Gaza. L’ennesima aggressione ed un punto di svolta

27 maggio 2021

 

La Striscia di Gaza tra Israele e l’Egitto

 

Il Levante ha registrato in questo mese di maggio il quarto cruento episodio delle aggressioni perpetrate da Israele contro la Striscia di Gaza, il luogo più densamente popolato al mondo dove 2 milioni di palestinesi vivono miseramente, esposti alle conseguenze del blocco aereo, terrestre e navale imposto da Tel Aviv e dall’Egitto del dittatore al-Sisi a partire dal momento in cui Hamas ha assunto le redini del governo nel 2007 in esito al responso favorevole scaturito da una consultazione elettorale. L’unica prova elettorale di cui il popolo palestinese ha potuto beneficiare a tutt’oggi!

 

Nel titolo dell’esposizione abbiamo parlato di un punto di svolta rispetto a quanto sinistramente in passato prodottosi con una cadenza quasi regolare nel 2008, 2012 e 2014.

Il punto di svolta non ha ovviamente riguardato il bilancio di sangue registratosi fino al momento in cui, grazie agli sforzi dispiegati dall’Egitto in primis ed anche dalla Giordania e da Qatar, sostenuti in maniera defilata dagli Stati Uniti, un cessate il fuoco è stato raggiunto tra Israele e la formazione islamista di Hamas.

In tal modo si è riusciti a porre termine all’ennesimo scempio prodottosi: 254 civili morti a Gaza, di cui 66 bambini, 12 vittime in Israele, tra i quali due infanti, nonché 28 dimostranti uccisi dalla repressione israeliana nel corso dei moti di rivolta scoppiati in Cisgiordania.

Anche sotto il profilo delle distruzioni inflitte dall’aviazione di Tel Aviv nell’enclave nulla è cambiato. Gli F-16 con la stella di David non hanno esitato nelle loro indiscriminate missioni a colpire e distruggere infrastrutture civili, ospedali, scuole, abitazioni (più di 2000 andate distrutte), arrivando perfino a radere al suolo l’edificio ospitante la sede di due emittenti stampa ben note al mondo, al-Jazeera e l’Associated Press.

La giustificazione addotta dagli israeliani per il criminoso atto è stata che all’interno dell’edificio operasse una centrale di Hamas, argomentazione esternata senza ovviamente fornire alcuna prova in merito. La finalità dell’operazione era probabilmente ben diversa.

Sotto questo profilo nulla è cambiato, poco da invidiare all’altrettanto tragico bilancio registrato nel 2014 all’indomani della terza aggressione, sinistramente denominata “Cast Lead” (piombo gettato). Fino a qui le terribili analogie.

 

    Tratti differenziati

Le differenze per converso emergono quando la nostra osservazione si sposta in direzione del quadro politico, dissimile da quanto aveva caratterizzato le tre precedenti aggressioni.

Intendiamo riferirci alla causa profonda che ha dato origine all’ultimo eccidio. Essa trova la sua origine non in Gaza ma a Gerusalemme est, la capitale putativa di uno Stato palestinese la cui prospettiva, prevista da accordi stipulati in sede internazionale, appare più che mai remota, per non dire ormai inattuabile, alla luce dell’evoluzione o piuttosto involuzione prodottasi in questi ultimi anni.

Vi è da ricordare che Gerusalemme è sede di uno spazio che la comunità islamica considera il terzo luogo più sacro dell’Islam dopo la Mecca e Medina, entrambe in Arabia saudita.

Il suddetto spazio, chiamato in arabo Haram ash-Sharif (Santuario sacro) ospita al suo interno la moschea di al-Aqsa dove i mussulmani palestinesi provano da tempo crescenti difficoltà ad adempiere ai propri doveri religiosi a causa dei comportamenti abusivi della polizia israeliana e dei coloni ebrei, entrambi impegnati nel perseguimento di un disegno volto a caratterizzare quegli spazi principalmente per i loro tratti giudei, riconducibili secondo la loro narrativa religiosa a profezie bibliche.

Lo scopo è quello di alterare il più possibile quei luoghi sacri, estirpando la mala pianta della religione del Profeta e di fatto vanificando in maniera definitiva la prospettiva auspicata dalla comunità internazionale di fare di Gerusalemme est la capitale di uno Stato palestinese libero e sovrano, confinante con lo Stato di Israele, anch’esso in possesso dei suoi riconosciuti diritti.

Quel che è accaduto nei giorni precedenti il 10 maggio è in effetti da collegare a quanto sopra delineato. Ma non il solo. Ad esso si è aggiunto l’intento brutalmente perseguito dai coloni ebrei, sostenuti dall’attuale governo presieduto da Benjamin Netanyahu, di riprendere possesso sulla base di una sentenza della Corte suprema israeliana dell’agglomerato di Sheikh Jarra, il quartiere di Gerusalemme abitato da secoli da palestinesi, cacciando dalle rispettive abitazioni centinaia di famiglie per far posto a coloro che da anni hanno occupato illegalmente gli spazi palestinesi, disattendendo gli accorati ed impotenti richiami della comunità internazionale.

