che secondaria della storia afghana, Ahmed Shah Massoud, assassinato da emissari di al-Qaeda appena due giorni prima del massacro delle Due Torri dell’11 settembre 2001.

Combattimenti tra i rivoltosi del Panjshir e le unità talebane, trasformatesi da forze ribelli ad unità governative, hanno avuto luogo in quelle impervie vallate senza che si potessero avere informazioni sicure sul loro andamento a causa della completa sospensione dei collegamenti, telefonici e terrestri, decisa dai Talebani. Il modo migliore, come segnalato da alcuni commentatori, per diffondere false fuorvianti notizie.

L’impervia natura del terreno rende comunque il compito delle unità talebane, provenienti in larga misura dal sud del Paese, assai difficile, alla luce dei precedenti storici. Un completo annientamento dell’NRF appare al momento pressoché impossibile dato che i suoi due leader sono sempre presenti nel teatro di operazioni e non hanno minimamente ammorbidito il loro intendimento di proseguire la lotta.

La resistenza del movimento ribelle avrebbe rappresentato uno dei problemi che ha ritardato l’annuncio della formazione di una compagine governativa fonte di delusioni e preoccupazioni.

 E’ vero comunque che al momento sussisterebbe scarso interesse da parte di attori esterni, fatta forse eccezione per il finitimo Tagikistan, di fornire ai rivoltosi l’aiuto indispensabile perché il movimento si consolidi e si allarghi. Né gli Stati Uniti, né la Francia e nemmeno la Russia parrebbero distaccarsi dal loro atteggiamento di scettica dubbiosa attesa su quel che seguirà.

Resta il fatto che Mosca non ha esitato a dare assicurazioni ai propri alleati asiatici membri dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) che, ove un aiuto fosse richiesto, il Cremlino reagirebbe con prontezza e fermezza.

Ergo mentre da una parte i rapporti della Russia con i Talebani hanno registrato una visibile intensificazione in questi ultimi tempi il che farebbe pensare come gli islamisti siano ben disposti a consolidare la relazione bilaterale, dall’altra Mosca non nasconde le proprie preoccupazioni per uno “spillover” terroristico nei Paesi asiatici membri del CSTO, Kazakhstan, Uzbekistan e Tagikistan, ribadite con chiarezza da Putin in una riunione virtuale con i medesimi partner. Preoccupazioni ampiamente giustificate da quel che seguirà nell’esposizione.

Parlare comunque di una penetrazione russa in Afghanistan risulterebbe inappropriato, come messo in rilievo dagli stessi analisti russi, non solo per una passata guerra contro i fondamentalisti durata dieci anni ma anche in considerazione di mutate dinamiche intervenute nella regione dove altri attori, con i quali Mosca intrattiene positive relazioni, sono in grado di far pesare la loro influenza nel disastrato Paese.

Il riferimento è particolarmente diretto alla Cina ed al Pakistan con cui la Russia vedrebbe con favore una condivisa diplomazia volta a favorire processi di stabilizzazione in Afghanistan suscettibili di contrastare la minaccia jihadista ed anche il più possibile l’influenza delle potenze rivali dell’Occidente.

Per ora comunque quel che si può affermare è il carattere positivo per Mosca e Pechino, che hanno mantenuto la loro presenza diplomatica a Kabul, dei cambiamenti politici prodottisi a Kabul rappresentato dall’umiliante uscita di scena degli americani il cui grado di credibilità ha subito dagli eventi afghani colpi letali dopo quelli altrettanto letali patiti in Iraq, Siria, Egitto e Yemen.

L’intento è ovviamente di trarre profitto dai rivolgimenti prodottisi in quel martoriato Paese nell’attesa che questi cambiamenti si rivelino concretamente propizianti per gli interessi delle due capitali.

Altro Paese comprensibilmente interessato all’evoluzione del tormentato quadro afghano è l’Iran, separato dall’Afghanistan da una frontiera lunga 574 km. La Repubblica islamica vanta con il tormentato vicino storiche affinità, in primis a carattere culturale e linguistico. L’idioma Dari parlato dalla maggioranza degli afghani è infatti la versione afghana del Farsi parlato in Iran.

L’atteggiamento di Teheran, la cui Ambasciata è rimasta anch’essa aperta a Kabul, si avvicina a quello tenuto dalla Russia.

La Repubblica islamica porta avanti un approccio di apertura, nel quadro di una politica iraniana che enfatizza al massimo la dimensione regionale, l’esigenza dunque di mantenere positive relazioni con i Paesi del subsistema, dando un significativo sostegno agli encomiabili sforzi di mediazione del leader iracheno Mustafa al Khadimi, grazie ai quali un processo negoziale è stato avviato tra Arabia saudita ed Iran.

I fattivi contatti intrattenuti da Teheran con i Talebani rientrano in questo ambito, un intento determinato anche dal rilevante numero di rifugiati afghani residenti in Iran, temperato tuttavia da una certa cautela ed un’attenzione alle movenze iniziali dei militanti sunniti le cui assicurazioni su un loro mutato approccio nei confronti delle minoranze continuano ad apparire poco convincenti.

Una prudenza dettata anche da infausti ricordi come quelli relativi al massacro nel 1998 di 11 diplomatici iraniani presso il Consolato di Mazar i Sharif nel nord del Paese nonché alle barbare persecuzioni poste in essere, in passato ed al presente, dai Talebani nei confronti della minoranza sciita degli Hazara.

Le aperture sono per converso dettate dalla umiliante uscita di scena degli Stati Uniti da un Paese di frontiera e dai vantaggi che da uno sbocco del genere potrebbero verosimilmente derivarne per l’Iran, sottoposto alle angherie delle sanzioni USA, causa di un quadro economico disastrato, ulteriormente aggravato dall’espandersi del Covid-19.

