CARTA (STAGNOLA) CANTA

 

Why does Afghanistan grow so much opium?

 

Nell’ottobre del 2001, mentre Bush junior attaccava l’Afghanistan in risposta agli attentati dell’11 settembre, io cominciavo i miei primi corsi di storia contemporanea e di dottrine politiche all’Università di Bologna. Ero una matricola che cercava di capire i concetti di capitalismo, neo-imperialismo, globalizzazione o esportazione della democrazia e di approfondire la storia del potere, delle guerre e del passaggio di consegne dalla pax britannica a quella americana. Non fu difficile comprendere che le guerre che affrontava la Gran Bretagna nell’800 per il controllo del commercio dell’oppio attraverso eserciti e banche dedicate rappresentavano il precedente in grado di far luce sulle logiche che muovono gli attuali conflitti legati al narcotraffico ma non avevo ancora colto la stretta relazione tra i miei studi e la stagnola annerita che trovavo di frequente per terra sotto i portici vicino al mio appartamento.

 

Se per gli analisti di Limes dunque, la questione dell’oppio in Afghanistan rientra solo nella categoria dei “tra l’altro” e il parallelo con il Vietnam rappresenta solo una nota di colore (o una botta di calore estivo), personalmente, posso permettermi di avere una posizione meno smaccatamente “atlantista” e ritengo necessario usare la stessa lente per focalizzare le esperienze del primo e del secondo paese produttore di oppio al mondo (mezzaluna d’oro afghana e triangolo dell’oro tra Myanmar e Laos) le cui logiche di guerra e di potere sono estendibili anche alla Colombia (altra centrale della produzione e del traffico di cocaina) e per certi versi anche al Messico, l’altro grande produttore di eroina per il mercato americano ma di minore qualità (a quanto affermano gli assaggiatori).

Da quell’ottobre 2001 la produzione di oppio in Afghanistan è aumentata del 5.000.000% e, guarda caso parallelamente in Europa una droga che all’epoca sembrava fuorimoda è ritornata violentemente nelle strade di Londra, di Bologna e persino in quelle del mio piccolo paese salentino. Nel bilancio della guerra, le vittime dell’eroina in occidente sono da sommare al circa mezzo milione di morti in guerra e ai miliardi spesi per le operazioni militari.

Come al solito in Afghanistan, più che la democrazia si stava esportando la corruzione subentrando nel controllo delle piantagioni attraverso la connivenza del governo Karzai. Eppure noi italiani abbiamo partecipato e avevamo avuto tutti i segnali del disastro, molti scandali potevano servirci da monito ma, nella società dell’usa e getta, anche le notizie una volta che le getti è difficile ripescarle dall’immondizia.

Mi riferisco alla vicenda di malacooperazione che nel 2006 costò la vita a Stefano Siringo e Iendi Iannelli, due giovanissimi cooperanti italiani che vennero uccisi (a suon di eroina pura) perché avevano scoperto un clamoroso ammanco nelle fatturazioni di IDLO (organizzazione incaricata dal ministero degli Esteri per la ricostruzione del sistema giudiziario in Afghanistan). E ancora il caso della soldatessa italiana che nel 2011 denunciò il coinvolgimento di militari Nato nel traffico di eroina dall’Afghanistan al Kosovo e poi all’Europa. In entrambi i casi, l’imperativo è stato quello di archiviare e dimenticare. A chiedere verità restano i familiari e qualche fanatico nei centri sociali. Eppure droga, armi e malacooperazione che ci fanno rivivere gli omicidi di Ilaria Alpi, Miran Hrovatin e Vincenzo Li Causi nella Somalia degli anni ‘90.

Oggi, in un mondo vulnerabile, sprovveduto, mediaticamente acquitrinoso, sono poche le voci importanti che hanno il coraggio di pronunciare la parola “eroina” per capire cosa è successo veramente in Afghanistan, ancora meno quelli che hanno le palle di affermare che i trust farmaceutici sono complici del conflitto e utilizzano l’oppio afgano per la produzione degli analgesici. Eppure è dall’avvento dell’economia finanziaria che ormai le holding e le multinazionali non trattano più solo in un settore ma si occupano di affari in senso lato: dai farmaci (vaccini compresi), all’agricoltura, al calcio, alla droga, alle armi prevedendo i dovuti “meccanismi” bancari per riciclo e il reinvestimento dei proventi.

Chi ha un po’ di dimestichezza con la storia quindi, non si meraviglia di ciò che accade ma di ciò che non viene detto, di chiavi di lettura semplicistiche e della favoletta democratica che non regge più nemmeno per le casalinghe. Personalmente mi fido più di una sana, plurale e sfaccettata analisi storica e geopolitica rispetto alle campagne mediatiche delle femministe americane contro i talebani o dei video propagandistici costruiti o utilizzati all’uopo per le solite logiche di terrorismo e vittimismo funzionali alla narrazione di servizio.

Nessuna meraviglia quindi di fronte alle immagini di questi giorni, il ritiro era già annunciato da anni e gli americani ci hanno abituati a “scazzare i finali” usando l’espressione usata da Charles Wilson, lo stratega celebrato nel film con Tom Hanks, colui che organizzò le operazioni della CIA e dell’ISI (servizi segreti pakistani) durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan in cui vennero formati e armati i Mujaheddin e i Talebani e a seguito della quale il paese restò, ancora una volta, in preda al caos e a un vuoto di potere. L’ennesima dimostrazione di come non esista alcuna intenzione di avviare un processo di pace nella regione anzi guerra, destabilizzazione e corruzione vanno a braccetto con narcotraffico.   

Visto che Gino Strada se n’è andato qualche giorno fa e io non ho fatto il necrologio sui social gli rendo onore citando l’ottimo libro del giornalista di Emergency, Enrico Piovesana sulla nuova guerra dell’oppio sperando, in maniera disillusa, che la prossima volta riusciremo a non dimenticarci quanto imparato quando eravamo all’università a ripulire la stagnola dagli angoli delle strade.

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Alberto Piccinni è laureato in Relazioni Internazionali all’Università di Bologna e lavora come cooperante internazionale in Libano e in Algeria. Educatore e MusicArTerapeuta, ha coordinato in Italia e all’estero progetti dedicati all’infanzia e alla disabilità nei campi profughi di lunga permanenza e ricerche storiche e antropologiche nel campo culturale e geopolitico a scopo scientifico o divulgativo.