I due abusivi summenzionati sviluppi, di puro stampo coloniale, hanno di fatto viaggiato insieme. Mentre la polizia ebraica si scontrava con gli abitanti del quartiere nell’intento di cacciarli dalle loro dimore, dando vita a scene di violenza inaudita, qualcosa di sacrilego avveniva nel contempo all’interno della moschea di al-Aqsa dove le forze dell’ordine israeliane sparavano proiettili di gomma contro i fedeli colà raccolti.

Qualcosa di inaudito e di mai visto, rivelatore della vera essenza del regime sionista intento a calpestare il valore storico, religioso e politico per l’intera umanità di spazi, punto d’incontro e di condivisione di tre civiltà, tre culture e tre religioni.

Un qualcosa che ha fatto rivivere quel che era avvenuto 21 anni fa quando il Netanyahu dell’epoca, Ariel Sharon, anch’egli espressione dell’estrema destra sionista, entrò in maniera provocatoria nel compound sacro di al-Aqsa sì da creare le condizioni per lo scoppio della Seconda Intifada palestinese.

Questo in sintesi ha costituito il retroscena che ha portato alla quarta guerra ingaggiata contro l’enclave araba di Gaza. La scintilla che doveva dar fuoco alle polveri è stato l’aut-aut intimato dal governo islamista a Tel Aviv di porre termine agli attacchi generalizzati contro la comunità palestinese a Gerusalemme est, pena una cruenta ritorsione armata da parte di Hamas.

Questa volta dunque la vera causa della guerra non è partita da Gaza ma da Gerusalemme dove la ferita inferta dalla Potenza occupante ha interessato e coinvolto l’intera comunità palestinese che non poteva rimanere indifferente di fronte al vulnus inflitto ai valori e simboli della propria identità.

Dopo aver visto le cause, differenziate rispetto al passato, arriviamo ora ai tratti differenziati di quest’ultimo conflitto rispetto ai tre che l’hanno preceduto.

Le conseguenze di simile costatazione si sono anch’esse rivelate impattanti. L’aggressione ha scatenato non solo una pioggia continua di razzi da parte delle brigate di Hamas, circa 20.000 combattenti, contro Israele, in una prova di forza militare finora mai vista, ma anche la rivolta delle altre comunità palestinesi residenti all’interno dello spazio israeliano e nella Cisgiordania amministrata, sotto tutela israeliana, dall’Autorità Palestinese, mai eletta, e gestita in maniera autoritaria da Mahmoud Abbas, capo indiscusso e contestato dalla grande maggioranza di coloro che egli pretende di rappresentare.

Questo a nostro parere si è rivelato il fatto saliente ovverossia la presa di coscienza da parte di un’intera comunità, includendovi anche quella facente parte della diaspora, del carattere insostenibile ed intollerabile dell’oppressione israeliana, ormai in essere dal lontano 1948 quando centinaia di migliaia di palestinesi furono cacciati dalle loro terre per andare a condurre una vita di miseria ed emarginazione nei Paesi della regione ed in altre aree del mondo.

In sostanza il conflitto di questi giorni ha segnato il superamento delle differenze e delle diverse esigenze, superate grazie ai caratteri distintivi delle cause a base di quest’ultima aggressione, di fronte ad abusi e soprusi commessi a Gerusalemme e nei suoi luoghi santi assolutamente inaccettabili, lesivi dell’identità e dei valori fondanti di un intero popolo.

In presenza di ciò nessun palestinese si è tirato indietro, limitandosi ad osservare, tristemente ma passivamente, il corso degli eventi, com’era avvenuto nelle altre tre precedenti cruente esperienze.

Una simile trasformazione non la si osservava dal 1948 quando anche allora tutto un popolo era insorto ed aveva subito sofferenze mai dimenticate, codificate nella narrativa araba con il termine di “Nakba”, la catastrofe, la cui 73esima ricorrenza lo scorso 15 maggio è stata per così dire “celebrata” nel bel mezzo del conflitto di pochi giorni orsono.

Significativi sono apparsi in tale contesto i moti di rivolta scoppiati per le stesse ragioni nella finitima Giordania, sede di una folta comunità palestinese, dove masse di popolazione hanno perfino cercato di varcare la frontiera con Israele per sostenere la rivolta dei loro fratelli.

Manifestazioni di protesta che il monarca hascemita Abdullah bin Hussein si è ben guardato dal contrastare alla luce del pessimo andamento dei rapporti tra Israele e la Giordania, custode quest’ultima di quei luoghi sacri dove le esazioni sioniste hanno quotidianamente luogo.

In definitiva è tutta la Ummah o comunità islamica, dal Senegal al Pakistan, dall’Iran allo Yemen, che ha tenuto a manifestare con virulenta enfasi il proprio dolore e profonda solidarietà con l’universo palestinese in un momento cruciale per il movimento di resistenza di un popolo. 