Tanto più vero questo quando si pensi anche al deteriorarsi dei rapporti dell’Iran con la Turchia di Erdogan, già manifestatosi nel Kurdistan iracheno, e che potrebbero emergere anche nel tormentato Afghanistan dove, su iniziativa americana, Ankara vede schiudersi interessanti prospettive di inserimento.

Questo giustifica l’interesse iraniano a stabilire una positiva relazione con la dirigenza talebana fondata sul reciproco vantaggio sostenuto dalle innegabili convergenze. Forse più facile a dirsi che a farsi visto il peso delle negative memorie e l’insopprimibile carica settaria e visceralmente nazionalista degli estremisti afghani.

Si tratterà di vedere come simili barriere saranno aggirate da entrambe le parti in nome dei rispettivi superiori interessi. Quel che si può affermare con certezza comunque è che la Repubblica islamica è destinata a svolgere un ruolo d’importanza nell’intreccio diplomatico su scala regionale che ha preso le mosse dalla crisi afghana che ha sprigionato nuove dinamiche e nuovi pericoli.

Il che, a parere di taluni commentatori, potrebbe facilitare l’ingresso formale dell’Iran nella Shanghai Cooperation Organization (SCO), struttura di nevralgica importanza sotto il profilo della sicurezza in Asia centrale, diretta da Mosca e Pechino, della quale Teheran fa parte solo a titolo di Paese osservatore,

Un intreccio diplomatico cui anche la Turchia ha intenzione di prender parte contribuendo, unitamente all’Emirato di Qatar, all’opera di riabilitazione per fini civili del disastrato aeroporto di Kabul. Un contributo che del resto beneficia del favore dei Talebani con i quali i due suddetti Paesi vantano positivi rapporti.

In definitiva Ankara ha carte da giocare in uno scacchiere di strategica rilevanza dove intende portare avanti una sua penetrazione in chiave economico-commerciale, venendo incontro alle aspettative delle imprese turche interessate ad operare nel settore delle infrastrutture.

E’ opportuno tener presente in proposito come i positivi rapporti di Ankara con i Talebani rientrino nella strategia delineata da tempo dal partito di Erdogan (AKP) interessato ad allacciare favorevoli relazioni con gli altri Paesi islamisti sunniti.

Le aperture turche a favore dei Fratelli mussulmani mentre suscitano acrimonia presso le autocrazie del Golfo, eccezion fatta per Qatar ed il Sultanato di Oman, hanno per converso consentito ad Ankara di allacciare nella regione costruttive relazioni con il Pakistan.

Ciò lascia comprendere come l’intento turco sia di garantirsi nel subsistema un proprio spazio ed una autonoma area d’influenza che non pregiudichi comunque i rapporti con gli Stati Uniti segnati dall’appartenenza di Ankara alla NATO.

Washington del resto non vedrebbe con disfavore tale evoluzione, tenendo anche conto del clima larvatamente “confrontational” creatosi tra Turchia ed Iran in altre aree della regione e nel conseguente non dichiarato intento USA di sfruttare il precario stato dei rapporti tra i due Paesi non-arabi nel perseguimento di un approccio nei confronti della Repubblica islamica che, a dispetto di talune distensive dichiarazioni di parte americana, non accenna a smarcarsi da un atteggiamento fondamentalmente ostile.

 

         Attori imprescindibili

In ogni caso non potremmo terminare questa sintetica panoramica delle interazioni che la leadership talebana sarà chiamata a porre in essere con le realtà esterne se non attirassimo l’attenzione sul ruolo rilevante che quattro altri Paesi svolgeranno nel prossimo futuro nel dipanarsi della crisi.

Il primo di questi è il Pakistan che ha svolto un ruolo decisivo nella presa del potere da parte dei Talebani. Il vero centro di potere in quel Paese. l’“Inter-Services Intelligence” (ISI), l’ente supremo in tema di sicurezza nazionale, è stato ancora una volta il vero motore della “reconquista” talebana, fornendo l’indispensabile supporto finanziario, militare e logistico agli estremisti afghani.

Ben due centri operativi gestiti dall’ISI nelle città pakistane di Peshawar e di Quetta, contigue alla frontiera afghana, sono serviti a rendere inarrestabile l’avanzata dei rivoltosi, altamente motivati ed adeguatamente equipaggiati e riforniti dal loro potente vicino.

Appare del tutto paradossale pensare come la potenza e le capacità operative dell’ISI debbano molto al decisivo supporto degli Stati Uniti nella condivisa lotta contro il terrorismo nelle sue varie forme.

Ebbene gran parte di quel supporto materiale e finanziario americano fornito all’apparato di sicurezza pakistano è andato poi a sostenere i Talebani nella loro implacabile battaglia contro gli stranieri infedeli ed i loro “servi afghani”.

Una costatazione comunque è da fare: il Pakistan non ha mai abbandonato i Talebani, nemmeno quando nel 2001 erano in ginocchio, sotto i colpi dei bombardamenti USA, ed erano pronti a firmare un trattato di pace con gli americani.

Un trattato che sarebbe stato ben diverso nei contenuti da quello sottoscritto da Trump a Doha nel febbraio 2020, maldestramente negoziato da posizioni di debolezza, interamente avallato dal suo successore Biden, nel quale tutto quel che la parte americana è riuscita ad ottenere è stato di poter lasciare l’Afghanistan in maniera incruenta e l’impegno dei talebani di non consentire ai jihadisti di utilizzare il loro territorio per espandere la loro azione nei Paesi della regione (più facile a dirsi che a farsi).

In quell’accordo per converso nessun impegno è stato preso dalla formazione islamista in tema di inclusività politica, dei diritti delle donne e della protezione delle minoranze.

Per converso l’accordo sprezzantemente rifiutato nel 2001 avrebbe risparmiato le stragi e le distruzioni che l’Afghanistan ha dovuto subire per vent’anni, producendo gli stessi fallimentari risultati costatati in Iraq ed in Libia, nonché il disastro dello scorso agosto.