 

       Il fallimento di una strategia

In tale occasione non abbiamo assistito ad una terza Intifada, almeno sino ad ora, ma ad uno scontro militare le cui conseguenze immediate sono state subite anche in Israele.

Le scene di panico osservate fino a Tel Aviv di fronte alla pioggia di missili provenienti dall’enclave hanno colpito per il loro carattere inedito. Le distruzioni inflitte ad edifici e strutture civili nelle città israeliane sono state una testimonianza del salto di qualità registratosi nel cruento scontro.

Le divergenze manifestatesi in Israele tra la leadership politica ed i comandi militari in merito alla condotta delle operazioni di guerra, gli attacchi della destra sionista, impersonata dall’ex-Ministro degli esteri Avigdor Liebermann, contro coloro responsabili di aver accettato il cessate il fuoco hanno costituito la prova delle divisioni e del profondo malessere covanti in seno alla leadership politica e militare israeliana.

La portata di simili fatti va al di là degli effetti materiali provocati da un conflitto che ha deluso le aspettative di Netanyahu e dei suoi accoliti di assestare il colpo del KO al governo islamista dell’enclave. Anche se in base a quel che si apprende la partita sembrerebbe non terminata e la tentazione di scatenare una nuova guerra di aggressione e di distruzione parrebbe sussistere al livello dei vertici militari.

I cruenti eventi di maggio hanno altresì comportato il fallimento del disegno israeliano di sfruttare i quattro accordi di normalizzazione con gli Emirati, Bahrein, Sudan e Marocco, avallati dalla Casa Bianca e dall’Europa, al fine di risolvere la questione palestinese promuovendo iniziative di pace con il mondo arabo e svuotando di contenuto i persistenti effetti di una ferita mai rimarginata.

Tutto questo dopo la recente guerra degli 11 giorni non si è prodotto. L’impatto del conflitto e le circostanze che lo hanno generato suonano prepotentemente conferma che nessun accordo con attori esterni che non coinvolga direttamente i palestinesi e riconosca le loro legittime esigenze potrà mai aggirare e risolvere una questione che da sempre è considerata nel mondo arabo come un vulnus, fonte di dolore e di incontenibile comprensibile senso di rabbia.

Significative sono apparse le risultanze di un’indagine demoscopica denominata “Arab Opinion Index” condotta in 13 Paesi arabi in esito alla quale è emerso che l’88% degli intervistati ha manifestato la propria contrarietà alla normalizzazione dei rapporti con Israele, mentre il 79% ha tenuto a riaffermare che prima di ogni normalizzazione dovrebbe essere risolta come prius la questione palestinese.

Il disegno di Netanyahu di risolvere l’annosa questione senza risolverla è dunque fallito. La ferita resta più che mai aperta, essa ha riacquistato perentoriamente tutta la sua tragica attualità corroborata dall’allargarsi del conflitto che ha visto la macchina da guerra dello stato ebraico impegnata su tre fronti: non soltanto Gaza ma anche lo stesso spazio interno israeliano, dove una guerra civile strisciante è esplosa tra ebrei ed i palestinesi di nazionalità israeliana, compromettendo irreversibilmente una pacifica convivenza ulteriormente avvelenata dagli arresti indiscriminati attualmente in corso contro la minoranza araba, e la Cisgiordania dove la rivolta si è egualmente prodotta con il suo pesante tributo di sangue.

In conclusione nulla sarà più come prima, il fuoco della resistenza si è riacceso, ponendo la leadership israeliana di fronte a sfide e problemi che ora comprendono anche gli equilibri politici interni, scossi dal clima di intolleranza etnica creatosi in conseguenza della rozza ed abusiva policy di dominio perseguita dall’entità sionista.

Aver scatenato una repressione selvaggia ed una guerra di distruzione, pomposamente denominata Custodi del Muro (“Guardians of the Wall”) nell’occasione dell’ultimo giorno del Ramadan e della ricorrenza della Nakba, coinvolgendo anche i luoghi sacri dell’Islam non è stata invero un’idea produttiva e ciò si ripercuoterà negativamente sulla Potenza occupante, incapace di uscire da una crisi politica interna che continua a germinare i semi del malessere e della divisione.

Ben quattro successive elezioni non sono riuscite a creare le condizioni per la formazione di un governo a Tel Aviv in grado di assicurare ad Israele una dignitosa stabilità politica.

E quel che è avvenuto in questo mese di maggio non sembra in verità aver contribuito a migliorare il torbido clima ivi imperante. Vi è in molti la consapevolezza che, anche se si riuscisse a spodestare Netanyahu, il più longevo Capo di governo della storia israeliana, difficilmente si riuscirebbe a liberarsi della sua influenza e del suo peso politico.

 

          Negative risultanze

L’ambizione dell’estrema destra sionista di procedere senza ostacoli sulla strada della completa annessione degli spazi palestinesi si rivelerà da questo momento di ardua concretizzazione.