Uno dei non rari esempi dell’insipienza di una policy americana contraddistinta dalla logica del dominio e portata a sottovalutare altre variabili, altri fattori di decisiva importanza quali la conoscenza e la considerazione di lontane, diverse realtà, oggetto di mal celato senso di superiorità, e soprattutto la presa in conto delle conseguenze di scelte mal meditate, poste in essere seguendo la mera logica della “confrontation” militare.

Da tutto ciò emerge comunque come il coinvolgimento del Pakistan si riveli di strategica rilevanza alla luce del condizionante ruolo che Islamabad è in grado di esercitare sui Talebani.

Il rovesciamento del governo di Ashraf Ghani ha rappresentato un successo per Islamabad il cui intento è sempre stato quello di avere alla sua frontiera occidentale un Paese amico ed alleato, in grado di fare da contrappeso a quel che è dato di costatare alla sua frontiera orientale con la sua nemesi, l’India, con la quale per converso l’ex-Presidente afghano intratteneva positive relazioni.

Per il momento il governo di Islamabad, il cui territorio ospiterebbe 1.450.000 rifugiati afghani, preferisce stare a guardare evitando, al pari di altri, di riconoscere il potere talebano, al quale richiede di dar vita ad un governo “inclusivo” e rappresentativo di tutte le componenti etniche e religiose del Paese, un governo chiaramente difforme da quello posto in essere negli anni ‘90.

Un governo a Kabul basato sull’inclusività costituisce in effetti la conditio sine qua non perché una effettiva interazione veda la luce tra le due capitali nel campo dell’antiterrorismo, dove il Pakistan è da anni impegnato in uno scontro senza quartiere con la formazione jihadista di Tehreek–e-Taliban, i Talebani pakistani, pronti a riconoscere il nuovo potere a Kabul.

 Le aspettative del governo di Islamabad vanno da questo momento nella direzione di una fattiva collaborazione da parte dei Talebani afghani nella lotta contro gli estremisti pakistani. Aspettative che, ci sentiamo di affermare, dovranno misurarsi con le dinamiche non rassicuranti del turbolento contesto reale.

Saranno i Talebani afghani in grado di svolgere un ruolo positivo verso il loro alleato di frontiera, alla luce delle passate collusioni esistenti tra le due formazioni jihadiste nei due Paesi, evitando che tutto ciò acuisca le divergenze in seno alla leadership politica afghana, creando altresì problemi per il vicino alleato, da anni impegnato nella lotta contro il terrorismo di casa propria? Introducendo una mal auspicante variabile nella relazione tra Kabul ed Islamabad?

 Da qui si può comprendere l’insistenza con la quale il Pakistan richiede uno sbocco politico a Kabul che soddisfi le aspirazioni del popolo afghano nelle sue diversità.

E questo ci porta a parlare di un altro attore imprescindibile, gli Stati Uniti, i responsabili del dramma afghano dal quale sono usciti in maniera ignominiosa.

Nonostante ciò gli USA rimangono, piaccia o no, il Paese più potente al mondo in grado di controllare e condizionare i flussi della finanza internazionale e delle fonti di ricchezza.

Ciò vale anche per il povero Afghanistan che continuerà a dipendere dall’aiuto internazionale, ora più che mai, alla luce delle terribili sfide poste dal disastrato quadro economico.

Le già menzionate subitanee misure adottate da Washington sugli averi liquidi afghani ed il blocco da parte del FMI e della Banca mondiale dei fondi cui Kabul avrebbe diritto hanno devastanti conseguenze sulla comunità afghana alle quali nessun’altra forma di cooperazione potrà adeguatamente porre rimedio.

In tale contesto l’atteggiamento degli Stati Uniti che si avvarrà della preziosa collaborazione dell’Emirato di Qatar si rivelerà determinante al pari delle scelte politiche che i Talebani porranno in essere sul piano interno.

Proseguendo la breve panoramica sulle conseguenze degli eventi afghani sui Paesi più direttamente interessati, non si possono non menzionare l’India, che intratteneva con il deposto Ghani cordiali costruttive relazioni, nonché l’Emirato di Qatar.

Due entità che hanno ben poco in comune tranne il fatto di non essere confinanti con l’Afghanistan. Ma ciò non impedisce loro di contare e di svolgere un ruolo di rilevanza in quella che sarà la futura evoluzione del quadro politico afghano.

Iniziando dall’India, quel che si può affermare al momento è che New Delhi appare forse tra le realtà della regione quella sicuramente perdente ove si pensi allo spessore raggiunto dai due governi nell’interscambio economico-commerciale, aggirantesi intorno a $1.5 miliardi, e della cooperazione allo sviluppo, parimenti rilevante con un numero molto elevato di progetti e di iniziative sul campo.

Tra le accuse mosse al Presidente indiano Modi figura in prima linea quella di “essersi mosso tardi” nel capire il senso degli eventi, prendendo contatto con i Talebani quando ormai era chiaro come dovessero andare le cose.

New Delhi si è comunque allineata con la posizione degli altri governi succitati, cercando di salvaguardare una costruttiva relazione con i Talebani, una relazione poggiante su basi tutt’altro che trascurabili.

In ogni caso quel che si può affermare è che l’India non mancherà di sfruttare a suo vantaggio qualsiasi problema dovesse insorgere nel rapporto tra Talebani e Pakistan, facendo valere il proprio peso politico e l’alto livello degli apporti nel campo della cooperazione economica e dell’aiuto allo sviluppo.

Passando per ultimo all’Emirato di Qatar la considerazione da fare riguarda l’enorme “ritorno” in termini d’immagine e di credibilità politica conseguito dal minuscolo stato del Golfo il cui ruolo nell’evacuazione di migliaia di persone dall’aeroporto di Kabul ha suscitato un universale coro di apprezzamenti.