Quel che è avvenuto, l’indomita prova di forza fornita da Hamas che dopo l’ennesima aggressione può ora a giusto titolo fregiarsi del titolo di leader della lotta del popolo palestinese, riconosciuto ora non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania e nella maggioranza dei paesi arabi, rivestono un indiscutibile rilievo nella contrapposizione al suddetto disegno.

In effetti i drammatici eventi di quegli 11 giorni hanno creato come d’incanto quel che le leadership politiche palestinesi non sono state in grado di conseguire per decenni ovvero l’unità delle masse arabe che con la loro azione hanno contribuito a ridare alla questione palestinese quel rilievo sul piano internazionale che fino allo scorso aprile era andato progressivamente scemando.

In tal modo sono riuscite a sconfiggere l’intento di Netanyahu di porre in sordina la questione palestinese, concentrando l’attenzione delle cancellerie, soprattutto occidentali, sul “pericolo iraniano” e sulla conseguente necessità di ostacolare l’intento dell’Amministrazione Biden di riavviare con Teheran il processo negoziale.

Tale malevolo disegno è fallito e le conseguenze si ripercuoteranno anche sulla Penisola arabica dove la speranza che la preda più ambita nel quadro della tanto osannata normalizzazione con Israele, l’Arabia saudita, possa a breve termine entrare a far parte del lotto di Paesi attirati dall’idra sionista appare da questo momento alquanto remota.

In effetti sembrerebbe piuttosto improbabile che Mohammed bin Salman, il dispotico giovane reggitore di fatto del Regno wahabita, alla ricerca di una sua legittimazione politica tuttora da dimostrare, decida di operare una scelta in tal senso in un momento in cui il livore della Ummah è allo zenith.

Stesso discorso vale per gli Emirati arabi uniti il cui principale intento nel decidere di normalizzare la relazione con Tel Aviv risiedeva in buona misura, traendo profitto dall’appoggio incondizionato dell’ex-Presidente Trump, nel promuovere iniziative economico-finanziarie all’insegna dell’high-tech, suscettibili di ancorare la propria proiezione di potenza, visibilmente estrinsecatasi in esito all’aggressione contro lo Yemen del 2015, al sostegno d’Israele.

Mohammed bin Zayed cercherà alla luce dei tragici eventi in terra di Palestina di enfatizzare al massimo la dimensione mercantilista, evitando verosimilmente di fare altrettanto sotto il profilo politico e culturale. Consapevole com’è della intrinseca fragilità nella quale sistemi dispotici come il suo vengono a trovarsi nei frangenti sopra descritti.

 

       Un nuovo scenario

Un nuovo allargato fronte palestinese ha dunque visto la luce, un qualcosa che non era più emerso dal lontano 1948, l’anno della “catastrofe”.

Anche lo sciopero generale dichiarato in tutti i territori palestinesi per le cause sopra esposte non avveniva dal 1936 quando le maestranze palestinesi si ribellarono contro l’odiata oppressiva presenza coloniale britannica.

Quella rivolta resta ben scolpita nella mens collettiva delle masse arabe per il tributo di sangue e di cieca violenza che caratterizzò la repressione che ad essa doveva seguire, i prodromi di quel che successivamente, sotto altri padroni, avrebbe poi portato alla tragedia del 1948.

Nuove variabili politiche fanno la loro apparizione. Il compiacimento con il quale in Occidente si era assistito alla conclusione degli Abraham Accords, le intese di “normalizzazione” con le quali alcuni Paesi arabi, in primis gli Emirati, aveva formalizzato una collaborazione con Israele già di fatto in essere da anni, hanno ora lasciato il posto al disincanto delle opinioni pubbliche occidentali.

Le risultanze scaturite da recenti sondaggi realizzati negli Stati Uniti appaiono indicative. Da essi si evince un crescente riconoscimento dei diritti dei Palestinesi ed un aperto biasimo nei confronti delle distruzioni e delle stragi perpetrate a Gaza nonché degli atti di pulizia etnica di cui gli israeliani si rendono colpevoli a Gerusalemme est, Cisgiordania ed in Israele ai danni della minoranza araba.

Ciò trova corrispondenza nelle pressioni e nelle iniziative poste in essere dall’ala “progressive” del Partito democratico dove aperte critiche sono rivolte al Presidente Biden per il suo ostentato incondizionato appoggio ad Israele e per il disconoscimento dei diritti dei palestinesi.

In aperto contrasto con l’ostentato riconoscimento del “diritto di Israele a difendersi”, passando sotto silenzio le terribili prevaricazioni inflitte alla comunità araba con forme di violenza fisica e psicologica di fronte alle quali l’attuale inquilino della Casa Bianca ed il suo Segretario di Stato Tony Blinken hanno preferito a tutt’oggi chiudere gli occhi.