Tutto ciò si aggiunge alla costatazione che Doha intrattiene eccellenti relazioni sia con gli Stati Uniti che con i Talebani, essendo stato l’unico Paese ad aver ospitato la leadership afghana in esilio ed avere successivamente ospitato il negoziato di pace tra gli americani e la formazione islamista conclusosi con l’accordo del febbraio 2020.

Il capitale di fiducia guadagnato attraverso simili concrete aperture sta producendo tangibili risultati con la richiesta inoltrata dai Talebani a Qatar di fornire assistenza tecnica nella gestione del traffico civile all’aeroporto di Kabul sulla quale l’Emirato e la Turchia stanno lavorando.

Ciò dà un’idea del ruolo-chiave che Doha è destinato a svolgere in futuro come tramite assai prezioso nell’enucleazione di quella che sarà la policy occidentale verso Kabul in ordine alla quale le principali cancellerie dell’Occidente sono già impegnate.

Nel frattempo nel caos generato dalla subitanea presa del potere da parte dei Talebani, Qatar è passato sollecitamente ai fatti fornendo un prezioso aiuto ad un Paese in ginocchio dove il livello della sofferenza è di una gravità inaudita.

Cibo, medicinali ed altri beni indispensabili sono arrivati all’aeroporto di Kabul, riattivato per i voli civili, in un momento in cui non solo le banche ma anche e soprattutto gli ospedali non sono più in grado di fornire assistenza ad esseri umani in disperato bisogno di usufruirne. E questo grazie alla inumana decisione assunta dalla Banca mondiale di bloccare centinaia di milioni di dollari devoluti alla sanità!

Interessante è altresì rilevare che, in conseguenza della chiusura delle rispettive Ambasciate a Kabul, le Rappresentanze diplomatiche americana, britannica, olandese ed italiana, competenti a curare i rapporti con la leadership talebana, opereranno a Doha, assurto ormai a centro fondamentale di coordinamento nella configurazione delle politiche occidentali verso quello che da questo momento si chiamerà l’Emirato Islamico dell’Afghanistan.

Tutto ciò comporterà inevitabilmente delle conseguenze anche nei rapporti di Qatar con gli altri Paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), in particolare con gli Emirati arabi uniti ed i sauditi, il cui ruolo ha brillato per la loro latitanza e scarsezza di iniziative.

Come già indicato Abu Dhabi ha concesso asilo politico al fuggiasco ex-Presidente afghano Ashraf Ghani, condannato ora da tutti a Kabul, una decisione che verosimilmente non migliorerà la già discreditata immagine dell’uomo forte del Paese, Mohammed bin Zayed al Nayan.

Un quadro ben diverso da quel che era dato costatare appena quattro anni fa quando, all’indomani della visita di Trump in Arabia saudita, quattro autocrazie arabe presero la decisione, rivelatasi assolutamente avara di qualsiasi “ritorno”, di imporre un blocco aereo, terrestre e navale a Qatar, accusato di fomentare il terrorismo e di essere alleato dell’islamista Erdogan.

L’apporto decisivo fornito da Doha nel dramma afghano ed il capitale di influenza acquisito da Qatar con le sue aperture ai Talebani, in momenti diversi dall’attuale, avranno dunque un interessante seguito anche sulle dinamiche in corso nella Penisola arabica, attualmente in via di riconfigurazione.

L’accresciuto “leverage” del minuscolo Emirato si sta rivelando prezioso anche per l’Occidente negli sforzi protesi per garantire gli imprescindibili canali di comunicazione con il nuovo potere a Kabul, già avviatisi sul campo nei drammatici momenti vissuti all’aeroporto di Kabul.

Doha non lesina sulle pressioni sui Talebani perché gli impegni da loro assunti vengano rispettati, anche se i risultati finora conseguiti in proposito sono apparsi ben al di qua delle aspettative.

E ciò alla fine del nostro ragionamento induce a porci un quesito: e se l’enorme investimento politico posto in essere dal Qatar fosse smentito da una governance talebana replicante gli orrori degli anni ’90, quale sarebbe il contraccolpo per il ricchissimo Emirato?

Non sono pochi coloro che trarrebbero un vantaggio da tale sviluppo anche se al momento appare del tutto prematuro porsi il problema di quel che seguirà sul piano dell’evoluzione politica in quel martirizzato Paese dove la leadership islamista appare non del tutto coesa sulla direzione politica da prendere.

Un Paese quindi sotto osservazione, l’Afghanistan, costretto a navigare in difficili acque, confrontato, come vedremo nel paragrafo successivo, a variabili destabilizzanti interne tutt’altro che tranquillizzanti, la cui principale missione sarà quella di rassicurare Paesi amici e nemici, un Paese al quale si chiede di cancellare la tenebrosa esperienza di quel terribile quinquennio (1996-2001) che pesa tuttora come un macigno sull’immagine dei Talebani.

 

           L’idra jihadista

Il successo ottenuto sul campo dai militanti afghani che ha portato al quinto cambio di regime dal 1979, anno dell’invasione sovietica, ha dato esca a manifestazioni di aperto giubilo da parte delle formazioni islamiste nel mondo arabo, sunnite o sciite che fossero.

In particolare gli Hezbollah libanesi ed i Palestinesi di Hamas a Gaza, entrambi sunniti, unitamente agli Houthi yemeniti, di credo sciita, hanno salutato il successo dei Talebani come l’inizio di un processo di redenzione delle masse islamiche contro gli invasori infedeli.

Ma non sono stati i soli, dato che anche schieramenti jihadisti come Hayat Tahrir al Sham (HTS) ad Idlib nel nord ovest della Siria, da tempo sotto il loro controllo con il beneplacito della Turchia, non hanno nascosto il loro giubilo di fronte ad un evento che indubbiamente accresce la loro determinazione a consolidare il loro potere in quell’area del Paese e proseguire la loro lotta contro il detestato regime di Baschar al Assad.