L’imponente manifestazione in favore dei palestinesi avvenuta in questi giorni a Londra con più di 200.000 presenze ha fornito conferma di come anche in Europa il clima stia cambiando, seguite da altre analoghe svoltesi negli Stati Uniti, in Italia, passate per comprensibili ragioni con pochissime eccezioni sotto silenzio dalla stampa nostrana, ed in Germania.

Nel contempo nella stessa Germania ed anche negli Stati Uniti si rileva purtroppo anche l’insorgere di una deriva razzista con un aumento esponenziale dell’antisemitismo, come se i recenti esecrabili fatti avessero risvegliato in quei Paesi stimoli forse mai sopiti.

In definitiva è come se finalmente ci si accorgesse in Occidente che il continuo sostegno alle aberranti politiche di apartheid perseguite da Tel Aviv si riveli un esercizio di puro masochismo dal quale solo il terrorismo potrà trarre giovamento.

In ogni caso la resistenza del popolo palestinese ed il ruolo svolto da Hamas hanno indubbiamente avuto il merito di riproiettare con forza la questione palestinese al centro della dialettica internazionale, mostrando la vera essenza di quegli Accordi di normalizzazione con Israele, dimostratisi fallaci per gli interessi arabi.

 

       Ulteriori conseguenze

Il sentiero appare ormai tracciato. Esso non potrà prescindere dalla continuazione della lotta contro un sistema di oppressione che trova la sua codificazione formale nella stessa Legge fondamentale dello Stato ebraico.

Tale legge significativamente denominata “Nation-State Law” approvata dalla Knesset, il Parlamento israeliano, nel 2018 sancisce in maniera chiara e formale il carattere dello Stato in Israele, “Jewish State”, dove solamente alla comunità ebraica vengono riconosciuti la pienezza dei diritti ed i privilegi ad essa derivanti dallo status di cittadinanza.

In questa realtà la minoranza araba, il 20% della popolazione appartenente all’entità israeliana, patisce di fatto gli effetti di una discriminazione più o meno occulta sfociata in una aperta rivolta a seguito delle irresponsabili azioni perpetrate da Netanyahu a Gerusalemme est e nello spazio sacro di Haram ash-Sharif.

Una precaria convivenza si è trasformata in una feroce contrapposizione a carattere etnico, i prodromi di una temuta guerra civile, avvelenando il già difficile clima politico del Paese.

Questo è stato uno dei risultati più calamitosi per una leadership israeliana, contestata e profondamente divisa, alle prese con problemi di sostenibilità politica.

Questo è anche il prezzo che Israele sta pagando a causa della pervicace volontà del suo, dai più detestato, leader,  Benjamin Netanyahu, disposto a tutto, anche a scatenare una guerra di aggressione, pur di evitare di pagare i suoi malsani conti con la giustizia del suo Paese.

Questo ci fa capire come ampiamente giustificati ed attendibili appaiano i commenti apparsi sulla stampa israeliana che fa stato di “una guerra senza alcuna visione e senza scopo” (“pointless and aimless”) che ha inferto colpi gravi agli interessi ed all’immagine del Paese.

Dalla prova di forza di quegli 11 giorni di sangue e di cruento scontro Israele è dunque uscita politicamente indebolita, a dispetto delle trionfalistiche esternazioni del suo corrotto leader, apparentemente appagato nel suo desiderio di continuare a svolgere quelle funzioni che gli permetteranno ancora per qualche tempo di sfuggire agli artigli dei tribunali del suo Paese.

 

     Fatti concludenti

Abbiamo parlato di nuovi sviluppi che hanno inciso anche sulla considerazione dello scontro. Hamas ha visto crescere la sua deterrenza militare e politica presentando al nemico un volto diverso da quello riscontrabile in occasione della precedente terribile guerra dell’estate 2014.

Il che rende a nostro parere privo di senso e di attuabilità ogni tentativo da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati europei di riavviare un negoziato di pace che continui a prescindere in toto, come enfaticamente riaffermato dall’Amministrazione Biden in questi giorni, dal coinvolgimento di Hamas alla luce delle visibili manifestazioni di plauso esternate dalla popolazione palestinese nei confronti della formazione islamista.

Hamas viene tuttora considerata in Occidente una formazione “terrorista”, senza tener conto dell’evoluzione intervenuta al livello delle visioni politiche dello schieramento fondato nella seconda metà degli anni ’80 da Ahmed Yassin, in occasione della Prima Intifada. Nel marzo 2004, come si ricorderà, il fondatore di Hamas, paraplegico da una tenera età e quasi cieco, venne proditoriamente assassinato dagli israeliani nel momento in cui si era reso portatore di una proposta di dialogo con Israele.

In estrema sintesi nell’ultimo Manifesto politico pubblicato nel 2017 Hamas ha ripudiato il concetto di “guerra di religione”, reiterando peraltro sia la propria opposizione al sionismo, considerato non del tutto a torto dalla forza palestinese come espressione della volontà di dominio ed assoggettamento del popolo palestinese sia l’accettazione dell’idea di pervenire un giorno alla realizzazione della soluzione dei due Stati.

Ebbene di questo in Occidente si continua a non tener conto con un sostanziale allineamento sulle posizioni della destra israeliana. Unica eccezione nell’arengo occidentale – val la pena di menzionarla - risulta essere l’Irlanda, Paese membro dell’Unione europea e parte dell’area euro, il cui Parlamento ha recentemente adottato con l’approvazione del suo Governo posizioni coraggiosamente critiche del modus operandi israeliano al quale Dublino rimprovera “l’annessione di fatto dei territori palestinesi in violazione della legge internazionale”.

Un segnale importante di come progressivamente insostenibile divenga il non dialogante approccio americano è stato fornito dallo sconcerto e dalle inquietudini creatisi in seno all’Autorità palestinese, considerata dalle cancellerie una forza “moderata”, il cui Ministro degli esteri Riyad al-Maliki ha pubblicamente espresso dubbi e perplessità, chiedendosi nel corso di un’intervista rilasciata all’emittente araba al-Jazeera se, alla luce degli ultimi eventi, l’organizzazione diretta in modo autocratico da Mahmoud Abbas poteva considerarsi “tuttora rilevante”.

Una domanda a nostro avviso ampiamente giustificata ove si pensi non solo alla latitanza del suddetto movimento nella tragica prova di forza ingaggiata con la Potenza sionista, che ha visto, per converso, il coinvolgimento questa volta di tutte le comunità palestinesi, all’interno ed all’esterno di Israele, ma anche alla deprecata decisione assunta alla fine di aprile da Mahmoud Abbas, alla quale nessuna rilevanza è stata incredibilmente data da Biden e dal suo Segretario di Stato.

 Essa ha portato all’annullamento, per l’ennesima volta, di una prova elettorale che apparentemente lo dava perdente nel confronto con figure carismatiche quali Marwan Barghouti, tuttora detenuto in un penitenziario di massima sicurezza israeliano, per scontare cinque condanne all’ergastolo per accuse relative a sue presunte colpe in occasione nel 2000 della Seconda Intifada.

La decisione di Abu Mazhen, come solitamente è chiamato negli ambienti arabi, ha esasperato le tensioni non solo con la formazione rivale di Hamas ma anche e soprattutto all’interno dello schieramento di Fatah, l’espressione politica dell’Autorità palestinese, dove il malcontento verso la gestione personalistica di Abbas è giunta ad un livello poco meno che esplosivo.

Tutti deleteri aspetti, ripetiamo, implacabilmente ignorati dagli Stati Uniti, per converso non completamente disconosciuti dalla Germania dove la Cancelliera Merkel ha per la prima volta non escluso la possibilità che un negoziato, seppur in via indiretta, venga avviato con la formazione islamista.

In effetti lo scopo di quella abortita consultazione, che, ove regolarmente svolta, sarebbe stata la prima dopo quella dai cruenti seguiti svoltasi nel 2006 a Gaza, era sia di conferire una vernice di legittimità democratica ad una rappresentanza politica mai eletta, considerata connivente con i sistemi di sicurezza israeliani, sia di preparare una auspicabilmente pacifica transizione del potere in seno all’Autorità palestinese, processo ineludibile alla luce dell’età e del precario stato di salute di Mahmoud Abbas.

Non solo. Ma essa aveva tra le sue finalità anche quella di costituire il primo passo verso una migliore intesa tra le fazioni palestinesi, in perenne contrasto da più di un decennio, suscettibile di creare le condizioni propizie per la tanto auspicata, ma al momento alquanto remota, loro riunificazione.

Tutto questo non è avvenuto a causa della miopia e dei calcoli di potere di un leader che, a parere dell’analista israeliana Dahlia Scheindlin, trova il modo di restare su quello scanno evitando di esporsi al vaglio dei suoi aspiranti elettori, nel contempo portando avanti una biasimevole repressione ai danni di studenti, attivisti ed intellettuali.

Quel che è seguito non ha comunque contribuito ad attenuare tensioni e risentimenti in seno ad una galassia palestinese confrontata al salto nel buio che una scomparsa del vecchio padrone comporterà in termini di stabilità del quadro complessivo della resistenza palestinese.

La prospettiva che in presenza di quella evenienza si assista ad un moto generalizzato di rivolta delle masse arabe in Israele e nei Territori occupati viene considerata da molti osservatori come reale.

Da qui emerge quindi la fondatezza degli interrogativi che perfino un personaggio come Riyad al-Maliki si è posto, evitando di dar loro risposta, senza celare peraltro il senso di inquietudine per quel che potrebbe riservare l’avvenire.

Aver annullato una consultazione che agli occhi degli osservatori appariva come l’inizio di un costruttivo processo politico, ha per converso significato un pericoloso passo indietro dal quale poco rassicuranti risultanze potrebbero derivare.