Inoltre, secondo quanto riferito dalle Nazioni Unite in un recente rapporto, il ritiro degli americani dall’Afghanistan avrebbe comportato l’ingresso nel Paese di migliaia di militanti jihadisti provenienti dall’Asia centrale, il nord del Caucaso e la regione occidentale cinese del Xinjiang (ex-Sinkiang).

Secondo informazioni provenienti da altre fonti anche dalla Siria milizie jihadiste, particolarmente non siriane, avrebbero iniziato il loro trasferimento verso latitudini più propizianti quali l’Afghanistan dove non avrebbero eccessive difficoltà a stabilire sinergie con una galassia di militanti sul campo, all’interno ed all’esterno dello schieramento attualmente al potere a Kabul.

Le cifre ora fornite parlano di 8000/10.000 estremisti che andrebbero ad infoltire i ranghi delle formazioni militanti, già ben presenti in Afghanistan.

La vittoria degli estremisti afghani avrebbe dunque fornito la prova di come anche un’armata di insorti forti della loro feroce determinazione e della loro incrollabile volontà sarebbero in grado di tener testa ad eserciti infinitamente superiori sul piano degli armamenti.

Del resto se osserviamo quel che avviene in Yemen dove una tribù araba, gli Houthi, tiene in scacco da più di sei anni potenze regionali, come l’Arabia saudita e gli Emirati, in possesso dei più sofisticati strumenti militari, potremmo anche affermare che la vittoria dei Talebani non costituisce in sé stessa una primizia in assoluto.

Ciò premesso vi è comunque una peculiarità riscontrabile negli eventi afghani ovverossia che alla loro vittoria, secondo testimonianze attendibili, hanno partecipato e contribuito in maniera massiccia unità di al-Qaeda, operanti nel Paese.

La guerra indiscriminata portata avanti dagli USA per vent’anni ha facilitato questi preoccupanti sbocchi rafforzando il ruolo delle formazioni più radicali in Afghanistan.

Ad ulteriore conferma che ovunque vi sia disordine e violenza, generati da aggressioni ed interferenze, il jihadismo militante trova il terreno propizio per espandere la sua influenza ed accrescere il numero dei suoi proseliti.

Secondo le più recenti testimonianze al-Qaeda sarebbe presente in tredici province dell’Afghanistan ed avrebbe i suoi punti di forza particolarmente nel sud del Paese. Il numero di jihadisti stranieri ivi operanti sarebbe più di diecimila e la loro collaborazione, perlomeno passata, con i Talebani non è un segreto per nessuno.

Prova ne sia, come già detto, il coinvolgimento di quelle unità nel blitzkrieg che ha portato in pochi giorni gli islamisti alla conquista di Kabul. 

Ulteriore prova sarebbe stata fornita, secondo quanto riportato dalla stampa americana, dal rifiuto frapposto dai Talebani ai negoziatori USA, nel corso della trattativa a Doha che doveva portare nel febbraio 2020 al cosiddetto accordo di pace, a che al-Qaeda venisse definita nel testo di quell’accordo formazione “terrorista” (!).

Basterebbe questo per affermare che prevedere una rottura tra i Talebani ed al-Qaeda apparirebbe non solo per i consolidati rapporti maturati nel passato ma anche nelle presenti circostanze tutt’altro che scontata.

A tal proposito vi è altresì da segnalare la cospicua presenza in Afghanistan di elementi del famigerato ISIS-K (abbreviazione di Khorasan) il cui numero si aggirerebbe intorno alle 2000 unità, resosi responsabile dell’ultima strage provocata il 26 agosto all’aeroporto di Kabul in merito alla quale da giorni erano stati lanciati “warnings” da parte dell’intelligence anglo-americana.

In diverse passate occasioni sanguinosi scontri avrebbero avuto luogo tra i Talebani appoggiati da al-Qaeda e l’ISIS-K al pari di quanto prodottosi in altre aree del mondo arabo dove il contrasto tra le due formazioni jihadiste si è violentemente più volte manifestato alimentato da una ideologia e prassi politica chiaramente divergenti.

In ogni caso la presenza di elementi del Daesh costituisce un vero incubo non solo per gli afghani ed i suoi nuovi padroni ma anche per gli stessi americani. Al punto che la stessa CIA ha dovuto rivedere i programmi di “disengagement” dal teatro afghano sul quale per converso l’intelligence USA continuerà nei prossimi anni a tenere gli occhi ben aperti.

Ciò dà un’idea dello spessore dell’idra jihadista in una realtà sconvolta da più di quarant’anni di guerre dove attualmente il dato saliente è caratterizzato dalla disperazione di una popolazione confrontata ad angoscianti condizioni di vita, materiali e psicologiche, dalle quali al momento non vede come poterne uscire.

 

                              Conclusioni

Le scene di incontrollato caos e di orrore che hanno avuto luogo a fine agosto all’aeroporto della capitale afghana sono la manifestazione del fallimento di un’impresa condotta come in altre tristi esperienze dando esclusivamente ascolto agli istinti di potenza e di dominio.

  Intervenendo militarmente in un Paese sconvolto da una guerra civile dove ogni ingerenza da parte di una potenza esterna produce devastanti risultati. L’esempio dello Yemen costituisce a tal proposito una ulteriore lampante conferma.

Una guerra durata vent’anni ha non solo distrutto un Paese ma ha messo in moto dinamiche che rischiano di seminare nuova violenza e nuova instabilità in un subsistema già scosso da gravi tensioni, dal Levante fino all’Oceano Indiano. 

I dati reali della situazione fanno intravvedere foschi scenari. Pensiamo al quadro economico-finanziario sul quale incidono gli effetti delle misure punitive decise dagli Stati Uniti e dalle organizzazioni internazionali che colpiranno una realtà già disastrata dove l’aumento dei prezzi, la scarsità di denaro ed emolumenti non pagati da mesi sono al momento la angosciante realtà degli afghani.

Inoltre occorre tener presente che il 40% delle risorse economiche del Paese è dato dall’aiuto esterno, il che fa comprendere il livello di dipendenza dell’Afghanistan. Le Nazioni Unite sono ancora ivi ben presenti ma il blocco degli aiuti intervenuto dopo la presa del potere dei Talebani rende drammatica la situazione degli approvvigionamenti non solo di beni alimentari ma anche di medicine, esponendo la popolazione civile ad una completa carenza di assistenza sanitaria.

Questo è il risultato della decisione, a nostro avviso, crudele, assunta dalla Banca mondiale di bloccare, seguendo l’esempio USA, un aiuto finanziario di $800 milioni devoluti per l’appunto al settore della salute.

Il risultato di tale insana misura è ovviamente quello di colpire civili innocenti e non certo la nomenclatura talebana! Secondo le testimonianze di medici afghani più di 2000 ospedali e centri sanitari sarebbero sul punto di chiudere!

Nulla cambia nel deprecabile disumano modus operandi di certe organizzazioni internazionali.

Ove il suddetto quadro non dovesse migliorare si andrebbe incontro ad una catastrofe umanitaria dove assisteremmo ad una carestia per fame e ad una decimazione della popolazione per mancanza di assistenza sanitaria.

 Pensiamo poi al quadro politico dove la speranza di un governo inclusivo rispettoso dei diritti delle donne e delle diversità religiose e culturali dell’Afghanistan è andata completamente delusa in seguito alla recente creazione di una compagine di governo che, seppur transitoria, si rivela densa di significato politico nel constatare il ruolo dominante assunto al suo interno dalla “vecchia guardia” talebana.

Una compagine il cui carattere di rappresentatività è più che scarso, vista l’assenza al suo interno, oltreché di donne, anche di elementi tagiki, usbechi e Hazara, oltreché di figure politicamente rilevanti, quali l’ex-Presidente Hamid Karzai e Abdullah Abdullah, responsabile del Comitato di Riconciliazione Nazionale che hanno preferito rimanere nel loro Paese piuttosto che fuggire verso un esilio dorato.

 Una équipe di governo, composta in larghissima parte da figure appartenenti all’etnia Pashtoun, il cui carattere di transitorietà non ha impedito ai nuovi decisori di adottare misure alquanto disturbanti quali la creazione di un Ministero per la “Prevenzione del Vizio e la Propagazione della Virtù” il cui compito sarà quello di far rispettare la versione estremamente severa della legge islamica! Atti densi di significato e di portata reale tutt’altro che rassicurante.

Tali poco incoraggianti sviluppi in chiave politica, oltre a impedire lo sblocco dei fondi attualmente congelati dagli Stati Uniti e dalle organizzazioni occidentali, appaiono essere in completa simbiosi con le testimonianze emananti dal Paese in tema di violazioni dei diritti umani e di umiliante emarginazione del ruolo delle donne, condannate ad una rigida segregazione ovunque si trovino ad operare.

 Pensiamo per ultimo alla radicata presenza nel territorio del jihadismo estremista, con il quale per troppo tempo i Talebani hanno allacciato profonde sinergie, che suscita le apprensioni dei Paesi confinanti, quali l’alleato pakistano e l’Iran.

Ebbene, ove si pensi a tutto questo, non si può non condividere il senso di inquietudine manifestato dalle Nazioni unite e da altri analisti che non escludono affatto che l’Afghanistan, perdurando tale stato di cose, si esponga al rischio di una guerra civile.

In considerazione anche del fatto che la ribellione nel Panshjir non è stata affatto eliminata e suscita già favorevoli echi anche nell’ovest del Paese, il cui capoluogo, Herat, è un terreno fertile per la contestazione anti-talebana.

Un senso di apprensione per il futuro è quindi ampiamente giustificato. Inoltre molti si chiedono quale valore attribuire alle rassicuranti esternazioni della leadership afghana e quanto peso si potrà attribuire alle reali capacità di controllo dei vertici politici in una struttura, come quella talebana, fortemente decentrata, dove quel che contano sono le parole d’ordine dei capi locali.

In effetti come potranno i Talebani tenere sotto controllo e riorientare i comportamenti non solo dei propri miliziani sparsi nei vasti spazi del Paese, ai quali si è trasmesso per anni il messaggio del dogmatismo e dell’intolleranza, ma anche della massa di jihadisti, già presenti o provenienti da altre lande dell’universo islamico, attratti dalla possibilità di poter operare nell’Afghanistan di oggi? Verso i quali si dirigerà l’opera di reclutamento dell’ISIS-K?

La compagine di governo, diretta da uno dei quattro fondatori del movimento talebano Mohammed Hassan Akhund, comprende ai vertici della piramide politica formazioni come la “Haqqani Network” (Rete Haqqani), inclusa nella lista delle organizzazioni terroriste, il cui leader, Salujeddin Haqqani, nominato Ministro dell’Interno, sul quale incombe una taglia di $10 milioni, è ricercato dall’FBI per la serie di attentati scatenati negli anni ’90 che avevano seminato il terrore nella capitale afghana, costata la vita anche a civili USA.

La Haqqani Network, fondata dal padre dell’attuale ministro, è vicina ad al-Qaeda e gode di importanti appoggi presso i servizi segreti pakistani. Essa ha una propria esclusiva milizia di più di diecimila guerriglieri che rispondono alle parole d’ordine dei propri capi.

I concilianti intendimenti dei Talebani si sono rivelati illusori e fuorvianti, confortando la tesi di coloro che fin dall’inizio hanno ostentato scetticismo nei confronti di un’organizzazione dove il dogmatismo ideologico non accetta attenuazioni significative, suscettibili di orientare i valori fondanti del proprio messaggio tenendo conto dell’evoluzione del quadro reale dove è chiamato ad operare.

Il che renderà il compito del governo annunciato lo scorso 6 settembre estremamente difficile. Situazione aggravata anche dal vuoto istituzionale e dallo sfaldamento dell’apparato amministrativo, venutosi a creare nel Paese per via degli sconvolgenti eventi prodottisi.