 

    Prospettive non incoraggianti

Come si può notare le prospettive di un miglioramento del contesto generale appaiono tutt’altro che incoraggianti ovunque si getti il nostro sguardo,

Né le incongruenti e poco costruttive esternazioni della diplomazia USA paiono confortanti in proposito. L’Amministrazione Biden, costretta a ridare attualità e rilievo ad una questione che non rientra propriamente negli interessi strategici della Potenza americana, da una parte concorda nel riconoscere che l’unica via d’uscita dalla crisi debba passare per la “soluzione dei due Stati”, dall’altra non si discosta dal riaffermare il diritto di Israele di difendersi, chiudendo volutamente gli occhi di fronte al massacro ed allo scempio ancora una volta perpetrati da Israele.

Negativamente emblematica è apparsa inoltre nei primi giorni del conflitto la decisione USA di opporre per ben quattro volte il veto a proposte di una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU con le quali si cercava di giungere ad un accordo dei quindici membri in favore di un cessate il fuoco.

Fatti rivelatori di quale sia la reale inclinazione americana sulla questione palestinese e di come la perpetuazione di essa dia adito a pochissime speranze perfino sotto il profilo di un riavvio di un processo di pace.

Tutto ciò, tradotto in termini pratici, vuol dire soltanto questo: garantire a Tel Aviv che quel che di abusivo e di contrario alle leggi internazionali è stato finora compiuto, per decenni, non si potrà più modificare, avendo a mente le conseguenze della devastante occupazione degli spazi palestinesi intervenuta in questi ultimi anni che ha portato all’insediamento nei territori ora occupati di più di 600.000 coloni.

 A questi atti di flagrante violazione di ogni norma Washington non ha mai ritenuto di opporsi. Nulla lascia prevedere che l’Amministrazione Biden abbia sulla base di quel che si è costatato finora intenzione di farlo.

In proposito è utile ricordare come fu proprio durante l’Amministrazione Obama che il maggior volume dell’aiuto militare fu erogato a favore della Potenza sionista, andato ben al di là dei $3.8 miliardi che puntualmente ed annualmente il contribuente americano versa a tale scopo nelle casse israeliane.

Continuare a parlare di una soluzione dei due Stati, ormai divenuta poco meno di una chimera, riaffermando come recentissimamente avvenuto l’incrollabile (“ironclad”) appoggio ad Israele, rileva a nostro parere di una strategia volta a guadagnar tempo, nella speranza che i cospicui fondi USA impegnati per la ricostruzione e la riabilitazione dell’enclave, dai quali Hamas continua ad essere categoricamente esclusa, si rivelino la bacchetta magica per sopire le tensioni e lenire le ferite inferte.

In tal modo facendo chiaramente comprendere come l’intento principale sia di aggravare le divisioni in seno allo schieramento palestinese, replicando quel che è sempre stata una costante della policy americana sulla questione: trattare la crisi utilizzando gli strumenti dell’aiuto umanitario in luogo di cercare di risolvere un problema la cui soluzione passa attraverso risposte ad esigenze ed aspettative che appartengono esclusivamente alla sfera politica.

Esigenze ed aspettative che non possono essere comprate ma prese in considerazione ed il più possibile soddisfatte. Nulla di tutto questo accade nella perpetuazione di un atteggiamento perdente cui non si intende rinunciare.

 A questo si accompagnano inevitabilmente l’assenza completa da parte americana di ogni riferimento all’avvio di un processo di pace e la persistente riaffermazione del fatto che l’unico interlocutore degli Stati Uniti nella gestione della crisi rimane l’Autorità palestinese diretta dallo screditato e dai più contestato Mahmoud Abbas.

La stessa decisione presa da Washington, nonostante l’opposizione israeliana, di riaprire il Consolato USA a Gerusalemme est, precedentemente chiuso dalla Presidenza Trump, affrancandolo dall’Ambasciata americana dove era stato inserito dopo lo spostamento della Rappresentanza a Gerusalemme, va visto essenzialmente, seppur nei suoi positivi tratti, quale un ulteriore viatico a favore del leader palestinese, in un momento in cui è confrontato ad una evidente crisi di credibilità, all’interno ed all’esterno del suo spazio.

A pensarci bene il “playbook” suesposto ci riporta mutatis mutandis a quello che l’ex-Presidente Trump definiva l’Accordo del secolo (“Deal of the century”) nel quale si configurava una soluzione della questione palestinese utilizzando gli strumenti del business e della cooperazione economica nel pieno disconoscimento dei diritti fondamentali di un popolo che reclama da decenni giustizia, rispetto e libertà.

Ciò ci porta inevitabilmente a nutrire pessimismo su quel che seguirà. La pace non potrà scaturire finché il presente quadro di intollerabile ingiustizia a danno del popolo palestinese perdurerà, come per converso recentemente ed apertamente riconosciuto dalle Nazioni Unite, e le suddette irresponsabili chiusure politiche continueranno a perpetuarsi.