Una sfida resa ancor più problematica dal fatto che a tutt’oggi la compagine governativa non è stata formalmente riconosciuta da nessun governo od organizzazione internazionale, mentre vi è da riscontrare il malcontento degli stessi pakistani, trovatisi confrontati al rifiuto dei Talebani alla richiesta di Islamabad di prendere le distanze dai terroristi pakistani del Tehreek-e-Taleban operanti nel suolo afghano.

Le implicazioni del dramma afghano non si fermano al contesto interno. La stessa superpotenza americana cerca di correre ai ripari cercando di dare assicurazioni agli alleati asiatici scossi dalla perdita di credibilità incorsa dal loro potente alleato in Afghanistan.

L’Asia è il luogo centrale degli interessi strategici USA in aperta contrapposizione con quello che viene visto come l’espansionismo cinese, ergo la necessità di convincere gli alleati in quell’area di strategica rilevanza che l’impegno americano a garantire la loro sicurezza è più che mai in essere.

La visita del Vice-Presidente Kamala Harris a Singapore e ad Hanoi ha avuto quel preciso scopo alla luce dei problemi esistenti particolarmente nel Mar della Cina meridionale dove confliggenti interessi e covanti tensioni sono in gioco che mettono a rischio equilibri planetari.

Riusciranno gli americani a persuadere i loro interlocutori del buon fondamento delle loro assicurazioni, facendo breccia su perplessità e dubbi provocati dal fallimento afghano?

Tutto resta da vedere in proposito anche perché, come sottolineato dai quattro Paesi europei membri del G7, (Regno Unito, Francia, Germania ed Italia) la crisi afghana è appena agli inizi ed una strategia si renderà necessaria nei confronti dei Talebani finalizzata a valutare il tipo di governance che prenderà piede a Kabul dal cui monitoraggio dovrebbe scaturire, secondo gli auspici espressi dai quattro governi, una condivisa policy occidentale, in ogni caso ed in primis europea.

Ma, come abbiamo già accennato, le apprensioni e le inquietudini non sono soltanto percepibili sul fronte occidentale.

Anche nel contiguo spazio regionale si temono le implicazioni di eventi dai quali potrebbero discendere un pericoloso disordine ed una grave escalation delle tensioni.

Abbiamo già parlato dell’attenzione con la quale la Russia ed i suoi alleati membri del CSTO seguono gli sviluppi del turbolento quadro politico afghano, in particolare il temuto espandersi dell’estremismo sunnita nelle repubbliche asiatiche ex-sovietiche, in quella che il Cremlino vede come la sua area d’influenza.

Un’area direttamente, pericolosamente toccata dagli eventi afghani alla luce anche dell’esistenza al suo interno di formazioni jihadiste duramente represse ma non completamente eliminate.

Ma anche in altre contrade del subsistema sono rilevabili le stesse reazioni. Perfino in Iraq, Paese non confinante con l’Afghanistan, culla dell’Islam sciita, si segue con preoccupazione l’evoluzione della crisi.

In particolare quel che si teme è il riesplodere della violenza settaria e etnica da parte dei Talebani nei confronti della minoranza sciita afghana, gli Hazara, il 20% della popolazione afghana, considerati da molti Talebani come stranieri, etnicamente diversi.

Le assicurazioni fornite dalla leadership talebana in merito al rispetto delle differenze e delle diversità non convincono gli ambienti militanti sciiti sia in Iraq sia ovviamente in Iran, timorosi che l’Islam intollerante ed esclusivista esistente nel DNA dei Talebani prenderà di nuovo il sopravvento, scatenando campagne di persecuzione nei confronti dei loro correligionari simili a quelle poste in essere negli anni ’90.

Secondo le testimonianze raccolte accenti minacciosi si odono da parte delle milizie sciite irachene ai quali rispondono gli inviti alla moderazione del Grande Ayatollah dell’Islam sciita in Iraq, Ali al-Sistani, figura interprete dell’autentico messaggio islamico, basato sulla tolleranza e sul rispetto delle altrui credenze e degli altrui valori.

Ma la tensione è patente al punto che, ove i correligionari Hazara dovessero trovarsi esposti alla violenta repressione degli estremisti sunniti afghani, non sarebbe da escludere che ci troveremmo di fronte alla reazione delle milizie sciite irachene ed anche afghane (Fatemiyun Brigades), queste ultime apparentemente già presenti nel Paese.

Diverse al momento appaiono le reazioni iraniane. A tal proposito occorre ricordare che Qassem Soleimani, il carismatico leader delle formazioni al-Quds, assassinato dagli americani nel gennaio 2020 all’aeroporto di Baghdad, aveva concluso nel 2015 un accordo di collaborazione con i Talebani.

In effetti da quell’accordo positive interazioni tra iraniani e talebani erano scaturite nel condiviso intento di nuocere alla presenza militare americana nella regione.

Da ciò discende il desiderio iraniano di mantenere un quadro di collaborazione con la nuova leadership a Kabul enfatizzando le convergenze obiettivamente esistenti sul piano politico tra le due parti, sminuendo o mettendo da parte le aree di divergenza.

La posizione di Teheran è che solo perseguendo una politica di “appeasement” nei confronti della leadership islamista si potranno garantire al meglio gli interessi della minoranza sciita in Afghanistan.

Una posizione non interamente apprezzata né dagli Hazara né dagli ambienti sciiti iracheni, malanimo alimentato dal livore nutrito dagli Hazara nei confronti degli iraniani per il modo tutt’altro che amichevole e rispettoso nel quale gli sciiti afghani, rifugiati in Iran, sarebbero trattati nella Repubblica islamica.

Anche questo appare dunque come un mix potenzialmente esplosivo che potrebbe sfuggire al controllo condizionante di Teheran ove quel che si teme dovesse tradursi in realtà.