Tanto più vero risulta questo ove si tengano a mente gli elementi nuovi emersi dalla quarta guerra arabo-israeliana ovverossia l’accresciuto spessore politico e militare di Hamas ed il coinvolgimento delle masse palestinesi, ferite nei loro valori identitari e religiosi, ignorati e calpestati.

L’anima di un popolo è insorta in un moto di irrefrenabile contestazione di un ordine inaccettabile. Le divisioni emerse al livello della leadership politica e militare israeliana, le critiche mosse da larghi settori della società su una guerra “scriteriata”, alimentano la determinazione palestinese a perseverare in una contrapposizione ritenuta necessaria ed inaggirabile prima che l’irreparabile eclissi di un popolo si produca.

Né gli effetti dei cosiddetti Accordi di normalizzazione conclusi con Israele dagli Emirati, Bahrein, Sudan e Marocco nel perseguimento di obiettivi che nulla avevano a che vedere con la soluzione dei mali che affliggono la Nazione araba possono costituire un benché minimo punto di riferimento.

Nulla degli sviluppi positivi annunciati dalle quattro contestate ed impopolari leadership arabe a favore del problema palestinese in conseguenza della stipulazione delle intese si è verificato.

Al contrario si è assistito ad una esasperazione delle tensioni e ad un atteggiamento di arrogante sfida da parte di Israele nei confronti di tutti coloro, includendovi le Nazioni Unite e lo stesso alleato strategico statunitense, inclini con accenti ben diversi a ricordare le vere cause della tragedia che si sta svolgendo sulle rive del Mediterraneo.

La repressione selvaggia in corso contro la minoranza araba all’interno di Israele hanno significato la reazione di Tel Aviv ai richiami emananti da un alleato più che mai connivente e da una Organizzazione internazionale impotente e posta di fronte ad insormontabili ostacoli.

 

     Effetti sul quadro regionale

Al contrario il Paese arabo in procinto di trarre giovamento dai luttuosi eventi di Gaza sembra essere l’Egitto che per parte sua, curiosa casualità, aveva visto non favorevolmente i succitati Accordi se non altro perché andavano visibilmente contro i propri prevalentemente economici interessi.

In effetti gli sforzi prodigati dal Cairo per giungere ad un cessate il fuoco hanno colpito per la rapidità di decisioni assunte che potrebbero migliorare il disastrato clima sociale nell’enclave. All’indomani del concordato cessate il fuoco al-Sisi non ha perso tempo nell’annunciare che il suo Paese si dichiarava pronto ad “impegnare” $500 milioni per finanziare iniziative di riabilitazione suscettibili, secondo le prime testimonianze raccolte, di assicurare posti di lavoro al 50% dei lavoratori attualmente disoccupati.

Questa sollecitudine farebbe comprendere l’intento egiziano di recuperare quel ruolo d’importanza sul piano regionale uscito menomato dai quattro Accordi di normalizzazione con Israele ed in presenza del tormentato contenzioso con l’Etiopia a proposito della Grande Diga costruita sul Nilo Azzurro.

L’Egitto rimane per la sua collocazione geografica ed i suoi interessi, nel silenzio delle autocrazie del Golfo con l’eccezione di Qatar, un interlocutore imprescindibile nel reperimento di un sostenibile sbocco negoziale dell’esplosiva crisi.

La forza e la determinazione con le quali il Cairo ha guidato gli eventi in quelle tragiche ore nonché i migliorati rapporti intrattenuti con Hamas, giungono conferma di quanto si rivelerà prezioso il coinvolgimento egiziano nelle presenti circostanze.

In tal senso va visto l’annunciato inizio di un negoziato indiretto, patrocinato dagli egiziani, che dovrebbe coinvolgere quanto prima israeliani, Hamas e l’Autorità palestinese, mirato a creare le migliori condizioni per l’avvio del processo di ricostruzione nell’enclave di Gaza, utilizzando i promessi apporti finanziari non solo egiziani ed americani ma anche quelli annunciati da Qatar e dalle Nazioni Unite.

Riesce agevole comprendere l’importanza di una trattativa del genere il cui successo potrebbe, il condizionale è d’obbligo, schiudere prospettive al momento difficili da scorgere. Si vedrà.

Uno sbocco negoziale appare comunque pressoché inimmaginabile, in un contesto segnato da profondo pessimismo su quel che seguirà. La perentoria riaffermazione da parte delle parti in conflitto di posizioni drastiche ed inconciliabili non fa in effetti ben sperare.

Ma una costatazione merita, ancora una volta, di essere sottolineata. Come conseguenza di quel che è accaduto in quegli undici giorni di distruzioni e di sangue nulla, diciamo nulla, sarà più come prima.

Molto probabilmente nuove esplosioni ci attendono, fonte di lutti e di dolore. Ma esse avranno comunque il merito di collocarsi nella direzione di un iter storico che si rivelerà inarrestabile nel suo costante processo di trasformazione.