Perplessità e cautela contraddistinguono altresì l’atteggiamento dei cinesi e dei pakistani, certamente tra quelle entità che hanno visto con malcelato compiacimento il fallimento dell’impresa americana nel vicino Afghanistan.

Perplessità e cautela basate sulla costatazione che, ove l’Afghanistan dovesse divenire un altro “failed state”, anche Pechino e ancor più Islamabad si troverebbero a confrontarsi con una realtà incontrollata sulla quale a quel punto difficilmente potranno contare ai fini della realizzazione dei loro disegni nel subsistema.

Come pensare di poter espandere la gigantesca rete del “Belt and Road Initiative” (BRI) cinese in un Paese più a rischio dello stesso Pakistan dove cooperanti cinesi sono stati recentemente vittime di attentati ed atti di violenza?

Come pensare che Pechino potrà mettere profittevolmente la mano sull’eldorado afghano, una manna da $3 mila miliardi, in una realtà dove le Nazioni unite temono che si possa produrre una catastrofe umanitaria, aggravata dal disfacimento delle infrastrutture civili, dalla quale chi può cerca di fuggire?

La sfida che attende la diplomazia cinese, consistente a trarre vantaggio dal disperato bisogno di aiuto della leadership afghana, si rivelerà alquanto ardua ricordando anche il passato aperto sostegno dei Talebani ai membri del governo in esilio degli Uyghur, etnia il cui idioma appartiene al ramo anatolico, propugnatori del messaggio indipendentista dell’Emirato del Turkestan orientale in luogo dell’attuale Xinjiang (ex-Sinkiang) dell’ovest cinese.

Contingenze passate che al presente né gli islamisti afghani né i cinesi comprensibilmente desiderano riesumare.

Resta comunque la costatazione che a tutt’oggi il governo di Pechino non ha ritenuto di riconoscere formalmente il potere talebano, limitando il proprio apporto all’invio di beni di prima necessità per un valore di $31 milioni.

In definitiva poco farebbe pensare che la Cina sia nel presente stato di cose disposta a dare l’avvio ad un programma di investimenti in settori di strategica rilevanza dai ritorni tutt’altro che garantiti. Né le ripetute assicurazioni esternate dai Talebani paiono aver fatto breccia nel muro di scetticismo caratterizzante l’approccio cinese.

 E per quel che riguarda il Pakistan come poter interamente contare sul turbolento vicino percorso da insicurezza e dove i talebani pakistani del Tehreek-e-Taleban (TTP) hanno già iniziato a sfruttare al meglio il nuovo quadro politico creatosi in Afghanistan, lanciando attacchi dal suolo afghano contro unità militari pakistane al di là della frontiera? Provocando inevitabilmente la reazione militare di Islamabad contro il territorio di coloro che hanno beneficiato in larghissima misura dell’appoggio militare e logistico pakistano?

Dalla cui frontiera un flusso ininterrotto di rifugiati cerca di entrare nel suolo pakistano, già sede di centinaia di migliaia di rifugiati afghani, per sfuggire ad una esistenza di miseria e disperazione? Inevitabilmente aggravando il già precario quadro di sicurezza nel finitimo Paese?

Come si può notare a nessuno, men che mai alle entità della regione, sfugge un senso di inquietudine per quel che seguirà in presenza, lo ripetiamo, di segnali fin da ora tutt’altro che incoraggianti.

Il fallimento di una guerra inutile, voluta dall’ala più intransigente dell’apparato militare americano, ha tutta l’aria di avere acceso un nuovo pericoloso focolaio di incontrollato disordine ed instabilità in un’area di strategica rilevanza.

Da qui scaturirà anche per gli Stati Uniti la necessità, piaccia o no, di cercare di preservare, sfruttando il prezioso canale di contatti dell’Emirato di Qatar, un rapporto con i Talebani, già utilizzato nei terribili momenti dell’evacuazione di migliaia di persone dall’aeroporto di Kabul.

Washington sarà dunque costretta a valutare l’opportunità o meno di mantenere le sanzioni in considerazione delle catastrofiche conseguenze che da esse potrebbero derivare per gli interessi americani alla luce del devastato quadro economico-sociale afghano, dove l’attrazione delle formazioni jihadiste di al-Qaeda e dell’ISIS-K potrebbe accrescersi in misura proporzionale all’espandersi del caos e della violenza, dell’indigenza e della miseria.

Preoccupante appare in tale contesto quanto segnalato dalle Nazioni Unite circa il flusso di jihadisti attratti dagli eventi afghani e dalla prospettiva di dar vita in Afghanistan alla creazione di un Califfato.

Prospettiva non concretizzatasi in Iraq ed in Siria, dove peraltro le cellule (“sleeper cells”) rimangono ben attive ed operanti, ma che trovano ora in Afghanistan condizioni propizianti per una sua realizzazione.

Di fronte a tali non rassicuranti sviluppi quale sarebbe la reazione USA? Domanda più che legittima alla luce del cruento “backlash” americano agli attentati del Daesh del 26 agosto, caratterizzatosi ancora una volta per l’indiscriminato lascito di sangue tra i civili afghani, bambini in particolare.

Il che induce taluni ad immaginare che Washington non starebbe a guardare se è vero che la lotta all’ISIS rappresenta, come bellicosamente reiterato dallo stesso Presidente Biden e dai comandi militari dell’alleato britannico, una priorità assoluta nel campo dell’antiterrorismo.

Tutto lascia insomma prevedere che le minacciose incognite del puzzle afghano continueranno ad attirare le attenzioni delle cancellerie internazionali in una nuova versione del “Great Game” dai tratti ben diversi rispetto a quelli riscontrabili nelle passate cruente esperienze coloniali.

Un “Great Game” dal quale, in considerazione del peso degli attori coinvolti e dell’importanza sotto ogni profilo, politico, economico e securitario, della crisi afghana, la stessa sostenibilità degli attuali precari equilibri globali verrebbe in larga misura a dipendere.